Immaginate che qualcuno sia d’accordo con Margaret Thatcher e poi, nemmeno una settimana dopo, si dichiari erede di Enrico Berlinguer. La prima reazione sarebbe suggerirgli uno psichiatra o un corso intensivo di storia del Novecento, a seconda che si voglia attribuire la cosa a sdoppiamento della personalità o ignoranza. Se, però, quel qualcuno è Matteo Salvini tutto appare perfettamente coerente. Salvini può permettersi di dirlo in ragione del merito di aver capito, prima e meglio degli altri, come ticchettano gli ingranaggi di una società post-ideologica. Ancora meglio dei Cinque Stelle: il Movimento ha annunciato la morte di destra e sinistra, ma ha subito sostituito la dicotomia con altre contrapposizioni – quella fra malaffare e onestà, o fra vecchio e nuovo. Salvini, invece, si rende conto che non è sparita solo la struttura formale che ingabbiava le idee, sono sparite proprio le idee. È dal basso che la tarda modernità ha distrutto la politica, rosicchiandone le fondamenta di significato. Salvini non mente: nel suo mondo, che purtroppo è anche il nostro, davvero non c’è contraddizione fra Berlinguer e la Thatcher, così come non c’è contraddizione fra i selfie coi gattini e quelli scattati alla sagra della porchetta, fra elogiare la famiglia tradizionale e averne due o tre, di famiglie, non tradizionali. Come, del resto, non c’è contraddizione fra essere di sinistra e abolire l’articolo 18, o essere liberali e inanellare leggi liberticide.
Il PD conserva un vacuo residuo ideologico, come il trucco rimasto sul volto di un pagliaccio a fine carriera: suscita, forse, più tristezza che rabbia sentirli rivendicare la Resistenza e il PCI. Una trappola che Matteo evita con la sua allegra strafottenza, recidendo qualsiasi legame storico e presentando al pubblico un eterno presente. Marcello Veneziani scrive, commentando gli ultimi fatti salviniani, un articolo formalmente impeccabile, ma sbagliato nelle premesse: è ingenuo attribuire all’elettore della Lega un profilo, quando la fluidità è proprio la cifra della grande crescita del partito. Ed è ingenuo pensare che Salvini abbia bisogno di inserirsi in una qualsiasi continuità, che sia quella di Almirante o di Berlusconi. Perché Salvini è tarato perfettamente per l’attention span del nostro tempo: una settimana scarsa per dimenticarsi il tweet di prima.
C’è un elemento che Veneziani, forse per eccesso di ottimismo, non sembra cogliere: per funzionare, oggi, un politico non può permettersi le idee. Deve parlare fuori contesto, senza premesse, senza corollari, nella consapevolezza che non ci saranno conseguenze. Più che a tutti, deve parlare a ciascuno. E, in effetti, lo slogan prima gli italiani può essere declinato in prima tu: chiunque tu sia, imprenditore, operaio, cattolico indignato, deluso cronico o evasore incallito, Salvini è d’accordo con te. Ed è curioso che il grande avversario del leader leghista, Giuseppe Conte, sia ugualmente non pervenuto sul piano delle grandi questioni. Difficile dire cosa pensi Conte: è la quintessenza del tecnico, uno che prova ad aggiustare le cose così come vengono, si fa merito di aver salvato il salvabile. Fra la sua politica e quella delle idee c’è lo stesso vaghissimo legame che passa fra un bagnino ed Hemingway: il secondo ha scritto un romanzo che aveva a che fare col mare. Salvini, da parte sua, è un tecnico non dell’amministrazione, ma del consenso, e i suoi strumenti sono le invettive contro l’Europa, dalla quale non vuole comunque uscire, e contro i migranti, per i quali non ha nessuna soluzione. Entrambi, Conte e Salvini, hanno abdicato alle idee per necessità, più che per incapacità: le idee rischierebbero, con la loro solidità semantica, di inceppare meccanismi che devono mantenersi fluidi.
Ancora più curioso è che Salvini passi per fascista, quando incarna proprio l’apatia e la medietà. E sì che la definizione potremmo anche utilizzarla, ma non certo nel senso letterale, storiografico – e stupido – inteso dai detrattori. Potremmo utilizzarla se si ammettesse che, di questi tempi, siamo tutti fascisti. Nel senso di Pavese, con la voce del protagonista de “La casa in collina”: “chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista”. Nonostante la frammentazione del pensiero politico in mille direzioni e l’emergere di nuovi discorsi – ecologici, di genere – la misura di quest’epoca è la mediocrità. L’intreccio fra media e pressioni sociali produce pacchetti di pensiero prêt-à-porter che valgono come tessere di questo o quell’altro club, servono a non sentirsi soli fuori, fra la gente, e a non sentirsi soli dentro, nel vuoto della testa. Se poi il pensiero si scolorisce, rimangono concetti generici; cose come “libertà”, “tolleranza”, “odio”, “giustizia”, “discriminazione”, da combinare a piacere. Che ne emergano obbrobri come Salvini epigono di Berlinguer, oppure le femministe sex positive pro-bordelli è, in fondo, lo stesso fenomeno. Per dirla con Brecht, i posti dalla parte della ragione sono tutti occupati, e prenotati per mesi come un ristorante gourmet. E il nostro Matteo è un artista dell’aver ragione, anche quando ha torto.
La sua inclusività ideologica scorre parallela a quella ontologica dei liberal: entrambi segnali di indifferenza, “aridità, deserto, nessuna fede”. Quando persino Selvaggia Lucarelli scopre l’acqua calda, ovvero che la strategia comunicativa salviniana funziona, con qualche insignificante aggiustamento di registro, anche a sinistra, bisognerà ammettere che ci è toccato in sorte un pessimo Zeitgeist, e questo è tutto. Conferma finale della pessima fede di quanti, giornalisti e influencer assortiti, fanno di mestiere gli sparring partner di Salvini: il problema non è il Salvini in sé, ma il Salvini dentro di me.