Intervista

«L'impunità di Israele di fronte alla violenza delle sue azioni non trova alcuna giustificazione all’interno del diritto internazionale». Gli errori della narrazione ufficiale secondo Mattia Giampaolo

«All’origine di tutto vi è un peccato, si potrebbe definire, idealistico: quello di trattare i due attori come soggetti perfettamente simmetrici»
«L'impunità di Israele di fronte alla violenza delle sue azioni non trova alcuna giustificazione all’interno del diritto internazionale». Gli errori della narrazione ufficiale secondo Mattia Giampaolo
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Gramsci sa presentare i fenomeni che si svolgono in primo piano collocandoli sempre su di uno sfondo storico-sociale e culturale grazie a cui ne afferiamo meglio il senso e la portata. E questo sfondo non è solo lo scontro in corso del lavoro contro il capitale, non è solo la sottostante struttura economica, ma è anche tutto un passato che insiste e influisce sul presente; un passato che di solito emerge sub specie di sintomo caratteriale […].

S. Brugnolo, Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo, Quodlibet, Macerata, 2023, pp. 258-9

Parlare del conflitto israelo-palestinese significa non fermarsi alla contingenza, alle superficialità del dibattito alimentato da giornalisti che si ergono a esperti, al «primo piano». Parlarne correttamente significa approfondire, recepire sfumature apparentemente minime ma sostanzialmente determinanti, significa indossare lenti attraverso cui si combatte la miopia del semplicismo per riconoscere lo «sfondo storico-sociale» da cui il presente ha tratto origine. È con il Dott. Mattia Giampaolo, dottorando presso l’Università “La Sapienza” e research fellow all’Osservatorio sul Medio Oriente e Mediterraneo del Centro Studi di Politica internazionale, che Dissipatio prova ad andare oltre la povertà del dibattito diffuso in buona parte dei canali di informazione tradizionali.  

Nel corso degli anni Quaranta, quando le istituzioni chiave di un potenziale Stato ebraico andavano consolidandosi nel quadro della Palestina storica, quanto ancora pesavano gli usi, i costumi, le tradizioni giuridiche, la forma mentis del vecchio Impero ottomano nella popolazione palestinese che abitava quella zona? I palestinesi avevano sviluppato una forma di identità nazionale da contrapporre al sionismo in erba oppure erano ancora legati alle forme di convivenza multireligiosa permesse nei millet ottomani? 

È una domanda complessa. Innanzitutto dobbiamo uscire dalle maglie di quella parte di dibattito cui stiamo assistendo in questi giorni, secondo cui prima del 1948 (anno della nascita di Israele) neanche la Palestina esisteva. Affermazioni di questo tipo sono scaturite dalla difficoltà di definire in senso identitario l’entità palestinese, così come quella degli Stati del Levante arabo. La divisione in Stati di quella regione è stata imposta dall’esterno in modo molto brutale, tagliata secondo gli interessi delle potenze occidentali, ed ha comportato pesanti ricadute su quelle che erano le identità storiche della zona. L’identità del Levante arabo era molto composita. In Palestina convivevano ad esempio comunità cristiane, druse e circasse; fra Siria e Libano esisteva una fluidità dei confini che, anticamente, le accorpava nell’entità della “Grande Siria” e che gli accordi di Sykes-Picot (1916) avrebbero poi diviso. Prima della fine della Prima guerra mondiale, questa regione -che era unita da fattori linguisti e religiosi, nonché da una forte interdipendenza economica-, era parte dell’Impero Ottomano, il quale veniva percepito con ostilità dagli autoctoni. Difatti già all’inizio del XIX secolo scrittori ed intellettuali locali parlavano della Palestina identificandola come una zona ben precisa, che si riconosceva per alcune sue città simbolo come Haifa, Betlemme, Gerusalemme, Jaffa (odierna Tel Aviv); in tempi ancora più lontani si parlava del «filastin»(Palestina) come della terra madre delle tre religioni monoteistiche; ancora, lo storico contemporaneo Rashid Khalidi rintraccia, anni prima della caduta dell’Impero Ottomano, la  pubblicazione di giornali dalla marcata identità palestinese come il «Filastin». 

Questi elementi attribuiscono un sostrato identitario alla Palestina ed al Levante arabo; naturalmente da qui all’identificazione di essa con uno Stato moderno corre ancora un ampio iato. 

