Alla voce “gesuita” della Treccani si trova un figurativo dispregiativo riconducibile a persona ipocrita che tende ad accrescere il proprio prestigio e potere nella società; le prime testimonianze di distillazione delle vinacce, risalenti al 1600, sarebbero ascrivibili ai gesuiti, tra cui un certo Terzi Lana; e una cosa denominata “Polvere della Contessa” di Chinchon , talvolta erroneamente trascritta priva di una mutina – Cinchon, diede il nome “sbagliato” ad un intero genere di piante, grazie a Linneo che della versione mal trascritta decise di fare uso per denotare il genere Cinchona appunto. Sarebbe stato l’intervento di un qualche abile antesignano del marketing a trasformare in leggenda quello che veniva chiamato “polvere dell’anticristo” o “polvere dei gesuiti”, che altro non era che miracolosa corteccia di chinina contro la Malaria. Medicina che nessuno voleva usare, persino Oliver Cromwell che di malaria poi morse, perché questa era usata, diffusa e promossa dai gesuiti i quali, con tale nobile, acuto, ma fantasioso nome (Polvere della Contessa), salvarono un’enormità di vite rimanendo comunque, soprattutto nelle Americhe, odiatissimi. Inoltre, al paragrafo 547 delle costituzioni ignaziane si fa riferimento a un’obbedienza docile in relazione agli ordini gerarchici, a cui reagire allo stesso modo di un cadavere – Perinde ac cadaver – e che tale obbedienza è dovuta alla Provvidenza, incarnata dai superiori, al fine di muoversi nel solco che porta ad maiorem dei gloriam. Tale è il motto della Compagnia di Gesù. Motto che diviene proprio dell’Alleanza Cattolica se ad esso si aggiunge et socialem; alleanza che ritiene il WSF (World Social Forum) un vero e proprio “laboratorio di sovversione”.
Ma andiamo per gradi. Chi sono i gesuiti? Tutto cominciò con uno spagnolo figlio di papà, minore di tredici nati che cagionevole di salute preferì la gloria dei santi alla gloria del milite. Claudicante egli
“camminando così assorto nelle sue devozioni, si sedette un momento, rivolto verso l’acqua che scorreva in basso, e, stando lì seduto, cominciarono ad aprirglisi gli occhi dell’intelletto […] con una tale luce che tutte le cose gli apparivano nuove”.
Nacquero così gli Esercizi Spirituali Ignaziani fino ad arrivare poi, una cinquantina d’anni dopo, alla Ratio atque Institutio Studiorum Societatis Iesu (“Programma scolastico ufficiale della Compagnia di Gesù”), che nei secoli ha sviluppato una delle più capillari ed efficienti reti di collegi del mondo fondata su quello che viene denominato il Programma Pedagogico Ignaziano (PPI). I gesuiti educano gli allievi alla lettura del contesto, all’esperienza, all’azione, alla valutazione, al fine di generare soggetti in grado di giungere alla verità. Nasce così la fabbrica dei futuri attori della Compagnia di Gesù, uomini dotati per formazione di una particolare quanto paradossale libertà di pensiero, personaggi tra i più vari dalla coscienza coltissima e finissima tanto da spingere a chiedersi di che natura possa mai essere il Credo di tali esseri umani. Dal mistico Surin, al politologo Sorge, all’esperto in dialogo interreligioso Jacques Dupuis fino all’astronomo e fine scienziato Georgie Coyne, e questi non sono che sparuti esempi, abbiamo a che fare con alleati per la dottrina della restaurazione dell’ordine cristiano sulla Terra. Uomini pronti ad utilizzare tutti (davvero molti) gli strumenti in loro possesso (anche machiavellici) per agevolare la Provvidenza nella realizzazione pratica del progetto divino di creazione del Paradiso in Terra per cui il fine giustifica ogni mezzo, persino strategico militare. I gesuiti sono attori/creatori di una Storia provvidenziale il cui presupposto è la salvazione dell’Uomo, e per loro il Popolo conserverebbe un’innocenza originaria che andrebbe guidata contro le peripezie nefaste imposte dall’anti-popolo formato da persone egoiste, consumiste e ignare dei danni apportati al progetto generale della divina Provvidenza.
