Quando il 29 maggio 2023 si chiude ufficialmente il conto delle schede elettorali, Giacomo Possamai non riesce a contenere la gioia. A soli trentatré anni diventa il sindaco più giovane della storia di Vicenza, in una regione storicamente di destra. Vicenza non è certo disabituata ad amministrazione progressiste – Achille Variati ha infatti governato per quindici anni – ma le modalità con cui Possamai è stato eletto hanno sorpreso un po’ tutti. Specie perché un anno fa un altro sfavorito è stato nominato alla guida di una città poco distante. Damiano Tommasi, che di professione faceva il calciatore, dal giugno 2022 siede in capo alla giunta cittadina, dopo una campagna elettorale che definire combattuta non renderebbe giustizia ai candidati.
L’elemento che accomuna questi due successi è la regia di Giovanni Diamanti, che per entrambi ha elaborato la strategia elettorale e comunicativa. Non si definisce spin doctor, espressione che pur contempla nel suo vocabolario, ma che poco lo riguarda. Classe 1989, figlio di Ilvo – politologo fra i più eminenti in Italia – ha presto dimostrato di non avere bisogno del suo cognome per fare strada. Co-fondatore di Quorum e YouTrend, collabora con numerose pubblicazioni e ha scritto diversi libri fra i quali menzioniamo I segreti dell’urna (2020) e Il candidato vincente (2021), entrambi usciti per UTET. A lui abbiamo chiesto di spiegarci se le vittorie locali dei suoi candidati possono avere una rilevanza anche a livello nazionale, oltre a come immagina il futuro della politica in Italia nei prossimi anni.
-Alla luce dei risultati di Vicenza e Verona, pare buffo che nel momento in cui abbiamo una destra forte come non lo era da anni, proprio la sua roccaforte, ovvero il Veneto, stia andando verso sinistra. È significativo secondo te?
Sicuramente è interessante e divertente da raccontare, poi le dinamiche tra le due città ovviamente sono molto diverse e sono intervenuti sicuramente fattori da un lato simili ma da altri punti di vista molto diversi. La realtà è che le partite amministrative e comunali spesso sono davvero solo partite amministrative e comunali. Quindi le dinamiche nazionali incidono, incidono sempre, ma possono essere comunque superate a livello di peso da logiche locali. Alla fine quando votiamo un sindaco votiamo una persona che risolva i problemi della città più che una persona che ci rappresenti politicamente. Parlare di politica nazionale quando ci si candida a fare il sindaco è, a mio avviso, un segnale di debolezza. A maggior ragione se si è un sindaco uscente.
-Quindi il modello Vicenza applicabile alla politica nazionale non ha senso di esistere…
Il modello Vicenza non è un modello. A Vicenza ha vinto una campagna squisitamente vicentina, il che vuol dire che lo schema di alleanze non è replicabile. Un’alleanza che parte dalle liste civiche, e una coalizione che va dalla sinistra di coalizione civica, che comprende anche Verdi e sinistra italiana, fino a una lista che prende il nome dell’ex vicesindaco di Forza Italia.
-Però tu sai che c’è in realtà una corrente di pensiero che vuole la politica dei sindaci come alternativa alla politica di palazzo romana del Nazareno o di Via della scrofa. Non c’è neanche una prospettiva che vuole la popolarità dei sindaci traslabile a livello nazionale?
Nei momenti più difficili della storia del centrosinistra italiano, dal 1993 in poi, i sindaci sono stati l’àncora a cui aggrapparsi. Il centrosinistra ha sempre prodotto una classe dirigente di alto livello nei territori, che nei momenti di difficoltà hanno permesso di mantenere un consenso, di mantenere un radicamento territoriale, di mantenere un appiglio sui territori. Una credibilità sostanziale, anche quando a livello nazionale veniva a mancare.
Va però detto che raramente è stata data ai sindaci la centralità che potevano chiedere da un punto di vista politico. Abbiamo decine e decine di sindaci di altissimo livello che non hanno mai avuto adeguata centralità nella coalizione. Si parla del partito dei sindaci dagli anni Novanta, dai tempi di Cacciari, Rutelli: poi però non se n’è mai fatto nulla. Oggi il partito di sindaci è a tutti gli effetti il Partito Democratico che nei fatti governa buona parte dei comuni italiani con amministratori di alto livello.
-I casi di Verona e Vicenza s’intersecano con un periodo in cui invece la leadership romana sembra essere in difficoltà, nel tentativo di proporre battaglie nuove, “pop”, che si rifanno a una corrente filo-americana. Secondo te sta emergendo un’alternativa rispetto a quella che sembra essere la direzione che Elly Schlein vuole intraprendere: in altre parole, l’elettorato sembra essere meglio disposto verso una sinistra sociale piuttosto che verso una sinistra arcobaleno?
