C’è un dato interessante nel lessico mortuario che da giorni accompagna l’improvvisa dipartita di Silvio Berlusconi. Spirato ad ottantasei anni, Silvio per gli amici e B. per i nemici è stato, lo si è ripetuto ad nauseam, tante e tante cose: imprenditore ed impresario, politico, showman. Pressoché tutte gli sono però valse una sola qualifica, sempre uguale nel veicolare la stessa, rassicurante idea di un potere sì apicale, ma non assoluto: Presidente. Della Mediaset dei tempi d’oro, anzitutto; del Milan campionissimo in patria e fuori; di Forza Italia, partito-azienda capace di “fatturare” voti a milioni; e, proprio grazie a quei consensi, del Consiglio dei Ministri, per giunta il più longevo dal dopoguerra. Eppure, a leggere i giornali si ha l’impressione che ci abbia lasciati un monarca. Abbondano nei titoli e nelle lunghe articolesse a lui dedicate parole come «re» ed «imperatore»; mentre su Dissipatio abbiamo preferito attribuire a Berlusconi il pur più modesto (ma più battagliero) stile di Duca di Milano.
Messe da parte recondite pulsioni sabaude o velleità agiografiche, rimane una certa sorpresa per una sequela di scelte editoriali che, in maniera intenzionale o meno, richiamano un Paese diverso, non semplicemente retto da una testa coronata ma, anche poiché relegato al passato a mezzo di democratico plebiscito, intrinsecamente reazionario. Vogliamo così insinuare un’ipotesi inedita nella diatriba che a destra vede liberali, conservatori e moderati contendersi la paternità ideologica di Berlusconi; quanto alla sinistra, un dibattito non c’è e non poteva esserci. Nella compagine progressista si discute di Silvio e della sua epoca – perfino gli oppositori irriducibili debbono concedere che i diciassette anni intercorsi tra la “discesa in campo” del 1994 e la caduta sua e del suo esecutivo nel 2011 sono appartenuti soltanto a lui – in termini non dissimili da quelli con cui i palestinesi si riferiscono alla nakba, la catastrofe della diaspora. Anche i post-comunisti s’immaginavano a casa, nei palazzi del potere, e anche loro l’hanno dovuta lasciare, sconfitti ed umiliati, ad un nemico apparso di colpo.
Poi, l’occupazione. Di quel periodo si ricordano le leggi ad personam: la riforma Tremonti, l’editto bulgaro, il lodo Alfano. E i processi infiniti – ed inconcludenti: una condanna su trentasei fascicoli in totale – i legami mai chiariti appieno con la mafia e accertati con la P2 di Licio Gelli; l’evasione, il bunga bunga e le relative figuracce, il default sfiorato. Il verdetto è unanime: Berlusconi, B. dicevamo prima, ha arrecato danni irreparabili all’Italia, agli italiani e alla democrazia. Ora, non c’è bisogno di essere stati suoi sostenitori per chiedersi come abbia fatto a minare la democrazia uno che, piaccia o meno, ha vinto le elezioni per quattro volte. Stanti le indubbie zone d’ombra non risulta che il fu Premier abbia, ad esempio, truccato il voto o esautorato le Camere; l’impressione è allora che per democrazia i suoi avversari intendano, chi conscio e chi no, qualcos’altro. Quel qualcosa si chiama Cattedrale, scrive il filosofo britannico Nick Land, profeta eclettico e reietto di quell’Illuminismo Oscuro che da qualche anno tiene banco tra le fila dell’estrema destra anglosassone. E di democratico non ha un bel niente.
Nella sua accezione comune, la democrazia può essere intesa come un metodo di esercizio del potere. In occasioni prestabilite innumerevoli puntini, ossia gli elettori, vanno a formare un’unica retta orizzontale, ossia la metaforica base su cui poggia l’assetto democratico; l’azione che ne risulta finisce inevitabilmente dispersa nello spazio-tempo politico, e quindi spesso priva della forza necessaria per influire sull’andamento complessivo della vita pubblica. Per contro, Land – ed il suo omologo d’oltreoceano Mencius Moldbug, al secolo Curtis Yarvin – teorizza la Cattedrale come un sistema diffuso di distribuzione del potere: un ristretto gruppo di nodi istituzionali che si collegano tra di loro, disegnando un cerchio che racchiude in sé ogni sfera delle singole società nazionali e, attraverso di esse, della società globale. Tale sistema è in grado di trascendere i normali limiti della democrazia, concentrando il potere esistente e generandone di nuovo in completa autonomia, svincolato dall’input di masse il cui controllo sui meccanismi decisionali e le policies da essi prodotte è ridotto a mera facciata.
