OGGETTO: Gli ultimi bagliori della civiltà ebraica orientale
DATA: 16 Marzo 2022
FORMATO: Letture
Con “Ebrei erranti”, pubblicato nel 1927, Joseph Roth ha voluto mostrare al pubblico occidentale il quadro di una civiltà secolare nel cuore dell’Europa orientale già orfana degli Asburgo. La celebrazione disillusa di un mondo prossimo ad essere cancellato dalla storia.
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Nel 1927 un grido di dolore in quel crepuscolo che fu l’anticamera di un incubo ormai prossimo ad addivenire, si materializzò nella prosa asciutta, elegante, pungente da reportage giornalistico di Joseph Roth, in Ebrei Erranti, testimonianza splendida e malinconica dell’Europa Orientale ebraica.  Roth è autore di alcune tra le più suggestive rappresentazioni letterarie del declino e del crollo della civiltà asburgica, come ne La Cripta dei Cappuccini:

«Mio padre sognava un regno slavo sotto il dominio degli Asburgo. Sognava una monarchia degli austriaci, degli ungheresi e degli slavi. E a me, che sono suo figlio, sia concesso dire a questo punto che, se mio padre fosse vissuto più a lungo, m’immagino che avrebbe potuto forse cambiare il corso della storia.»

Negli occhi dei propri protagonisti egli è uno spettatore inerme e lucidissimo del collasso dell’impero austro-ungarico e degli ultimi fuochi di una cultura mitteleuropea e danubiana orgogliosa, un po’ colta, un po’ miserabile, destinata ad essere cancellata definitivamente con il secondo conflitto tedesco; decapitata della propria componente ebraica. 

Ebrei erranti (Adelphi) di Joseph Roth

Un mondo complesso e frastagliato. Agli occhi di un occidentale addirittura incomprensibile. Roth scrive Ebrei erranti con una precisa considerazione in prefazione, nutrita di malcelato disprezzo per quel vicino Occidente:

«Questo libro rinuncia a quei lettori “obiettivi” che dall’alto delle torri traballanti della civiltà occidentale sbirciano con comoda ed acida benevolenza il vicino Oriente e i suoi abitanti: che per puro umanitarismo deplorano l’insufficienza delle fognature e per timore di essere contagiati rinchiudono gli emigranti poveri in baracche in cui la soluzione di un problema sociale è affidata alla morte in massa.»

Sembra tremendamente profetico Joseph Roth. E sa anche che gli unici che avrebbero potuto comprendere il suo libro, le sue parole, sarebbero stati i lettori in grado di vedere la grandezza umana nella sporcizia, nel dolore e nella sofferenza. Solo a tali lettori sarebbe potuto emergere il contributo dell’Europa orientale e del suo ebraismo ad una civiltà occidentale fiera dei propri “materassi puliti”. L’ebreo orientale è un miserabile. Un accattone. Un venditore ambulante. In Occidente esso si inserisce in un mondo differente, dalle immense possibilità. Può diventare ministro, ingegnere, intellettuale. Eppure smarrisce così il contatto con quel retroterra arido e a tratti ostile della patria slava, di cui non vede «l’ampiezza dell’orizzonte, né la qualità di quel materiale umano che, dalla follia, può generare santi e assassini, melodie di malinconica grandezza e di amore invasato». Anche a Vienna, cerniera d’Europa, l’ebreo di origine orientale vive in un ghetto, a Leopoldstadt. E si sente uno straniero. I loro compagni di fede sono viennesi, non ebrei. Il partito ebraico nazionale è un partito borghese e loro sono perlopiù proletari. Esemplari potrebbero essere le parole e le descrizioni di due autori quasi coevi di Roth, espressione letteraria di quelle due grandi città, Vienna e Praga, che sono l’emblema dell’ebraismo borghese e di quello proletario. Da un lato, la Vienna di Stefan Zweig ne Il mondo di ieri, simbolo colto e raffinato dell’alta cultura austriaca ed ebraica:

«Le ultime case della città si specchiavano nel possente fluire del Danubio, o guardavano la basta pianura o finivano in giardini e campi o risalivano con lievi colli le ultime verdi propaggini alpine; era difficile avvertire dove cominciasse la città e finisse la natura, l’una si fondeva nell’altra senza resistenza o contrasto.»

Dall’altro lato la Praga di Meyrink – per la verità anch’egli viennese – dei vicoli fatiscenti descritti nel Golem:

«Mi misi a percorrere con lo sguardo le case stinte, che parevano accovacciate l’una di fianco all’altra come vecchi animali neghittosi nella pioggia. Che aria squallida e cadente avevano tutte. Stavano lì addossate senza criterio, come erbacce che spuntano dal terreno.»

In Joseph Roth è in fondo questa aria squallida e cadente d’Oriente, l’espressione di una estesanazione ebraica. L’ebreo orientale sta male in Occidente. E allora perché se ne va? Forse, secondo Roth, lo fa per istinto, solo per sottrarsi alle angustie della propria terra di origine. Ma molti sono coloro che ritornano indietro, o rimangono per strada e non giungono mai alla meta e si perdono in un luogo che non è più e non sarà mai la loro patria:

«Gli ebrei orientali non hanno patria in nessun luogo, ma tombe in ogni cimitero. Molti diventano ricchi. Molti diventano importanti. Molti diventano attivi in una cultura straniera. Molti smarriscono se stessi e il mondo.»

Taluni restano nel ghetto e nella miseria. Non scorgono la bellezza di quell’Oriente, abituati a vivere in luride strade, in case cadenti. Scrive Roth, come fin dalla più tenera età essi imparino a conoscere il dolore e lo sconforto nella preghiera:

«La lotta appassionata con un Dio che punisce più di quanto ami, e che ogni piacere lo fa pagare come un peccato; il dovere rigoroso d’imparare e di ricercare l’astratto con occhi giovani e ancora assetati di grandi ideali.»

