Una parte di me (Tony Blair, che punta sul coté intimistico); La regina di tutti noi (Beppe Severgnini, lanciato in una spropositata autoespansione); L’ultimo legame con la storia (Aldo Cazzullo in simil Fukuyama), e poi Il secolo lungo di Elisabetta (La Stampa) e quello ancora più lungo di Repubblica e Nazione (La regina dei due secoli); senza contare l’immancabile Grande icona pop (Il Messaggero, ma anche ovviamente Gianni Riotta).
Non sono solo alcuni titoli dei giornali a suscitare qualche sorriso (l’originalità solitamente è altrove che alberga), sono piuttosto gli spazi (per lo più, le prime sette-anche nove pagine) e i commenti dedicati alla morte della regina Elisabetta. Un ammasso di parole, una mitragliata di ricordi, banalità e aneddoti che sarebbero in certo senso anche comprensibili se non recassero un sottotesto dal sapore quasi marziano: rassicurante, concentrico, perfino monarchico, a dir poco conservatore, così lontano non dico dai famosi “rapporti di produzione” ma da quella cosa terra terra chiamata realtà. Che una dipartita – sia pure illustre come questa e non certo precoce (“non è stata strozzata in culla”, dicono a Firenze) – possa funzionare per distrarre, per alleggerire una pubblica opinione stressata da affanni e sciagure in atto e in arrivo, potrà sembrare anche un paradosso, ma è esattamente quel che sembra succedere. Come se dalle sorti della monarchia inglese – e non da un mondo avvitato in una spirale antidemocratica, dalla guerra in Ucraina, da una crisi energetica che rischia di essere senza precedenti, dalle miserie di una politica in clamoroso deficit culturale, da una coppia femminile niente affatto rassicurante posta a guida delle cose europee (la Von der Leyen eternamente balbettante e la Lagarde che passa il tempo a scusarsi per le sue uscite troppo avventate) – dipendesse il futuro di un’Europa dalla quale la Signora Inghilterra è già ufficialmente uscita il 23 giugno del 2016 con un voto che, in fondo, non faceva che mandare a effetto le parole rivolte da Winston Churchill a De Gaulle nel giugno del 1944: «Sappia che se dovremo scegliere tra l’Europa e il mare aperto, sceglieremo sempre il mare aperto».
A sentire radio, a vedere tv e leggere i giornali, l’impressione è proprio questa, che in certi momenti e in determinate condizioni a un evento luttuoso si possa dare perfino il benvenuto. In un’epoca di incertezze a raffica come l’attuale, una certezza per eccellenza come la morte ha il curioso dono di rassicurare. Certo “finisce un’epoca” è frase fatta dal fascino insostituibile (molti la sfoggiarono anche in occasione della morte del principe consorte Filippo, figuriamoci ora), ma si resta e si resterà comunque grosso modo anche dopo nel regno della stabilità, della consuetudine, della confortevole tradizione. Anche con Carlo III, il re più anziano della storia d’Inghilterra, mai troppo amato prima ancora che dagli inglesi da un’opinione pubblica a suo tempo – e forse per inerzia ancora adesso – fin troppo avviluppata nell’immagine blairiana di lady Diana “principessa del popolo” che tanto successo globale riscosse intorno alla metà anni Novanta, fino a oscurare lì per lì la stessa sovrana Elisabetta: con la tragica morte certo, ma prima ancora (tre anni prima) con la infelice e disperata intervista del 1992 (quella del “matrimonio troppo affollato”, per intenderci) mandata in onda sulla solitamente correttissima BBC, opera di un giornalista che la estrose alla giovane principessa dopo aver dato false notizie). Quell’anno, la regina Elisabetta lo definì annus horribilis (prima dell’intervista della nuora e delle anticipazioni del suo libro c’era stati la separazione del figlio Andrea e il divorzio della figlia Anna, senza contare l’incendio al castello di Windsor sede principale della reale ditta), ed in effetti sembrò per un momento che tutto da quelle dorate parti stesse per cedere. Fu allora però che la coppia Elisabetta-Filippo riuscì a dare il suo meglio, a far quadrato intorno a un regno i cui scricchiolii si sentivano fin qua. Insieme, la coppia, fu capace di attutire tutti i colpi, mettendo in fuori gioco perfino la convinzione di Kipling, che pure in fatto di giungle non era secondo a nessuno: «cosa mai sanno dell’Inghilterra essi che non sanno d’altro?». Chiusi nel loro reame, lei con i suoi cavalli e i cani, lui con le macchine e la tecnologia (il segreto di un buon matrimonio è avere interessi distinti” dissero loro) ritirarono su le sorti comunicative della monarchia, pronti perfino a fronteggiare in qualche modo l’imbarazzante scandalo firmato dal figlio Andrea e le velenose frecciate scagliate da qualche disinvolta americana di nome Meghan, pronte a rompere qualche altro uovo nel paniere, anche lei come Diana convinta di poter ribaltare una volta entrata a corte le regole ferree della dinastia di Windsor…
«L’umanità non è richiesta» è la frase che in una puntata di The Crown le rivolge il primo ministro laburista Harold Wilson, ed in effetti è proprio quello da cui la regina Elisabetta poteva essere dispensata; quello su cui ha costruito il proprio monumento, fedele al celebre primo messaggio rivolto per radio nel 1947, dopo la morte del padre Giorgio VI, ancor prima di essere incoronata:
«Davanti a voi dichiaro che la mia intera vita, sia essa lunga o breve, sarà dedicata al vostro servizio e al servizio della nostra grande famiglia alla quale tutti noi apparteniamo».