Senza alcun coordinamento formale, ma comunque uniti in una simbiosi de facto, nell’intero Occidentele università, i partiti (inclusi quelli nominalmente conservatori), le burocrazie, i magistrati e i media cospirerebbero dunque per stabilire sulle infrastrutture politiche un controllo tanto surrettizio quanto totale, e realizzare per loro tramite l’agenda plurisecolare del progressismo managerialista. Tutto è Cattedrale, e la Cattedrale vuol essere tutto; in Italia, però, questa pulsione ecumenica ha dovuto scontrarsi con quella accentratrice, altrettanto intensa, di Silvio Berlusconi. Abituato a far da sé, il Cav. ha traslato l’atteggiamento da self-made man che ne aveva fatto la fortuna di imprenditore nell’arena elettorale, proponendo ed infine imponendo la sua persona — e non FI: ma c’era differenza tra i due, in fondo? — come un singolo totem attorno al quale riunire l’attenzione, l’approvazione e la legittimazione del Paese, in aperta antitesi coi progetti e la stessa architettura “a poli” della Cattedrale.
La quale non ha tardato a rispondere: dapprima con un assalto mediatico-culturale a tutto tondo, mai interrottosi, poi col trentennale assedio giudiziario, culminato appena pochi mesi fa con la sorprendente assoluzione nel processo Ruby Ter. Una guerra vera e propria, insomma, portata avanti senza sosta né quartiere contro un avversario visto alla stregua di una minaccia esistenziale. E così Berlusconi, che pure alla politica era approdato come sull’ultima spiaggia da cui scampare al naufragio finanziario, una minaccia ha finito per diventarlo davvero, sfruttando l’incessante campagna contro di lui (nonché, più prosaicamente, la televisione, di cui era indiscusso numero uno) per costruirsi un’efficacissima immagine di martire laico, valsagli nel tempo le simpatie di un trasversale e nutrito segmento del corpus politico nazionale. In Berlusconi, lo accennavamo poc’anzi, si sono identificati a più riprese i liberisti, i garantisti, gli anti-statalisti, i cattolici; in generale coloro che, sebbene riuscissero di rado ad inquadrarla, nondimeno intuivano l’esistenza della Cattedrale e ne avvertivano la presenza opprimente.
Più la Cattedrale si accaniva contro Berlusconi, più tale presenza si faceva evidente; la tesi della persecuzione, derubricata (non sempre a torto) dalla grande stampa come estremo tentativo di raggiro, assumeva per converso concretezza e credibilità presso una parte della cittadinanza che non poteva fare a meno di chiedersi cosa ne sarebbe stato dell’uomo comune, se addirittura il multimiliardario inquilino di Villa San Martino faticava a resistere alla pressione degli apparati a lui ostili. A queste persone il Cav. sembrava offrire un’alternativa tangibile, la sua prospettata rivoluzione liberale una via d’uscita, l’unica, dalle mura anguste ed invalicabili della Cattedrale; non è esagerato affermare che Berlusconi abbia rappresentato per alcuni una figura quasi messianica. Solo così si spiega una carriera politica dalla durata a dir poco anomala, invulnerabile agli scandali e alle sconfitte quanto il suo protagonista: valga da prova il fatto — forse sarebbe appropriato definirlo miracolo — che alle scorse politiche Forza Italia sia riuscita ad ottenere ben l’8,5% dei voti, finendo a fare da ago della bilancia dell’attuale esecutivo.
Un patrimonio di consensi destinato, in assenza di un erede designato, a finire spartito in favore degli alleati: con Forza Italia corteggiata dal resto di questa maggioranza e, già sotto gli occhi stanchi e talvolta conniventi del suo capo, dalla stessa Cattedrale, l’eredità del Berlusconi politico si esaurisce insieme a lui. Quanto al berlusconismo, a conti fatti possiamo e dobbiamo ammettere che si è trattato di un abbaglio: bruscamente terminata l’esperienza di governo nel caos del novembre 2011, non si poteva sperare che il progetto — semmai ve ne sia stato uno — refrattario ad un reale ancoraggio ideologico e spoglio di un’impalcatura organizzativa solida, sopravvivesse a lungo. E tuttavia, di quel fallimentare tentativo di fuga rimane intatta la presa di coscienza collettiva che ha provocato: per quanto ingaggiata per necessità piuttosto che per convinzione, la battaglia di Silvio Berlusconi con la Cattedrale e i suoi emissari ha il merito di aver trascinato entrambi alla luce del sole, e soprattutto di aver dimostrato che, se batterli non è possibile per un uomo solo, di certo si può indebolirli.
In ciò sta il vero lasciato del Cavaliere, neo-reazionario inconsapevole. Perché se immaginarselo impegnato a sondare il pensiero nerissimo e schizofrenico di Nick Land e soci tra un evento mondano e l’altro risulta difficile e anche un po’ comico, il vulnus che ha inflitto alla Cattedrale è innegabile. La ferita, profonda e aperta, è esposta ai germi della ribellione e può farsi cancrena: anche per questo il ricordo di Silvio Berlusconi aleggerà ancora per molto tempo, le sue vicende insieme un ammonimento sulle bassezze dei potenti e del Potere e un segno che un altro mondo è a portata di mano. A chi potrebbe giustamente obiettare che sia stato un populista, il primo d’Italia, rispondiamo che questo vuol dire che il populismo è anch’esso neo-reazionario, non nella teoria ma nella prassi, che è poi l’unica cosa che importa. E d’altronde noi un populista che viene trattato da re, secondo il costume antico, dobbiamo ancora vederlo.