Luca Palamara, l’uomo dalla “faccia di tonno” come disse Francesco Cossiga, ha risalito le correnti fino ad indirizzarle. Il più giovane presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati nonché il primo ad esserne espulso, per anni è stato un oligarca, capace di influenzare le decisioni sulle nomine delle procure più importanti d’Italia, da Roma a Milano. Per esempio, sarà Palamara ad aiutare Giuseppe Pignatone a diventare procuratore capo di Roma, dove poi partirà la famosa inchiesta su “Mafia Capitale”. Bettino Craxi in esilio da latitante disse una volta: “di fronte al golpe postmoderno che vede l’alleanza di poteri giudiziari con clan dell’informazione è praticamente impossibile difendersi”. Luca Palamara ad Alessandro Sallusti sostiene esattamente quello che disse l’ex premier socialista: “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi frequentandone magari l’abitazione. Ecco, se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento”.
Però non bisogna credere che sia un film manicheo, con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Questo fu lo sbaglio madornale di chi esaltò i magistrati-paladini-del-bene nello scontro tra politica e toghe. In una guerra di potere difficilmente si trovano innocenti. Ecco, un dato interessante del libro-intervista a Palamara: c’è n’è per tutti, nessuno si sentirà escluso. Nello scontro epico berlusconiani contro anti-berlusconiani, tutti ricorderanno che i primi difesero il Presidente del Consiglio perseguitato dai giudici “comunisti”, mentre i secondi difendevano “i magistrati indipendenti”. Ed effettivamente Palamara conferma che “il sistema”, come lo definisce, dominato da una minoranza attiva della corrente progressista Magistratura Democratica, aveva deciso che era necessario intraprendere una guerra frontale con Berlusconi, senza esclusione di colpi. Bisognava abbatterlo in tutti i modi, trovando qualsiasi appiglio per farlo. Il motivo di tanto astio è da rintracciare nella riforma della giustizia che Berlusconi voleva portare avanti. Sarà lo stesso Luca Palamara a sostenere che Matteo Renzi e Matteo Salvini potrebbero colpiti per il medesimo motivo. Al contempo, Palamara non nega che alcuni magistrati indipendenti, come ad esempio Nino Di Matteo, Luigi De Magistris o Antonio Ingroia vennero ostacolati perché non facevano parte di alcuna corrente. Renzi si inimicò il sistema anche perché propose Nicola Gratteri come ministro, un altro che non sottostava a nessuna parrocchia.
Indipendentemente dalle proprie idee politiche, tutto ciò indebolisce il potere di uno Stato e ne mina le fondamenta democratiche. Il potere legislativo del Parlamento, sempre più svuotato, quello esecutivo del Governo depotenziato e quello giudiziario screditato. Il caso Salvini è emblematico: in un’intercettazione tra Palamara e il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma, Palamara dice esplicitamente che Auriemma abbia ragione quando ammonisce che si stia forzando la mano sul caso Diciotti (la nave trattenuta in mezzo al mare con a bordo dei migranti) ma che “ora bisogna attaccarlo”. A quel punto la faida tra la procura di Catania, quella del giudice Carmelo Zuccaro che dà parere contrario ad indagare Salvini e quella di Agrigento dove il giudice Luigi Patronaggio vuole perseguire per sequestro di persona l’ex Ministro degli Interni. Alla fine, Patronaggio diventerà un eroe per la stampa, mentre Zuccaro un pericoloso fazioso. Palamara spiega così la vicenda: “la maggior parte dei giornali si schiera senza se e senza ma dalla parte di Patronaggio. Chi l’ha deciso? Non c’è uno che dà le carte, c’è un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono e fa leva su Magistratura Democratica”. Palamara racconta che si tratta di condizionamento ambientale: le persone sanno naturalmente come allinearsi alla volontà della corrente in cui sono immersi, senza dover ricevere ordini espliciti da nessuno. Serve proprio a questo l’addestramento e la gavetta, a farti capire come funziona il meccanismo. Poi sarai tu ad auto-censurarti, anche quando non sarai d’accordo con alcune forzature della tua area. Nel libro vengono fatti diversi esempi per spiegare questo fenomeno, uno fra tutti è quello di Antonio Sangermano, uno dei pm che condusse insieme ad Ilda Bocassini l’inchiesta sul “caso Ruby”. Quando nel 2015 Silvio Berlusconi verrà scagionato, Sangermano dichiarerà “la legge Severino (quella che ha buttato B. fuori dal Parlamento) è stata un’evidente forzatura”. Palamara commenta così: “Apriti cielo, parte un fuoco di fila organizzato dall’Anm, al quale anche io partecipo, e si arriva pure a chiedere le sue dimissioni. È ovvio che un clima del genere intimorisce i singoli magistrati, le cui carriere sono nelle mani di pochi eletti. Come dire: guardate che qui dentro il dissenso dalla linea ufficiale non è ammesso, neppure a posteriori”. Il famoso teorema di Giuliano Ferrara: per far parte di un sistema di potere devi essere ricattabile/controllabile. Ecco, anche nel giornalismo, come in qualsiasi corporazione, probabilmente non serve qualcuno che ti dica cosa scrivere, lo sai già perché sai come funziona, a seconda del potere che difendi. Non serve scandalizzarsi, è sempre banale, quando qualcuno lo dichiara apertamente. Non esiste un blocco gestito da un unico centro ma come viene spiegato nel libro; “esistono sottosistemi, che a volte si contrappongono e a volte si alleano dentro un unico grande sistema […] a tratti si alleano sottobanco per un comune obiettivo”.
Come viene confermato dall’affaire Palamara, un uomo che ha fatto da mediatore tra le correnti all’interno della magistratura per anni, il potere funziona per sfere d’influenza. La spartizione correntizia delle nomine e delle cariche con logiche politiche, dimostra quello che molti sanno ma che non possono dimostrare: non esiste alcuna selezione meritocratica in un sistema corporativo. Ovviamente questa logica non vale solo per la magistratura. Palamara dice esplicitamente che per le nomine, il curriculum era praticamente ininfluente, spesso non li guardavano neanche. I famosi colloqui che servono per scegliere un candidato, venivano decisi in maniera collegiale prima ancora di entrare per esaminare. A volte anche lo studente “figlio di” o “sponsorizzato da” viene aiutato in un esame. Questo reclutamento alla fonte, quando si prendono giovani magistrati sotto la propria ala, serve per crescere magistrati fedeli, che nel futuro potranno essere utili. In questo modo ci si assicura continuità e fedeltà, e il potere resta blocco granitico. L’ex magistrato sostiene “che essere bravi non basta”, se non hai appoggi e non fai parte di un gruppo, non potrai mai fare carriera. Come hanno poi scoperto magistrati come Nicola Gratteri, Nino Di Matteo, Clementina Forleo, Antonio Ingroia e Luigi De Magistris. Questa è la logica politica applicata alla magistratura. In un ambiente di potere giocare da soli vuol dire cercare il martirio. Come diceva Piero Calamandrei: “quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra”. Si potrebbe obiettare che tutto ciò che è uscito con il caso Palamara e tutto ciò che ancora forse deve uscire, fosse risaputo. Oggi però lo sappiamo per certo.
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