Lo iato esisteva poiché l’identificazione nazionale in senso arabo viveva di una tensione fra una volontà esterna che coattamente imponeva la formazione di uno Stato-nazione in senso occidentale alla volontà, antica e originale, di costituire l’unità araba, ossia un’ampia entità sovranazionale che si estendesse dall’Iraq alla Palestina passando per Siria e Libano. Difatti la divisone imposta dagli accordi del 1916 e la promulgazione della Dichiarazione Balfour (1917) furono interpretati dagli arabi come una sorta di “tradimento” occidentale, poiché azzoppavano quelle ambizioni volte alla costruzione di una nazione araba in senso allargato.

In sintesi, l’identità palestinese trascende la questione dell’unità legata esclusivamente a fattori linguistici e religiosi, si afferma molto prima dello scontro con l’Occidente, ma risulta di problematica definizione in quanto, pur presentando elementi di indiscutibile originalità rispetto ad altri paesi arabi, ha la tendenza a diluirsi nel progetto di formazione di una grande e sovranazionale entità pan-araba. La natura scivolosa di tale identità non si discosta dal fatto che essa non esistesse da tempo. 

La guerra scoppiata il 7 ottobre è solo un altro elemento che conferma come la soluzione a due stati sia una chimera (adesso più che mai: da un lato c’è una Gaza distrutta e in emorragia di popolazione; dall’altro una Cisgiordania tempestata di insediamenti, senza sbocchi sul mare e retta da una classe dirigente invisa e parassitaria). Se la partita per una divisione del territorio sembra essere persa da anni, da quale fase o avvenimento, secondo lei, i tentativi si sono resi effettivamente vani?

Dal mio punto di vista l’idea della soluzione a due Stati non ha mai retto. La spartizione della Palestina fu, dal 1947, una spartizione unilaterale. Gli arabi ebbero sì voce in capitolo ma si sottrassero dal proporre una soluzione in quanto il piano dell’Onu non teneva conto di quella che era la realtà sul campo. All’origine di tutto vi è un peccato, si potrebbe definire, idealistico: quello di trattare i due attori come soggetti perfettamente simmetrici. Di simmetrico non si ha nulla. A partire dal giorno della nascita di Israele quando nessuno, a livello internazionale, appoggiò la causa palestinese: l’Unione Sovietica alla stregua degli Stati Uniti riconobbe lo Stato ebraico. Già da questo dato si comprende come sia forzato riconoscere il progetto del “compromesso giusto”. Questo, ab origine, non ci poteva essere poiché ci si scontrò fin da subito con la realtà dell’espulsione di 800.000 persone dalle loro terre, poi coattamente relegate negli Stati circostanti. La formula della soluzione a due Stati è in qualche modo legata – anche se sembra superficiale dirlo – al possesso della terra: la spartizione della Palestina fu iniqua per il semplice fatto che nel 1947 agli ebrei fu affidata il 56% della terra. Non regge neanche la narrazione secondo cui le terre assegnate ad Israele erano legate storicamente alla tradizione ebraica: se noi guardiamo alle città di Sderot (attaccata il 7 ottobre) o ai kibbutz limitrofi, ebbene quelli non erano insediamenti menzionati nella Bibbia o in miti fondativi della civiltà ebraica.

Non è scorretto affermare che la migrazione ebraica verso la Palestina storica si tradusse in una forma di colonialismo di insediamento. Questo tipo di operazione non si traduceva nei termini del colonialismo europeo tradizionale dove, ad esempio nel caso della Francia in Algeria, si mirava ad annettere il territorio e controllare la popolazione locale; diversamente, il colonialismo di insediamento agisce con lo scopo di cacciare dal territorio occupato gli autoctoni per sostituirli con persone provenienti dall’esterno. Il risultato di questa pratica furono i profughi palestinesi del ’48 che, emigrati nelle terre confinanti, mai furono integrati, e finirono per vivere, come lo è ancora oggi per i loro figli e nipoti, nei campi profughi. Qua si apre un secondo ordine di problemi: il ritorno dei profughi in Palestina è ostacolato dal governo di Tel Aviv perché metterebbe in discussione la partita demografica, ossia il progetto di annessione della Cisgiordania attraverso la costruzione di insediamenti, volta a superare in termini numerici la popolazione araba palestinese, al fine di rivendicarne un legittimo diritto al possesso. Inoltre, il ritorno dei profughi in Palestina confermerebbe il concetto di nakba.