Di quale elettorato parliamo? Del Partito Democratico o del Paese?
-Del Paese.
A me pare che Elly abbia appena vinto le primarie. Bisogna darle un po’ di tempo per dare una linea e un’identità al partito, e vedere quali sarà la sua proposta. Non mi baserei su queste elezioni comunali per parlare dei risultati di questo nuovo corso, ma per una ragione semplice: si è votato in pochi comuni, è stata la tornata più amministrativa delle tornate amministrative. Certo, il prossimo anno sarà delicato. Per le europee, specialmente.
-Faccio questa domanda perché ti ho sentito citare spesso Gramsci: passando dall’altra parte della barricata sembra che in questo momento la destra stia cercando di puntare a un’egemonia culturale, da svilupparsi attraverso la RAI, attraverso i media, attraverso la giustificazione di quelle che erano posizioni un tempo controverse. Secondo te è una manovra che avrà successo?
Direi che non c’è nulla che mostri la grandezza della teoria di Gramsci come il fatto di vedere la destra che appena arrivata al governo cerca, non solo di appropriarsi, ma di realizzare quel concetto che Gramsci aveva teorizzato ormai un secolo fa. Io penso sia ciò che la destra stia cercando di fare, penso anche che sia però inevitabile nella politica di oggi. La conquista del senso comune è il più alto tra gli obiettivi che un leader politico e una coalizione politica può darsi. Significa incidere appunto in quella che sarà la cultura degli italiani, non solo dei prossimi anni, ma dei prossimi decenni. Quindi sì, mi pare che il centrodestra stia cercando di fare questo, e sì, lo considero il trionfo del concetto stesso: un conto però è provarci, un altro riuscirci.
La sinistra storica in Italia non ha costruito l’egemonia in due o tre anni. D’altro canto una cosa che va detta è che il centrodestra cerca di realizzare i suoi obiettivi sul terreno dei diritti e delle tradizioni, oltre ad alcuni concetti nazionalistici. Sono tesi però che vanno in direzione contraria rispetto all’opinione pubblica attuale, quindi sarà molto difficile costruire l’egemonia su alcuni temi, specie considerando che le nuove generazioni a maggior ragione e con maggiore convinzione vanno proprio nella direzione opposta. Potrebbe finire col diventare un tentativo alla Don Chisciotte.
-Cioè dici che il rischio è quello di far perdere tempo al cambiamento sostanzialmente, no? Per qualche anno, tutto qua.
Non si può cambiare il vento, gli si fa solo perdere tempo. Detto questo, io penso che ci siano tendenze in cui il clima d’opinione abbia una tendenza sovranazionale. Però è giusto che il centrodestra giochi le proprie carte, in questo caso non è il centrodestra ma è la destra, con la “d” maiuscola, come si diceva una volta. Io penso che su alcuni temi rischi di mostrarsi troppo ideologica in un Paese moderato, che negli ultimi dieci anni ha generalmente votato leader che mostravano un approccio anche solo parzialmente post-ideologico. Non dimentichiamoci il successo di Renzi nel 2014, non dimentichiamoci il successo poi del Movimento Cinque Stelle, non dimentichiamoci il trionfo di Salvini che aveva come chiave la narrazione del buon senso contrapposta a una narrazione ideologica di destra. La chiusura dei porti diventa un’arma narrativa di grande efficacia quando Salvini non l’abbina più a una proposta di destra ma racconta che è una proposta di buon senso. La chiave del buon senso è stata la vera chiave del successo della Lega.
-Noto uno scetticismo verso i politici che si fanno guidare dall’ideologia piuttosto che dalla ricerca di un consenso, che però nei casi menzionati – Renzi come Salvini – è assolutamente estemporaneo se non c’è dietro una forte ideologia, una forte visione di come il mondo dovrebbe cambiare, no? Forse potrebbe essere questo quello che Meloni ha rispetto ai leader del passato.
Io non penso assolutamente che i volti contino più delle idee, io mi invito a sottolineare che sempre più l’elettore sceglie le persone e non i partiti. Sceglie le persone e non le ideologie. Delle idee magari ne possiamo parlare. Oggi l’elettore vota un leader e vota semmai la proposta forte, non l’ideologia. L’ideologia ha governato il mondo nel secolo scorso, ma perché erano ideologie costruite e basate sull’idea di mondo e sull’idea di realtà recente. Oggi il mondo è cambiato e nessuno ha aggiornato le grandi ideologie. Questa è la principale ragione dello scollamento tra i partiti ideologici e la realtà. In un mondo di partiti del capo, come li chiama Fabio Bordignon, i partiti veri sono quelli che si contrappongono al partito verticistico e leaderista, che non ha alcun tipo di ideologia se non l’idea che quotidianamente sforna il capo. In un mondo di partiti del Capo, che ci sia ancora chi si ostina a fare una politica di stampo più tradizionale riuscendo così a costruirsi uno spazio non è irrilevante. Mi spiego meglio: il Partito Democratico è un partito che anche nei momenti di crisi non crolla e non va mai sotto il 18, il 19% il 20% dei consensi proprio perché ha una struttura che gli ha garantito un radicamento tale da avere uno spazio che occupa da solo, che è difficilmente scalfibile dagli altri partiti e dagli altri leader.
