L'editoriale

Il piagnisteo della cultura

Il lockdown, molto più del Covid19, ha smascherato il mondo della cultura italica, cioè un mondo stipendiato dallo Stato a spese dei contribuenti. Improduttivi e assistiti erano, improduttivi e assistiti rimangono.
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C’è chi sceglie di stare nella mediocrità culturale di Stato e chi no. Follow the money direbbero gli inglesi. Eccoli lì infatti, a fare i lib-lib, con i soldi del Ministero. È il capitalismo straccione degli assistiti, in una logica tribale e clientelare ovviamente, della Repubblica fondata sui bandi e i fondi pubblici. Beati gli amici degli amici. L’importante è riuscire a fingersi manager di sé stessi, sono tutti produttori televisivi o cinematografici, editori di libri e riviste, curatori di mostre o festival, persino quando si trovano nel punto più infimo della catena di montaggio, che siano creativi o “think-tanker” (ovvero “bassa manovalanza” che disonorerebbe il padre o la madre pur di fare carriera). Il lockdown, molto più del Covid19, ha smascherato il mondo della cultura italica, cioè un mondo stipendiato dallo Stato a spese dei contribuenti. Improduttivi e assistiti erano, improduttivi e assistiti rimangono. Con o senza epidemia. Basti vedere il silenzio, con qualche eccezione come il Maestro Riccardo Muti, uomo di sensibilità superiore, o Nicola Lagioia, direttore del Salone del Libro di Torino, scrittore di talento trasformatosi in vero e proprio imprenditore della cultura, di fronte alla chiusura di teatri, musei, cinema, sale da concerto, spazi fieristici.  

Se davvero questi “artisti” fossero liberi e indipendenti, invece di dirsi frustrati per la loro condizione odierna, agirebbero nella clandestinità. Ribellarsi come hanno fatto in alcune piazze di Italia qualche settimana fa sarebbe troppo. Ma quando si è subordinati allo Stato è impossibile tornare all’oblio dello Stato. Tanto prima o poi ci penserà il Ministero, che vede e soprattutto provvede. Anche quando sarà finito il lockdown e, teatri, cinema, musei, sale da concerto, spazi fieristici, continueranno a essere vuoti. È un mercato quell’editoriale di Stato che se ne frega del rapporto tra l’offerta e la domanda perché tanto i denari vengono calati dall’alto. Con la cultura si mangia eccome, basta andarsi vedere i soldi che girano nei bandi pubblici. È una lotteria dove non si premia il genio ma il talento di chi sa comunicare, fingere, consolare l’auditorio, dunque amicarsi la critica, assecondare il datore di lavoro (che in gira rigira è sempre lo Stato o i suoi sgherri), saper relazionarsi nei giri che contano.

La verità è che a mancare, in questo ambiente, è la fame (di denaro, di sogni, di miracoli). Gian Carlo Ferretti nel libro monumento Storia dell’editoria letteraria italiana (Einaudi) lo lascia intendere attraverso le vite incredibili di Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli, fondatori di imperi editoriali, entrambi figli di calzolai analfabeti, nati nella povertà, cresciuti come garzoni dentro una tipografia. Erano “incantatori di serpenti”, serpeggiavano negli ambienti politici e intellettuali nella febbrile ricerca di soldi, contatti, affari. Nel 1942, uscendo dalla stanza di Arnoldo Mondadori, dopo aver firmato il contratto che lo avrebbe legato a lui per sempre, Giuseppe Ungaretti dichiarò entusiasta: “Conosce la mia opera, appena sono entrato mi ha detto ‘Maestro, mi illumino d’immenso!”. Promettevano, negoziavano, dissimulavano, millantavano se necessario. Sapevano di essere dei predestinati. A muoverli era la volontà di riscatto, non l’ossessione di accreditarsi in chissà quale circolo iniziatico. Angelo Rizzoli una volta disse al suo consulente Luigi Rusca, stupito dei positivi risultati economici: “Lei mi ha imbrogliato, altro che cultura! Con questi libri qui (riferendosi alla collana a basso prezzo BUR, appena lanciata, ndr) si guadagnano un sacco di soldi”. C’è una linea sottilissima tra la scaltrezza di chi fa questo mestiere e l’abilità nemmeno troppo velata di chi pratica l’arte dello scrocco sulla pelle dell’opinione pubblica prima ancora dei cittadini che pagano le tasse. La cultura è anarchica per definizione, e così deve essere anche la strategia imprenditoriale di chi vuole immergersi in questo campo. Occorre non obbedire a nessun ordine o corporazione se non a quello dei lettori, gli unici veri custodi della libertà (intellettuale). Tutto il resto è noia, o peggio, mediocrità di Stato.

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