Da allora, si può dire non si sia mossa di un passo, senza che nemmeno il più seriale degli utilizzatori a vanvera di luoghi comuni sia riuscito ad accusarla di “populismo”. In settant’anni ha saputo conservare (mai verbo fu più intonato) il suo proverbiale riserbo, a costo di apparire una specie di sfinge colorata (rigorosamente in tinta unita), che sotto la sua aria bonaria da capodinastia (quattro figli, otto nipoti e dodici bisnipoti) continuava a regnare su quella cosa che si chiama Commonwealth, l’organizzazione che tanto sa di imperialismo light che non comprende solo stati come le isole Salomone o la Guyana, ma anche Australia, Canada e Sudafrica. Non solo, con la sua enigmatica fermezza ha potuto dare una parvenza di stabilità a un Paese, l’Inghilterra, che negli ultimi vent’anni, politicamente, ha offerto uno spettacolo a dir poco risibile: dallo spiaccicamento filoamericano di quel Blair esaltato dalla nostra sinistra e dai suoi opinionisti di fiducia (l’asse D’Alema-Polito, per non far nomi) all’arrivo di Brown dipinto come la vera eminenza grigia del governo Blair saltato dopo pochi mesi; dal Cameron ciclista e politicamente suicida (cui comunque bisogna dare il merito di aver mantenuto, a differenza di altri dei casa nostra, la promessa di andar via in caso di sconfitta referendaria) a questa Truss ennesima lady di ferro dopo la ruvida Thatcher e l’insipida Theresa May…Da questo punto vista, la monarchia inglese è servita eccome. Per tenere insieme una politica che annaspa anche oltre Manica, non certo in chiave neoimperialista come suggerisce Aldo Cazzullo sul Corriere: «Ai britannici serve una figura che tenga insieme popoli diversi: inglesi, gallesi, scozzesi irlandesi e i milioni figli del Commonwealth». Posizione perfino coraggiosa, in tempi di talora scalmanata cancel culture…
Un «macchinario senz’anima: un paese in cui il dominio borghese si è innestato su quello feudale senza soluzione di continuità», scriveva Heinrich Heine nel 1822 in Englische Fragmente; osservazione acuta, ma che guardava solo in negativo a questo popolo-isola che alla Modernità europea ha sempre fatto da battistrada. La sua brava cacciata degli ebrei l’aveva fatta già a fine XIII secolo, sotto Edoardo I, salvo poi riammetterli con George Orwell nel XVII, permettendo loro di armonizzarsi al meglio negli ingranaggi del paleocapitalismo; passato poi con relativa scioltezza dal paganesimo celtico al cristianesimo e capace poi di compiere, con lo scisma per caso di Enrico VIII dal cattolicesimo la prima Brexit della storia. Un Paese in cui, come ebbe a notare il grande Chesterton, le masse hanno sempre amato la Chiesa senza aver stabilito mai di preciso cosa fosse, «viva nei sentimenti ma vaga intellettualmente parlando».
Vago, ora, è anche il futuro di questo regno, affidato a un Carlo III che in sala d’attesa ci è rimasto fin troppo e al quale l’informazione non riserverà di certo le stesse benevoli o nel peggiore dei casi comprensive attenzioni riservate a sia madre. Così come vago è il governo inglese affidato anch’esso, in curiosa contemporanea, a una new entry dall’aria non troppo rassicurante. Ma forse ancor più vago è il futuro di un’Inghilterra, di un continente intero come l’Europa, il più ricco del mondo, obbligato dalla pandemia a rivolgersi all’estero perfino per le mascherine, da cui, almeno a parole, nessuno o quasi vuole più uscire, ma di cui solo un cieco non è in grado di constatare a ripetizione quanta distanza ci sia tra l’unità tanto invocata a parole e quella riscontrata nei fatti…