In un mondo che è passato da un elettorato puramente di appartenenza a un elettorato d’opinione, il Partito Democratico ha sempre più un elettorato tradizionale e d’appartenenza, che gli garantisce una stabilità totale. Fratelli d’Italia ha mantenuto una struttura fortemente legata al ruolo del leader. Una cosa che aggiungo è che la Lega Salviniana ha comunque mantenuto una chiave narrativa di tipo post-ideologico, soprattutto nel periodo in cui Salvini ha avuto grande successo, mentre Fratelli d’Italia mantiene la barra molto nel solco della tradizione. Che non è la tradizione post-fascista, ovviamente: oggi parliamo di un partito che si rifa alla tradizione conservatrice. Io rimango comunque dell’opinione che se nasceranno proposte all’interno del perimetro del centrodestra italiano con leader forti e chiavi di interpretazione della realtà più post-ideologiche, quei partiti possono trovare spazio a discapito dei suddetti partiti più tradizionali. Questa è una mia idea, e aggiungo anche che in realtà nel centrodestra italiano di spazio libero ce n’è tanto.
-Con una sinistra che sta cercando di ricompattarsi in funzione della Meloni, vedi alle porte un ritorno del bipolarismo in Italia come già c’era stato ai tempi di un altro leader polarizzante che ben ricordiamo?
Non mi pare si sia in questa fase, c’è un terzo polo che vive una fase di grande dialettica interna, dopo oggettivi insuccessi elettorali, ma ancora ben lontano da un’alleanza organica con il centrosinistra. Dall’altro lato il Movimento 5 Stelle mi sembra più vicino ma sicuramente non organico. Le due forze al momento continuano a essere incompatibili, ma vediamo se non ne possano nascere altre. Io penso che il centrosinistra oggi abbia un problema strategico di coalizione, e che questo problema si risolva con fantasia. Quindi non pensando che gli schemi unici da utilizzare siano alleanze col centro, con la sinistra classica o il campo largo. Bisogna provare schemi nuovi.
-Quando studi la direzione verso la quale si muove il nostro sistema politico-partitico, osservi altri sistemi esteri che possono essere presi ad ispirazione? Penso agli Stati Uniti, alla Francia, o, in misura minore, alla Germania.
No, io penso che il sistema politico e partitico si basi sulla storia del Paese e che non sia importabile o esportabile in qualche modo. Penso che il sistema politico italiano sia “molto italiano” e non penso ci possano essere troppe ispirazioni che si possono prendere da un Paese o dall’altro. Certo, una cosa che apprezzo molto di alcuni Paesi è l’avere una tradizione di sistema elettorale coerente, forte, netta, basata sull’idea di partito e di società che si vuole dare. Noi viviamo di sistemi elettorali che durano generalmente l’arco di una legislatura, e che poi la coalizione vincente cerca di cambiare per il proprio interesse. Sono dell’idea che questo Paese sia nato elettoralmente con un proporzionale puro molto forte, e che poi la politica e il Paese siano cambiati, e dunque si sia presentata la necessità di un cambiamento. Però aggiornare un’idea non significare cambiare ogni cinque anni in base alla convenienza. Non per vincere, ma per far perdere l’avversario o per rendere ingovernabile il Paese. Serve qualcosa di un po’ più strutturale a lungo termine che magari poi potrà, chi lo sa, incidere sulla struttura dei partiti invece.
-Ricordo, penso un paio di anni fa, un dibattito molto forte sulla capacità che gli influencer potevano avere nel direzionare il voto – era il tempo in cui si sperimentava la firma digitale tramite SPID – mantenendo pur la loro distanza dalla politica, quindi sostenendo alcune battaglie ma senza indossare casacche partitiche. Dato che, come mi ha appena detto, l’elettorato tende a premiare chi ha un atteggiamento post-ideologico, ci sarà un momento in cui effettivamente la politica di Instagram troverà dei canali istituzionali ben definiti, oppure rimane soltanto fantapolitica?
Io in realtà lo ritengo qualcosa di non desiderabile: il loro ingresso in politico è una prospettiva che personalmente non mi piace e che penso non avverrà. Mi pare però ci sia una tendenza che non solo rende importante il ruolo degli influencer nel dibattito pubblico, ma che a mio avviso lo rende auspicabile. In un mondo in cui fasce sempre più ampie della popolazione non s’informano, non votano, non cercano il dibattito di informazione politica, che ci siano personaggi pubblici e celebrità che possono avvicinare queste persone a tematiche di contenuto, anche semplificando e banalizzando, secondo me è un qualcosa di positivo.