Così teologia e teleologia si fondono per divenire qualcosa di unico nel solco dell’introspezione costante scevra da narrazioni mitologiche e con un debole fortissimo per la Verità della Scienza; ovvero la possibilità di un Cammino di Perfezione votato alla grazia e al riconoscimento dei doni interiori, perdendosi per il mondo come un bambino nel grande abisso senza fondo. Il gesuita si sottomette a Dio e al contempo se ne libera, divenendo egli stesso artefice del suo progetto sulla terra e ambigua dimostrazione strategico-pratica della sua realizzabilità. Non stupisce affatto che essi siano stati oggetto di persecuzioni e messe al bando per volontà di numerose realtà sociali, dalle Americhe alle Indie, dalla Spagna alla Russia, fino all’ufficiale soppressione dell’ordine da parte della Santa Sede nel 1773, soppressione che però resse “solo” quarant’anni. Adesso, all’alba del terzo millennio, a quasi cinquecento anni dalla fondazione, duemila dalla passione del loro simbolo cardine fattosi nuova carne attraverso il corpo dei compagni, tra le fila dell’intellighenzia che si protegge con tutti i mezzi dal martirio inscritto nel DNA dell’innovatore i gesuiti hanno un Papa, e uno dei più brillanti allievi della Ratio Studiorum presiede lo scranno di Presidente del Consiglio dei Ministri italiano con il plauso pressoché unanime di tutto l’Occidente che conta. La domanda che sorge spontanea è se questo non sia solo l’inizio di una nuova persecuzione. Ad una analisi attenta si può certo dire che il Potere della Compagnia di Gesù, come svolgimento della volontà di Cristo in Terra, non ha fatto altro che accrescersi secolo dopo secolo.
Molti gesuiti sono persino liberal-democratici e ironici rispetto a se stessi e alle credenze in genere, ma sempre e comunque nel solco di un’appartenenza a una tradizione egemonica i cui obiettivi sono definiti in maniera cristallina, e i cui profili deliranti non possono essere certo sotto-rappresentati in una critica laica e agnostica che ha definitivamente oltrepassato il concetto di sottomissione a qualsivoglia divinità. Non si può certo restare vittime della fascinazione culturale che chi, dotato di strumenti opportuni, può e vuole esercitare sull’innocenza originaria. Innocenza in cerca soltanto di protezione dall’assurdo dell’esistenza priva di scopo. Sarà dunque un secolo gesuita? Bergoglio riuscirà a mettere in discussione seriamente il concetto di proprietà privata? Draghi con il suo fare così tipicamente gesuitico riuscirà ad imporre ad un’Italia naufraga e in avaria le “sue” ricette fino in fondo? Quanto è libero l’arbitrio di un compagno di Gesù? Che forma ha davvero questo Paradiso in Terra che i gesuiti cercano di costruire? Il fatto stesso di trovarci in una condizione contemporanea delineata dalla presenza di un confratello, il primo gesuita di sempre, nella qualità di “Vescovo di Roma” e che al suo fianco dopo pochi anni vi sia un cavaliere senza macchia annunciato come un arcangelo, narra senza ambiguità alcuna della Storia che stiamo tutti noi vivendo. Una Storia fatta di proseliti e moralismo di maniera, dove buoni propositi e belle speranze indorano una pillola che non potrebbe avere un sapore più amaro. Nemmeno ad immaginarla l’Italia e il Vaticano avrebbero potuto avere una conformazione più populista e nazionalista di quella che stanno incarnando oggi. Il Popolo innocente si affida alle sue pur blande certezze e nell’Italia del terzo millennio siamo tornati tutti peccatori, persino il vaffa elevato si inchina alla maestosità del progetto divino. Quale che sia la scena che si prepara, al netto delle “sincere” manifestazioni di interesse, ciò che si intravede all’orizzonte non appare certo come un eden simile a quelli che ci hanno figurato da bambini. Come si può pensare che qualcuno perfettamente consapevole dell’assurdo privo di scopo, che vive il proprio ego come fardello di cui pentirsi nel corso degli eventi, possa davvero renderci più liberi?