Non sono solo rabbini, commercianti o mendicanti. Sono poeti e pensatori. E poi falegnami, calzolai, sarti, pellicciai, bottai, vetrai. Sono al di sopra e al di là di ogni concetto di nazionalità. Il sionismo li sta forse convincendo ad abbracciare un concetto di stato nazione che è europeo-occidentale nell’essenza. Il sionismo è nei fatti un prodotto austriacoviennese, ebreo-occidentale. L’ebreo occidentale alla Zweig, colto, raffinato e borghese. «Ebrei del tempio» li chiama Roth, signori ben educati «che foderano il libro delle preghiere con l’editoriale della rivista ebraica preferita perché credono di essere meno riconoscibili con questo editoriale che non con il libro delle preghiere». 

Sono lontani parenti dell’ebraismo orientale, caratterizzato da un assoluto orgoglio per la propria condizione. L’ebreo orientale si fa prendere a sassate ed ingiuriare, consapevole che un giorno sarà il vincitore, che «nulla potrà accadergli se Dio non lo vuole e che non esiste riparo più meraviglioso della volontà di Dio». È del tutto insignificante per l’ebreo orientale qualunque tipo di legge che garantisca la sua libertà o quella della nazione a cui appartiene, poiché pensa che dagli uomini non si possa ottenere nulla. Egli è un «Ebreo di Dio» che non lotta per la Palestina. Sa di potersi rivolgere al rabbino. Il rabbino che leggendo e consultando giorno e notte i libri sacri, li conosce a memoria, e ascolta, ascolta chiunque venga da lui per chiedere aiuto, soccorso e consiglio:

«Ha imparato a spiegare le parole delle scritture e i comandamenti di Dio in modo che non contraddicano le leggi della vita e non rimanga mai un varco attraverso il quale l’obiettore possa svicolare. Dal primo giorno della creazione molte cose sono cambiate, ma non la volontà di Dio, la quale si manifesta nelle leggi fondamentali dell’universo.»

Ma Roth vi vede anche altro. Ci pone dinanzi agli occhi il canto e la gioia di un popolo intero, come nella festa della Torà, quando dedicano al proprio Dio la «gioia dei propri sensi» di modo che «facevano del libro delle leggi più severe la propria amata e non distinguevano più fra il desiderio fisico e il piacere spirituale, di cui anzi facevano tutt’uno». Intorno, lo slavo li osserva. Crede che l’ebreo abbia, per definizione, molto denaro. Tutta apparenza, sostiene Roth: il proletario ebreo non ha il becco di un quattrino, patisce persino la fame, eppure vuol fare una vita da borghese. Si astiene dal consumare i pasti per mangiare una volta a settimana come un ebreo benestante. Manda i figli a scuola, li veste bene, risparmia, possiede sempre un oggetto, eredità antica di un popolo antico. Non vende nulla, né si ubriaca. L’ebreo di qualunque condizione «non vuole essere un proletario, vuole distinguersi dalla popolazione povera del suo paese, recita la parte del benestante.»

Scritto dieci anni prima della guerra e nutrito di palpabili inquietudini per una intolleranza descritta; colorato delle nitide descrizioni di una civilizzazione radicata e fremente, che attende il suo Messia, e ha fiducia e timore del suo Dio al netto di ogni difficoltà, Roth regala in questo testo molto più di una testimonianza di un mondo destinato a perire. Esso sembra un ultimo respiro, esalato prima della tragedia dei campi di sterminio. E nei volti guardinghi delle popolazioni locali, nell’ostilità generale e nella severa ed orgogliosa identità ebraica orientale, si incarna già la tragedia di un mondo prossimo ad essere cancellato. Nel 1937, a dieci anni dalla prima edizione, Roth avverte le ombre addensarsi su quei milioni di uomini e di donne di quella nazione ebraica orientale. Soccombono, denuncia, in una indifferenza crescente. E denuncia Roth come inizialmente gli ebrei occidentali abbiano fatto ricadere l’esplosione di un antisemitismo latente in Germania sugli ebrei orientali, prima di rendersi conto di essere anch’essi considerati prima ebrei che tedeschi. Le parole di Roth sembrano rivolgersi ad una umanità psicologicamente avversa ad una catastrofe di lunga durata:

«Sembra che gli uomini sappiano che le catastrofi non durano a lungo. Le catastrofi croniche, invece, sono così mal sopportate che a poco a poco sia di esse che delle loro vittime non importa più niente a nessuno, quando addirittura non sono vissute come qualcosa di molesto. A tal punto è radicato negli uomini il senso dell’ordine, della regola e della legge che alle eccezioni senza legge, al caos e alla follia è concesso soltanto un brevissimo lasso di tempo.»

Roth scandaglia – come Huizinga – il cuore di un’Europa che si barbarizza. Ne denuncia l’indifferenza. È la stessa Europa che ha assorbito l’ebreo occidentale, impedendogli di vedere il cugino ghettizzato. Ciò in definitiva preconizza la non eternità della civiltà, il suo oscillare pericolosamente, fino talvolta a cadere in un abisso infernale. L’Europa si definisce come una famiglia di popoli e di nazioni; ma è una ben strana famiglia a detta di Roth, che richiamandosi alla nobile sporcizia e alla dignitosa miseria degli Ebrei erranti, ne dipinge con i medesimi e ben più tragici colori ed odori l’eclissi:

«Che strana specie di famiglia è questa “famiglia dei popoli”!… il padre è fermamente deciso a farsi gli affari suoi; eppure dalla camera di suo figlio il tanfo del letame già arriva fino al cielo.»

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