Altra cosa è la celebrità che si candida, la celebrità che ottiene consenso, la celebrità che prende posizione in modo diretto su qualunque tema. Quest’ultima cosa non la ritengo auspicabile e soprattutto non penso sia possibile. Le celebrità che si candidano generalmente non ottengono grandi consensi. Magari possono servire a informare: se Fedez parla del DDL Zan a centinaia di migliaia di giovani su Instagram che non votano e che non sono interessati alla politica, è un qualcosa di positivo. Ma poi non vuol dire che se Fedez si candida prenderà quei voti e quei consensi. Il voto risponde a dinamiche molto più complesse, molto personali, molto soggettive, in cui la credibilità rimane uno dei temi fondanti, e la credibilità delle celebrità non è per forza sempre forte.
–Però io immagino spesso un mondo al contrario, dove al posto di DDL Zan, un influencer invece cerca di avvicinare i giovani alla politica tramite tematiche meno condivisibili. In questo caso è sempre desiderabile una tale figura capace di direzionare la politica?
Continuo a pensare che se un influencer trova il modo non di influenzare, ma di riuscire a far informare e a far discutere ragazzi che di politica non parlano, non si interessano, non discutono, penso sia qualcosa di positivo. Sono anche dell’idea che non sia la soluzione: la soluzione è trovare un modo diverso per far arrivare l’informazione politica tradizionale anche a chi la rifiuta. C’è chi ci prova, c’è chi ci sta provando da tempo, c’è chi cerca in ogni modo di avvicinare il pubblico a un tipo di informazione diversa: bisogna sperimentare e provarci il più possibile. In un contesto oggettivamente complicato per l’informazione politica e in cui ci sono sempre più parti di popolazione che si allontanano volontariamente da un’informazione di base, avere chi sfrutta la propria popolarità per divulgare e informare è qualcosa di positivo.
-C’è alla fine di fondo un’idea che accomuna tutti i candidati che hai seguito oppure ci si adatta di volta in volta alle situazioni? L’orizzonte del tuo lavoro si esaurisce sempre con la campagna elettorale, oppure c’è anche un tocco tuo che accomuna tutti i candidati, con i suoi ritmi, le sue logiche, le sue dinamiche?
Il lavoro non si esaurisce più da tempo con la fine del voto, Blumenthal cominciò a parlare di “campagna permanente” ormai più di quarant’anni fa. Una cosa che sicuramente va sottolineata è che forse il tocco e l’idea forte sulla quale baso il mio lavoro è proprio il fatto che non esistono paradigmi assoluti in campagna elettorale. Il nostro lavoro sta soprattutto nell’adattarsi alle caratteristiche del leader e del contesto in cui operiamo per costruire una campagna elettorale che sia costruita su misura del leader e della città, regione o del Paese in cui si opera. Questo è il grande approccio che io cerco di portare alle campagne elettorali. Non credo nelle campagne di sola gestione, credo nelle campagne che nascono da idee strategiche forti. Non credo nelle campagne istintive, particolarmente pubblicitarie, credo che invece debbano essere più basate su un approccio strategico, quasi scientifico, sullo studio maniacale, ossessivo dei dati che ci raccontano il contesto. E la cosa che discende un po’ da questo è che se in una campagna si vede fortemente lo stile del consulente, o le campagne finiranno con l’essere tutte uguali, oppure il consulente sta cercando di imporre una campagna in un contesto che invece esprime e incarna valori, storie e tradizioni diverse.
Possiamo fare il parallelo calcistico: Zeman era un allenatore ideologico che impostava qualunque tipo di squadra sulla base di un concetto di gioco quasi geometrico, che per lui era l’unico tipo di gioco possibile con un modulo che era un 4-3-3 ossessivo su cui si basava la sua idea di calcio, e qualunque squadra che andasse ad allenare la faceva giocare con quel modulo, con quell’idea di sviluppo del gioco. Però se ti arriva una squadra di tipo completamente diverso, credo che devi adattare il tuo gioco a quella squadra per farli rendere al meglio. In campagna elettorale è del tutto simile, è un’esempio semplice ma si applica a tantissimi aspetti della vita.
-Ti piace l’espressione “spin doctor”?
Sì, ma non penso sia quello che faccio io. Lo spin doctor nasce concettualmente richiamando l’effetto che il lanciatore dà alla palla da baseball, quindi si parla della figura che dà di volta in volta il giusto messaggio, il più conveniente alla notizia e alla dichiarazione che si vuole comunicare. Più un lavoro da portavoce, da capo ufficio stampa, da chi lavora nel day by day, non da quello che faccio io. Io sono uno stratega.