“Lo sanno tutti: il sottosegretario alla presidenza è il primo motore immobile. Sin dagli albori della Repubblica, nel 1947, quando monsignor Montini, futuro papa Paolo VI, segnalò il ventottenne Giulio Andreotti ad Alcide De Gasperi, che lo collocò proprio in quella posizione. […] Perché da Andreotti in poi, per settant’anni, il sottosegretario alla presidenza è sempre stato il più fedele e ascoltato collaboratore del presidente del Consiglio. Il suo tuttofare”.
Da Io sono il potere
Con queste parole l’anonimo capo di gabinetto autore di Io sono il potere (Feltrinelli, 2020) fornisce un’idea piuttosto chiara di quanto sia centrale e dirimente il ruolo del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. È
“lo snodo fondamentale di tutti i rapporti perché è l’alter ego del presidente del Consiglio, soprattutto nei dossier delicati. Non a caso è l’unico sottosegretario legittimato a partecipare al Consiglio dei ministri”.
Da Io sono il potere
Fatte queste premesse, cerchiamo di capire chi è stato nominato da Mario Draghi nelle vesti del suo alter ego, motore immobile del suo governo. Classe 1966, Roberto Garofoli è un pugliese che non ha mai radicato la sua vita privata nella baraonda romana. Pare che ogni fine settimana, caschi il mondo, faccia ritorno a Molfetta da sua moglie e dai suoi due figli. Rigorosamente in treno, mai in aereo, così da poter comodamente lavorare durante tutto il lungo viaggio. Vinto il concorso in magistratura nel 1994, nel 1999 passa alla giustizia amministrativa fino a diventare presidente di sezione al Consiglio di Stato. Docente alla Luiss, è autore di svariati compendi di diritto amministrativo delle edizioni Neldiritto, di cui è direttore, oltre ad aver codiretto la Treccani giuridica.
L’anonimo capo di gabinetto di Io sono il potere disegna una quadro molto chiaro del nuovo sottosegretario di Draghi:
“Garofoli […] appartiene al rango aristocratico dei capi di gabinetto. Genere ‘so tutto io’. Altero, azzimato, impeccabile, con un contegno sussiegoso che non tradisce mai una smorfia di troppo e lo fece apprezzare, fin dagli inizi della carriera pubblica, da Massimo D’Alema e Giuliano Amato. Si ritiene incarnazione della Tecnica (scritto con la T maiuscola) che è al servizio delle Istituzioni, e pertanto non diventa succube della Politica. Gli argomenti non gli sono mai mancati, per esprimere quel ‘dissenso critico’ che si spingeva a smentire (e quindi zittire) chiunque: altri capi di gabinetto, sottosegretari, ministri, perfino presidenti del Consiglio a cui teneva testa. Quando gli fu fatto notare che aveva interrotto e corretto, davanti ad altre persone, il premier Conte, si limitò a chiosare: ‘Allora non sapete che cosa facevo con Renzi’”.
Da Io sono il potere
È dunque a tutti gli effetti un grand commis. Stimatissimo da Sabino Cassese, ha ricoperto importanti ruoli istituzionali: capo dell’ufficio legislativo della Farnesina con Massimo D’Alema nel Prodi II, capo di gabinetto del ministro della pubblica amministrazione Filippo Patroni Griffi nel governo Monti, segretario generale a Chigi con Enrico Letta. Più di recente, è stato capo di gabinetto al Mef con Pier Carlo Padoan nel governo Renzi, riconfermato nel governo Gentiloni e poi una terza volta nel Conte I, con Giovanni Tria.
Patroni Griffi, uno dei pochi capi di gabinetto diventati ministri, scelse Garofoli perché “il più bravo tra i capi di gabinetto”, ma anche perché, collega e amico di vecchia data, lo considerava di strettissima fiducia. Patroni Griffi e Garofoli furono “un raro esempio di tandem formidabile”.
“Si stimano, si conoscono, si muovono in sintonia e possono eccellere nello schema più importante del ménage ministeriale: il gioco del poliziotto buono e di quello cattivo. Soprattutto sui dossier più spinosi. Uno promette, l’altro nega. Uno ascolta, l’altro glissa. Uno sollecita, l’altro rinvia. Uno incontra, l’altro si nega. E così le istruttorie vengono meglio e le decisioni sono sempre inattaccabili”.
Da Io sono il potere
Padoan lo scelse contravvenendo agli ordini di Renzi, il quale avrebbe voluto l’ultima parola su ogni capo di gabinetto di ogni ministero. “Il meno renziano dei capi di gabinetto (cresciuto con D’Alema) con il meno renziano dei ministri (voluto da Napolitano)”. Anche Tria decise di confermarlo, “benché il governo populista predicasse discontinuità, a ogni livello, e lo guardasse con sospetto perché stimato dal Pd”. Ma fu subito al centro di uno scontro senza precedenti con il M5S, che lo accusò di essere una delle famigerate “manine” che manipolavano i testi normativi. L’altra manina, all’epoca, era l’allora potentissimo Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, attuale ministro dell’economia del governo Draghi.
Garofoli fu accusato di aver introdotto, per interesse personale, una norma in favore della Croce Rossa nella legge di bilancio 2019. Fino allo scontro finale:
“In una riunione a Palazzo Chigi, il premier gli chiese conto della faccenda. Il rappresentante del ministero della Salute disse di non saperne niente, la Ragioneria dello Stato si defilò e Garofoli restò solo: con Conte volarono insulti, mentre Palazzo Chigi diffondeva audio in cui si minacciavano epurazioni di massa al Mef”.
Da Io sono il potere
Risultato: all’indomani della chiusura della legge di bilancio Garofoli fu costretto alle dimissioni e tornò al Consiglio di Stato. L’episodio resterà negli annali perché mai nella storia un capo di gabinetto si è trovato al centro di una feroce battaglia politica e mediatica. Questo è il passato. Ma non c’è motivo di dubitare che Garofoli si troverà al centro di battaglie e polemiche politiche. Questa volta non più da “tecnico” ma da politico. Dimmi che sottosegretario hai e ti dirò che governo sei. L’apoteosi della tecnica, laddove questa – a dispetto della vulgata contemporanea – non si contrappone alla politica ma, più banalmente, ai partiti. Perché per governare un paese, per guidare una comunità, è indispensabile avere una visione e una prospettiva politica.
Come i grandi classici del pensiero insegnano, da Aristotele in poi, tutto è politica e tutto è politico. Sì, anche il più tecnocratico dei governi. La pia illusione che possa esistere un “governo tecnico” nell’accezione di governo super-partes, neutro o asettico, deve essere lasciata a chi non ha dimestichezza di mondo. Capovolgendo i termini, si può ricorrere a Platone: la politica è la “tecnica regale”, la tecnica delle tecniche, perché il suo principio e il suo fine è dirigere tutte le tecniche e “prendersi cura dell’intera comunità umana”. Nella migliore delle ipotesi.