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Il sole spento dell'avvenire

L'ultimo film di Nanni Moretti è un'opera scontata, frutto di un regista che - come la sua cultura politica di riferimento - non riesce più a essere originale.
L'ultimo film di Nanni Moretti è un'opera scontata, frutto di un regista che - come la sua cultura politica di riferimento - non riesce più a essere originale.
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Nanni Moretti, come la sinistra, esiste perché è stato. La sua cifra espressiva è da sempre connaturale alla sinistra italiana e alla narrazione che essa fa di sé; le sue trame procedono di pari passo la parabola dei vari movimenti che nell’alveo – o meglio nel guado – della Cosa post comunista si sono susseguiti. Il regista, un po’ reporter e un po’ intellettuale cortigiano ha abitato le sezioni più burbere dell’Emilia paranoica prima e dopo la Bolognina, vissuto e conosciuto la sinistra orfana di Berlinguer e esule delle Botteghe Oscure, ieri antiberlusconiana e oggi smaccatamente progressista. I suoi film, sottili il giusto e monotoni abbastanza, sono i cahiers de doleances dei giovani de sinistra, animati da insicurezze, psicopatologie e crisi d’identità che rispecchiano gli psicodrammi del Partito e che, questo sì, Nanni Moretti sa rendere con drammaticità efficace e tutto sommato brillante. 

Ecce Bombo, Bianca, Palombella rossa, Caro diario, Aprile e ora Il Sol dell’Avvenire: sono i morality plays del post marxismo. Storie di introspezioni e isterie, indignazioni e insofferenze. Esistenzialismi, trozkismi, berlinguerismi, comunismi e riformismi. Tanti, troppi, supportati da poco di altro: molto toccante La stanza del figlio, Mia madre fa scattare un sussulto filiale in ciascuno di noi: tutto il resto, però, è noia. Letteralmente: esausta la scena del “mi si nota di più se vengo o se non vengo?”, davvero esanimi ormai gli immaginifici tormenti a bordo vasca in Palombella rossa, che proprio perché “le parole sono importanti”, perdono senso e significato se ripetute allo scoramento. Nanni Moretti non smette di fare cose e vedere gente: il problema è che le cose sono le solite, la gente sempre la stessa, così il regista finisce per ripetere se stesso da trent’anni con leitmotiv ormai logori.

L’antiberlusconismo rappresentò un vero e proprio periodo artistico, per Moretti, culminato nell’inglorioso corto L’unico paese al mondo, “un film contro Forza Italia” in cui l’autore si diceva mosso “dal senso di disgusto, di imbarazzo morale, rifiuto psicologico, estetico ed etico” contro il Cav, salvo poi accettare produzioni Be.Ma e Medusa. Produzioni che il Caimano faceva bene a concedere, perché lui è sopravvissuto mentre l’antiberlusconismo “è invecchiato decisamente male”, come nota Andrea Minuz sul Foglio, evidenziando come a cavallo tra i due millenni esso fu “un formidabile veicolo di carriere, uno strumento di marketing per scrittori, artisti, giornalisti, l’unica start-up culturale che abbia davvero funzionato in Italia”. 

Passato il tempo e divenuti desueti argomenti come l’insostenibile assenza di un leader come Berlinguer e l’antiberlusconismo, passata la stagione del girotondismo (“Ma davvero pensate che ci sia una magistratura cattiva?”), e del Movimento Arancione, Moretti tenta di reinventarsi nella stagione attuale, caratterizzata da libertarismo e disimpegno: come Guccini, altro emblema dell’artista engagé, che dismette l’eskimo in soffitta e dice di non esser mai stato comunista (eddaje…), Moretti dice di “non voler fare politica”, riprende il più morettiano degli schemi narrativi e, senza isteriche introspezioni, sceglie la via di una mitezza, tra l’avvedutezza e l’inconsistenza, che sembra propria dell’attuale leader del Partito Democratico, la “silenziosa” Elly Schlein, a cui molti stanno implorando “di’ una cosa di sinistra! Di’ una cosa anche non di sinistra, di civiltà! Di’ una cosa, di’ qualcosa, reagisci!“. Il Sol dell’avvenire, tra ucronie, revisioni storiche e sliding doors, è una discreta opera cinematografica vittima però della vocazione passatista dell’autore, a dire il vero scontata, che dimostra di non sapersi proprio staccare da se stesso, di non saper essere altro che l’intellettuale impegnato (e prevedibile) che dall’antiberlusconismo è evoluto linearmente verso l’antimelonismo (“Avevo un pregiudizio. Ora il giudizio è peggiore del pregiudizio”).

Insufficienti prove di originalità l’onirismo felliniano fuori tempo massimo e la manciata di citazioni. Un film comunque godibile, che soltanto Il Manifesto valuta con un entusiastico 9 e ½ e che, con ogni probabilità, il regista doveva a se stesso più che ai suoi ammiratori. La scarsa originalità e la mancanza di creatività sembrano rispecchiare quelle dell’attuale sinistra che senza più un nemico – l’antiberlusconismo non paga culturalmente, l’antisovranismo non conviene politicamente – sembra priva di argomenti, almeno al momento, e forse dissimula una resa, una presa di coscienza sulla propria crisi. Sbaglia chi lo critica perché Nanni Moretti è sempre stato questo, la coerenza è l’unica lodevole colpa che gli vada riconosciuta. Difatti, dalla sinistra spaesata della Bolognina a quella del nuovo corso Schlein, dai tormenti giovanili di Michele Apicella alla matura lucidità di Giovanni, è chiaro che nel torrente della sinistra italiana non è possibile bagnarsi due volte: a Nanni Moretti è sempre stato sufficiente galleggiare.

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