L’illusione simmetrica è oltremodo rafforzata dalla risoluzione Onu n. 242 del 1967 che nella sua formulazione depoliticizzava e rendeva acquiescenti alcune delle questioni più spinose che alimentavano l’attrito fra i due popoli. Tali questioni riemersero sistematicamente nel corso tempo tantoché, al momento degli Accordi di Oslo, un grande intellettuale come Edward Said sottolineò come quel compromesso mancasse di tre punti capitali, degli assiomi strutturali che erano in essere dal ’47, ossia: il ritorno dei profughi, lo status di Gerusalemme e un territorio, chiaramente definito, in cui doveva nascere lo Stato palestinese.

Parliamo del conflitto attualmente in corso. Considerando che il governo Netanyahu ha richiamato alle armi 300.000 riservisti ed evacuato ampie zone abitate sia a sud che a nord dello Stato d’Israele arrecando un danno al tessuto produttivo locale e che, inoltre, al prolungamento delle operazioni militari a Gaza aumentano i rischi di apertura di nuovi fronti di guerra, per quanto tempo, le Idf, potranno portare avanti l’occupazione della Striscia? Per quanto tempo sarà economicamente sostenibile?

In realtà l’obiettivo potrebbe essere, visto il numero massiccio di uomini impiegati, il prolungamento delle operazioni, la distruzione totale delle infrastrutture, l’apertura di un nuovo fronte al sud della Striscia, quello di restare. Le opzioni potrebbero essere sostanzialmente due. La prima è la cacciata di una buona parte dei palestinesi dalla Striscia; la seconda è l’assimilazione dei profughi del ’48 all’interno di Israele con Gaza sotto controllo diretto dello Stato ebraico. D’altra parte, la questione di una amministrazione della Striscia da parte dell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) è fumo negli occhi. La proposta stessa di un avvicendamento ai vertici dell’Anp di Mohammed Dahlan ad Abu Mazen, che circola nei media occidentali, è un’assurdità poiché fra i palestinesi della Cisgiordania Dahlan è una figura detestata: lui è il personaggio che ha posto le basi della normalizzazione dei rapporti diplomatici fra Israele ed Emirati Arabi (gli Accordi di Abramo).

In merito a tali questioni quel che manca al dibattito pubblico è un approfondimento ed una conoscenza accurata delle dinamiche interne alla politica palestinese. Questo è fondamentale se si vogliono capire veramente come stanno le cose. Il fatto che, ad esempio, Israele continui ad entrare nei campi profughi di Jenin o Nablus, è giustificata dal motivo che lì si sta consumando una forma di ribellione non solo contro Israele ma contro l’Anp. La resistenza della Fossa dei Leoni a Nablus o delle Brigate Jenin è espressione di una opposizione forte non solo governo di occupazione ma anche ai vertici dell’Autorità palestinese – Abu Mazen in testa – che dovrebbero amministrare la Cisgiordania. In passato ad arrestare i membri della Fossa dei Leoni non sono stati i soldati di Israele ma i poliziotti palestinesi dell’Anp: ad osservare certe situazioni sembra che l’unico risultato degli Accordi di Oslo sia stato quello di appaltare l’occupazione di zone delle Cisgiordania direttamente all’Autorità Palestinese.

Israele è uno Stato sprovvisto di Costituzione e, de jure, in stato di emergenza permanente dal giorno della sua fondazione. Percependosi, Israele, circondato da nemici (o da amici ambigui come l’Egitto) lungo ogni tratto dei suoi confini; quanto può essere eletto a suo paradigma esistenziale la frase del generale Moshe Dayan secondo cui: «Israele deve comportarsi ed essere percepito come un cane pazzo»? Insomma le forme poco pulite e spesso illegali con cui Israele ha portato avanti innumerevoli operazioni militari lungo la sua storia potrebbero giustificarsi con il fatto che, se esso avesse agito e operato alle stregua di un ordinario Stato di diritto europeo, sarebbe stato, inevitabilmente, annichilito. 

I comportamenti in senso aggressivo di Israele resteranno attivi fino a quando esisterà la questione palestinese. Il 1967 è un anno chiave. Dal 1948 al 1967 gli Stati Uniti non furono così determinanti nei bilanci dei conflitti arabo-israeliani. La vittoria israeliana di quell’anno invece determinò un cambiamento nella strategia americana nella regione: fino ad allora Israele era considerato un alleato dopo, il suo status, venne elevato a quello di partner strategico. Da un lato questo si tradusse nel pieno supporto logistico alle operazioni militari dello Stato ebraico, dall’altro in un aumento dell’impunità nei confronti delle azioni irregolari che Israele compiva.

