OGGETTO: In morte di un teologo
DATA: 14 Aprile 2021
Lo scorso sei aprile è scomparso Hans Küng, rappresentante di una nobile tradizione teologica e forse ultima voce della teologia liberale
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“La chiesa è al servizio di Gesù Cristo. Essa deve resistere alla continua tentazione di abusare del suo Vangelo della giustizia, misericordia e fedeltà di Dio mediante forme discutibili di dominio a salvaguardia del proprio potere […] popolo peregrinante di Dio e relazione di vita esistente tra i credenti (communio) essa non è una città assediata, che erige i propri bastioni e si difende con durezza sia all’interno che all’esterno”.

Dichiarazione di Colonia, 1989

La notizia della scomparsa di un teologo di lingua tedesca, in Germania, si effonde rapida sulle prime pagine dei quotidiani. Perché lì un teologo non è cultore di una disciplina “eccentrica”, che al massimo susciti perplessi “apprezzamenti” o interesse per l’esotico. Lì la teologia la si studia all’università statale, mica solo nei seminari riformati o nei “ghetti” delle pontificie. E il teologo è letto, seguito, discusso. Un po’ voce autorevole, un po’ “vedette”, è coinvolto nel dibattito pubblico, non solo su “cose di chiesa + morale” come si usa da noi. Sarà anche minoritaria (ché anche lì il cristianesimo non se la passa bene) ma è una voce culturalmente viva. La teologia ancora la si interroga. E la si ascolta. Almeno per ora.

Hans Küng, classe 1928, seguito e ascolto ne ha avuti sempre. Magari non nei sacri palazzi (anzi, tanti più ne ha avuti quanto maggiore diveniva la polemica distanza da quelli). Premessa/promessa di dialettica infocata col “sistema romano” è il suo primo lavoro sulla giustificazione, che riunisce sotto un tetto comune Karl Barth e teologia cattolica. È il 1957 e la passione ecumenica verso il mondo della riforma non lo abbandona più. Perito conciliare al Vaticano II, si propone di rimettere il Nuovo Testamento al centro dell’ecclesiologia. Scrive La chiesa (1967): fedeltà al Vangelo, libertà di scelta, organismo ecclesiastico emendato da sovrastrutture giuridiche vetuste, importanza del laicato, accettazione di un orizzonte pluralista e democratico, lavoro in comune con la cultura contemporanea. Ma è appena l’immediato post-concilio e già la chiesa, la curia romana, gli sembra far marcia indietro, rappel à l’ordre. Scrive allora Essere cristiani (1974) e battaglia per un cristianesimo libero da paure, formule, verticismi clericali. Distingue tra un’essenza originaria della fede e le sue forme storiche, sempre da emendare, purificare, superare. Ché il cristianesimo è vocato all’universalità, non ai particolarismi. Il vecchio edificio della teologia cattolico-romana non si riadatta al mondo e allora, dice, superiamolo.

Nel 1979 gli revocano la missio canonica (la facoltà di insegnamento di discipline teologiche) ma lui passa al dipartimento di teologia ecumenica a Tubinga. È il primo fra i “silenziati”, poi toccherà ai Boff, agli Schillebeeckx, ai Drewermann… Scrive ancora e ancora, ormai è pubblicista di successo. Scrive di dogmatica, della natura di Dio, dei novissimi, di fede e scienza, chiesa e attualità, scrive (forse) anche troppo. Si lancia in un progetto per una Weltethos, un’etica mondiale desunta/decantata dal nocciolo delle grandi tradizioni religiose.

“Noi auspichiamo un mutamento di coscienza individuale e collettivo, un risveglio delle nostre forze spirituali mediane la riflessione, la meditazione, la preghiera e il pensiero positivo, una conversione dei cuori […] Perciò noi aderiamo a un ethos mondiale comune: a una migliore comprensione reciproca come pure a forme di vita socialmente adeguate, promotrici di pace e in armonia con la natura”

Dichiarazione per un’etica mondiale

E sempre organizzando, parlando in pubblico, redigendo manifesti, rivolto a tutti, in specie agli scontenti delle varie chiese, fiducioso del potere trasformante della “base” del popolo di Dio più che dei vertici. La sua teologia, nutrita del grande pensiero riformato del ’900 è ortoprassi più che ortodossia, via conciliativa di fede e istanza razionale moderna. Perché Küng è forse l’ultima autorevole voce della teologia liberale. Cosa significhi teologia liberale da Harnack in poi lo riassumiamo così: ricerca di un essenza (Wesen) del cristianesimo distinta dalle concrezioni storiche; un Dio non tanto onnipotente quanto garante, presupposto di libertà umana. La croce è risultato della perversione dei potenti, dell’umana insofferenza più che sacrificio. Più che una qualche “perfezione”, la finitudine, la mortalità sono i luoghi della manifestazione divina e l’etica sostituisce l’ontologia . In questa visione umanistica Gesù stesso si fa modello e archetipo, compagno di strada e maestro, profeta e giudice delle umane ipocrisie, delle leggi, dei soffocanti ideali. Come appare distante l’altra grande sensibilità data dalla teologia dialettica, teologia della croce: dove il Cristo tragico prende su di sé l’alienazione, abbraccia gli estremi, scende verso il basso, si fa ostaggio della ferocia umana, diviene “mera cosa” (Velasquez, Simone Weil…). Moneta di riscatto. È la logica del sacrificio. La passione è prima parola, poi dramma, poi culto e più giù fino al silenzio. Visione imponente dell’abisso trinitario, dove abbaglianti splendono i misteri e il sacro ha diritto di cittadinanza. Due approcci, due atmosfere segnanti (Bestimmungen) che fanno gioco di riflessi/contrapposizioni/ rovesciamenti nelle costellazioni nobili del teologar novecentesco: Romano Guardini, Karl Rahner, Hans Urs von Balthasar, Jürgen Moltmann, Wolfhart Pannenberg, Paul Tillich, Bernard Lonergan, le teologie della liberazione…