È facile prendere dei buoni concetti, inserirli nel proprio schema programmatico e convincere tutti quelli che si può che ciò che si vuole fare è giusto. Troppo facile se si pensa che a farlo sono persone formate a bella posta per essere dotate di indistruttibile perseveranza e concreta superiorità morale e intellettuale. Facilissimo se gli interlocutori, il Popolo, sono il portato di decadi storiche viziate da un progressivo e inesorabile depauperamento di tutte quelle qualità che tanto care sono a chi oggi vuole farci delle lezioni di bon ton. Ecco che il progetto cardine della Dottrina Sociale delle Chiesa prende forma e soprattutto sostanza con le sue abilissime cellule di sussidiarietà pronte ad “aiutare” i fedeli a dar forma al loro presente ma soprattutto al loro futuro. Papa Francesco immagina la Chiesa come “un ospedale da campo”, ovvero un luogo di emergenza con tutte le caratteristiche dell’emergenza – dice Antonio Spadaro citando la massima autorità della Chiesa. Sappiamo bene però ad un anno dall’inizio della pandemia cosa questo significhi: perdita della possibilità di autodeterminarsi, perdita sostanziale del dominio sul proprio corpo che poi è anche mente. Significa essere eterodiretti da qualcuno superiore a noi per il nostro bene. Il mondo gesuitico è un Creato molto malato dominato da una logica apocalittica imperante e la cui cura starebbe nell’estratto della radice della fratellanza che non va immaginata come un concetto culturale ma come dato di fatto. Saremmo così dei “viandanti fatti della stessa carne” quella di Gesù. Siamo tutti gesuiti! Anche se non lo sappiamo ancora, anche se apparteniamo ad altre confessioni religiose. “Chi è mio fratello?” dice Spadaro – direttore de La Civiltà Cattolica – e aggiunge “E di chi io mi faccio fratello? Che implica l’azione e quindi la libertà… L’Uomo oggi – continua – o è apostata o è martire, invece no! – dice – siamo fratelli!” Prova ne sia la storica firma congiunta, a testimonianza dell’accettazione di questa fratellanza di fatto, avvenuta su un documento congiunto da parte di Jorge Bergoglio e il Grande Imam di Al Azhar. I due massimi esponenti delle culture cristiana-cattolica e musulmana. E non stupisce che due potenze possano unirsi per accrescere le loro aree di influenza.
La vocazione militare si evince dalle dichiarazioni dello stesso Spadaro in un video pressoché ignoto, in cui paragona la fratellanza gesuitica a quella della Rivoluzione Francese, dove distingue tra la Solidarietà perequativa che parte dalle differenze (di reddito soprattutto) e la fratellanza come coadiuvante nella protezione delle diversità personali partendo dall’eguaglianza di fatto. La visione del Papa non è politica ma teologica anche se poi torna ad essere politica come in un gioco delle tre carte. Egli parla di concupiscenza, inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza dei propri bisogni, della riduzione all’individualismo come frutto del peccato. Dunque la parabola del buon samaritano, operatore sociale e fratello di tutti nel mondo malato. Dunque la Terapia. Il messaggio evangelico chiaramente va molto oltre il perimetro ecclesiale, l’obiettivo è la edificazione del regno di Dio e qui ritorna lo spettro egemonico. Spadaro giustamente si riferisce all’approccio “terapeutico” come a un qualcosa di geniale e dice: “L’occhio malato non vede la malattia, l’occhio sano che vede può sviluppare la cura”. Il gesuitismo è la vera cura per questo mondo malato. La chiesa si immola per il nostro bene, ma per farlo deve occuparsi di noi malati a tutto tondo; per questo ha bisogno delle chiavi della nostra vita. Siamo malati e forse incapaci di accorgercene e dunque di badare a noi stessi e la Chiesa sarebbe il nostro Tutore legale. Una procedura di Amministrazione di Sostegno. Un po’ come nell’ultimo film di J. Blakeson – I Care a Lot – dove un’ottima Rosamund Pike finisce con il morire sparata per il troppo amore che rifilava ai suoi assistiti. “È come se da una torta invece di gustarla io decidessi di interrogarmi sugli ingredienti.” aggiunge Spadaro alla “sua” logica, sviluppando una fruizione metaforica della Laudato si’ di Papa Francesco. Nel 1942 Albert Camus scriveva:
“Ma, poiché non posso negarla con un tratto di penna, devo dunque mantenere ciò che credo vero e sostenere ciò che mi appare tanto evidente, anche se contro me stesso. E che cosa forma il fondamento del conflitto, della frattura fra il mondo e il mio spirito, se non la coscienza, che io ne ho? Se voglio dunque conservare tale conflitto, devo farlo per mezzo di una coscienza perpetua, sempre rinnovantesi, sempre tesa”.
Albert Camus
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