In ragione di ciò è vero che Israele si è comportato come un «cane pazzo» ma perché gli Stati Uniti hanno accettato di farlo comportare come tale. Allo stesso tempo se non si fosse comportato in questo modo, probabilmente non avrebbe ottenuto i risultati di cui beneficia oggi. Non ne parlo solo in termini strettamente securitari ma proprio nell’essere legittimati a utilizzare, sistematicamente, una posizione univocamente assertiva. Questo è vero non solo in termini di risultati militari sul campo ma pure in termini di impunità legale: nel caso della colonizzazione della Cisgiordania o, attualmente, nel caso dello sproporzionato attacco a Gaza. Ancora oggi esiste una polarizzazione politica a livello internazionale fra chi vuole punire Israele e chi lo vuol lasciare libero di agire. Non è un caso che l’amministrazione americana pubblicamente lo sostenga mentre, attraverso la discrezionalità dei canali diplomatici, gli intimi di limitare la brutalità dell’assedio e il massacro dei civili nella Striscia; il dato in evidenza però è che il suo principale partner, gli Stati Uniti appunto, non renda visibile quest’ultima istanza, lasciandolo di fatto impunito.

Insomma, diversamente dalla questione palestinese, nei suoi momenti di massima difficoltà Israele, indipendentemente dalle sue azioni, trova sempre il sostegno e la protezione dei suoi potenti alleati. Questa impunità di Israele di fronte alla violenza delle sue azioni non trova alcuna giustificazione all’interno del diritto internazionale.

Probabilmente, quando questo conflitto avrà termine, la comunità internazionale comminerà una condanna forte ad Hamas per gli attacchi del 7 ottobre e dall’altra una pena altrettanto esemplare per l’occupazione di Gaza a Israele, ma lì finisce. Se non c’è uno non c’è neanche l’altro. Quindi ecco che ricorre ancora il concetto di simmetria di trattamento per entrambe le parti quando la simmetria in realtà non riflette la realtà delle cose, sia sul campo che nella storia. 

Vorrei concludere con una domanda legata al tuo campo di ricerca. Il concetto di «Rivoluzione passiva» fu elaborato da Vincenzo Cuoco col significato di “rivoluzione importata dall’esterno” e venne applicato al caso dei principi della Rivoluzione francese diffusi con la forza dalle armate napoleoniche discese in Italia. Questo concetto è stato poi studiato e trattato da Antonio Gramsci. Come leghi il concetto gramsciano di «Rivoluzione passiva» alla stagione degli Accordi di Oslo? Perché sarebbe applicabile ad essi?  

Secondo Antonio Gramsci, se in Francia la Rivoluzione dell’Ottantanove vide il suo successo nell’alleanza della borghesia con le masse, in Italia, il Risorgimento, fu una rivoluzione passiva in quanto la borghesia, sediziosa ma debole, non si unì al popolo per fare la sua rivoluzione ma all’aristocrazia piemontese. Per rivoluzione s’intende un cambiamento, che nei fatti in Italia c’è stato con la formazione di uno Stato unitario, niente è come prima, la rivoluzione è tuttavia passiva poiché mancò l’elemento di massa. Gramsci chiama “funzione Piemonte” l’azione del regno sabaudo che, fattosi partito, organizza e diffonde una rivoluzione dall’alto; questo non significa che l’elemento di massa sia completamente assente. La rivoluzione passiva è per Gramsci una rivoluzione borghese atipica in quanto le rivendicazioni delle masse vengono cooptate e assorbite dall’alto: questa rivoluzione vuole conseguire il suo successo, vuol compiersi ma con l’accortezza di disinnescare la potenza esplosiva delle masse, e per questo motivo accoglie una parte delle sue rivendicazioni. Pertanto, timidi elementi progressivi si sviluppano nel nuovo contesto creato dalla rivoluzione.

Inoltre, la rivoluzione passiva presenta altre due peculiarità che vale la pena riferire. La prima sta nel fatto che essa ha limiti applicativi ben precisi, ossia può definirsi tale solo quando i suoi elementi si canalizzano verso l’obiettivo della formazione dello Stato nazionale; la seconda si ritrova nei caratteri esterni, internazionali, che contribuiscono ad innescare la rivoluzione passiva: un gruppo sociale che si vuole fare Stato si fa tale per non soccombere di fronte alle pressioni esterne, per motivi difensivi e di sussistenza.