E se volete saperne più e meglio, leggetevi quel capolavoro di fenomenologia teologica che è Presenza di Spirito. Il cristianesimo come stile di pensiero e di vita, scritto da Elmar Salmann, altro geniale “grande vecchio”. Se è vero che si scontrano i due mondi, tuttavia si coappartengono, dialetticamente. Hanno in comune Hegel a padre putativo. Al punto estremo, v’è trapasso dell’una nell’altra. A giocar di metafore si ripetono le coppie simplegadi, volpe e riccio, Tolstoj e Dostoevskij. Normale che il singolo teologo si determini, “assolutizzi” la propria prospettiva. E Küng certo non fa eccezione, il suo spirito polemico dice più che ogni discorso. Però di entrambe abbiamo bisogno: ché la prima, assolutizzata, scolora in simbolo (debole) di valori e utopie, desiderata del tempo corrente; la seconda, si esaspera in dolorismo, in un sublime impraticabile, invivibile. Ma questo è il conflitto fecondo dei due modi del pensare Dio, al suo livello più alto. (Al livello più infimo, quello giornalettistico-televisivo, tutto degrada in sigle: progressismo vs. tradizione. Quelle lasciatele alle “maestrine democratiche”, ai polverosi cavalieri della Santa Fede).

Torniamo a Küng, il teologo. Al teologo urge oltre ogni altra cosa farsi voce, unire al divino il proprio diapason, rubando un che di prezioso (unico?) al mistero, in un movimento di umiltà e superbia, inveramento e scacco. Forse, su tutto gli preme che ai voli attorno al Nome corrisponda un ascolto, così che il Nome resti vivo. Hans Küng, scomparso lo scorso 6 di aprile, è stata voce ferma e come tutte però parziale, fragile, provvisoria. Rappresentante di una nobile tradizione teologica, un po’ capo ribelle “scapigliato”, divulgatore e organizzatore inesausto, fra schiettezza e irrigidimenti, coscienza di sé e zelo apostolico. Possibile che nei tanti libri pubblicati vi sia molto di caduco. E la propensione alla pubblicistica “militante” abbia smorzato la forza speculativa (ma il libro su Hegel, Incarnazione di Dio, resta audace, potente). La sua Weltethos, se ha avuto il grande merito di porre in dialogo valenti rappresentanti delle grandi tradizioni religiose, rimane nondimeno operazione dai risultati deboli, astratti rispetto alla corposità simbolica e “patica” delle religioni, che mal sopportano troppo razionalismo (meglio, molto meglio ha fatto Raimon Panikkar). Come l’amico-rivale Ratzinger, con lui ai tempi del concilio, contro di lui ai tempi della congregazione per la dottrina della fede, più che esponente di primissimo piano è stato, dei grandi, eccellente, dotatissimo scolaro. Nel liberalismo dell’uno, nell’agostinismo dell’altro, alla fine si ripresentano le due anime della teologia. E questa voce, piacesse o meno, ora che è spenta dà da pensare che in fondo il riverbero del Nome ora si fa sempre più flebile, non troppo chiaro, fesso, opaco. E vien d’improvviso una bella immagine letteraria ed un pensiero… “debole”. Come nel finale tenero/tremendo del magnifico Il ponte di San Luis Rey sta scritto che unica sopravvivenza dei defunti è la memoria amorosa dei viventi, dopodiché è l’oblio… non avrà analogo destino il Nome/ Dio? E se facesse parte della divina kenosis che il Suo Nome (ma chiamatelo, se volete, sacer, numen, ab- solutus) segua per analogia, le sorti delle nostre povere carni, pulvis et umbra, consegnato senza riserve alla parola umana? Fosse così, morti i grandi, solo discussioni da accademia di teologia. Buone o meno buone, troppo poco. Che resterebbe infine? Cicaleccio mediatico, gracidar di bioetiche, scandali romani, santi compressi a santini, laidi laicismi e sepolcri devoti?

No. Viene il tempo, ed è adesso, che quelli, deo gratias, non li ascolti più nessuno. Almeno questo.

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