Nel campo di studi della storia mediorientale vi sono alcuni autori che sostengono come le svolte autoritarie alle Primavere arabe, ad esempio la presa di potere di al-Sisi nel 2013, siano da considerarsi rivoluzioni passive. Dal mio punto di vista sembra più corretto definire queste scosse come controrivoluzioni. La controrivoluzione cancella tutto ciò che è stato conquistato durante il sovvertimento precedente, la rivoluzione passiva presenta invece dei caratteri attivi che, in modo più o meno modesto ma certo determinante, sconvolgono il sistema. Il Risorgimento italiano, nonostante l’alleanza fra borghesi e vecchia aristocrazia, ha certo avuto caratteri progressivi; il colpo di Stato di al-Sisi in Egitto non ha avuto alcun carattere progressivo. 

Alla luce di questo, la mia critica si muove nell’idea che, se è esistita una forma di rivoluzione passiva in senso gramsciano in Medio Oriente, probabilmente questa si può ritrovare nelle istanze mosse da un popolo in attesa di costituirsi a Stato come quello palestinese.

L’Olp è stato un movimento di massa che ha condotto una guerra di movimento sotto forma di guerriglia, guidato da un rivoluzionario come Yasser Arafat il quale, tuttavia, a partire dal Settembre nero giordano del 1970, cominciò a ridimensionare la rivendicazioni alla base del suo movimento, ossia la liberazione di tutta la Palestina. Nel 1974, durante il XII congresso del Consiglio nazionale palestinese, i vertici dell’Olp, senza riconoscerlo pubblicamente, ammisero che la soluzione a due Stati poteva essere un risultato auspicabile. Quel congresso fu di importanza fondamentale per il movimento perché vennero ridimensionati i tradizionali obiettivi rivoluzionari.

Proprio in quegl’anni la popolazione palestinese che viveva sotto occupazione israeliana dalla guerra del 1967, cominciò a covare un forte malcontento rivolto anche ai vertici dell’Olp. Questo malcontento, esacerbandosi anno dopo anno, diede vita alla Prima intifada palestinese (1987). Si trattò di una vera rivoluzione, poiché aprì una fase di potere duale, caratterizza dalla sostituzione di servizi e prodotti israeliani con quelli palestinesi, da scioperi coordinati, da atti di disobbedienza all’autorità, allo scopo di sostituire il vecchio regime. Nonostante l’Olp venne colta di sorpresa, appoggiò la rivolta e Arafat cercò di capitalizzarne i risultati nella storica conferenza di Algeri (1988), in cui sostanzialmente proclamò la fine della lotta armata, il riconoscimento di Israele e la nascita dello Stato palestinese. In questo contesto emergeva tuttavia un problema. Cioè nella differenza di obiettivi politici che separavano la leadership dell’Olp, da anni lontana dalla Palestina, con la leadership dell’intifada, nata nei territori e che sperimentava ogni giorno gli abusi dell’occupazione. Gli attriti furono appianati dall’Olp attraverso la cooptazione dei leader radicali che avevano guidato la rivolta delle masse, e imponendo sul piano diplomatico una visione di Stato diversa da quella maturata all’interno dei Territori. Paradossalmente, ad Oslo prima ed al governo palestinese da esso scaturito non partecipò alcun leader dell’intifada rappresentativo delle volontà della massa interna palestinese: l’Olp si circondò dei vecchi notabili (l’aristocrazia) da un lato e della borghesia palestinese che aveva fatto affari vivendo nei paesi del Golfo dall’altro.

Affrontando il problema da un altro fronte, i fattori esterni che spingeranno Arafat ad accettare i negoziati di Oslo -la rivoluzione passiva appunto- saranno il crollo dell’Unione Sovietica, l’errore strategico di appoggiare Saddam Hussein nella Prima guerra del Golfo, nonché l’integrazione al moto di pacificazione della regione indotta da quello che George Bush senior battezzò col la formula di «nuovo ordine mondiale». 

In questo senso possiamo definire la rivoluzione passiva in generale come progetto non solo di formazione dello Stato nazionale ma come moto atto a prevenire un’azione diretta e attiva delle masse, e imposto dalla borghesia per non capitolare di fronte alle pressioni esterne create di volta in volta dal sistema internazionale. 

In ultima analisi gli Accordi di Oslo sono stati una rivoluzione passiva deviata perché una forma di autorità palestinese -anche se non completamente legittimata e sovrana-, che avesse le sembianze di uno Stato è pur nata, comportando un superamento “progressivo” dell’occupazione israeliana; ma allo stesso tempo è “deviata” poiché ha conseguito con successo il progetto politico regressivo di annientamento delle rivendicazioni delle masse.

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