Fin da quando l’economia non aveva ancora un nome, l’idea che questa si potesse evolvere o pervertire nel suo contrario era già presente. Il sentimento di come l’economia avesse un modo d’essere virtuoso e uno vizioso diametralmente opposti è già alla base della teoria Aristotelica che contrapponeva economia naturale a crematistica (che, come annota Costanzo Preve, letteralmente suona pressappoco come “tecnica (o arte) di creazione di beni”) artificiale. Già qualche secolo prima di Aristotele, Tucidide aveva immaginato che lo sviluppo del mondo greco arcaico fosse principalmente da imputare al passaggio tra scambi finalizzati all’αρπαζειν (“predazione”) a scambi finalizzati al χρηματιζειν (“acquisizione di beni”).
Per il filosofo greco, che aveva una postura teorica ben diversa da quella dello storico, la differenza tra economia naturale e crematistica era tutta nella destinazione d’uso dell’oggetto che si scambia: una scarpa, scambiata per del grano, non cessa di essere una scarpa, e anche se chi l’ha scambiata ne ha fatto un utilizzo imprevisto, chi la riceve ha bisogno proprio di una scarpa e in tal modo ne usufruirà. L’introduzione della moneta è invece il momento in cui un oggetto – che di per sé non ha valore d’uso – assume valore in virtù di una convenzione.
Aristotele notava come l’invenzione della moneta avvenga per naturale innovazione, al fine di rendere i traffici a lungo raggio più agevoli; ma vi allega un ammonimento: la moneta non avrà mai valore d’uso per sé, rimarrà per sempre un costrutto.
Ciò che dunque risalta è come l’economia abbia una natura ambigua, tesa fra una genesi puramente naturale (nel senso di connaturata nell’uomo) come strategia di sopravvivenza e di gestione dei beni e una serie di sovrastrutture convenzionali che rischiano di pervertirne gli intenti e le premesse.
La natura ambigua dell’economia è anche nella doppia rete che interconnette tre elementi: la creazione di beni non avviene, ovviamente, dal nulla, ma dalla manipolazione di elementi naturali (il valore-lavoro di Marx). Si delinea dunque un ideale triangolo di scambio fra uomo-natura-uomo, in cui tutti e tre producono, in un certo senso, valore. Da questo punto di vista, il rapporto tra uomo e natura assume anche il connotato di un rapporto di scambio in termini puramente crematistici, infatti la gestione delle riserve di beni non lavorati (miniere, foreste, bacini idrografici) occupa un posto di rilievo nelle reti economiche. Senza voler entrare nella complessa giurisprudenza che regola il possesso legale di tali aree, i saperi di gestione che l’uomo utilizza nei confronti delle aree naturali hanno senz’altro una natura economica.
Queste riflessioni sono il seme da cui si dipartono le teorie fondanti dell’ambientalismo contemporaneo.
Nel 2005 la filosofa e attivista indiana Vandana Shiva dà alle stampe un testo fondamentale: Earth Democracy. Si tratta di un’agile ma compendiosa summa degli aspetti critici del globalismo economico. Il testo si apre con una considerazione più ampia, e dal sapore decisamente programmatico, sulla natura dell’economia, nel tentativo di mostrare chiaramente un’alternativa percorribile al capitalismo globale. Secondo Shiva – per la quale occorre puntualizzare, visto che ci troviamo nell’epoca della Tirannia degli esperti, come questa non abbia una formazione prettamente economica (il che non è necessariamente un male) – l’economia stessa sarebbe divisa addirittura in tre aspetti: economia naturale, economia di sussistenza ed economia di mercato. Si tratta di veri e propri modelli teorici di produzione molto diversi, non di fasi evolutive del sistema economico.
La prima fase – economia naturale – corrisponderebbe, ad esempio, con la produttività pura dei sistemi naturali, a prescindere dall’intervento dell’uomo. Questo non implica semplicemente che gli elementi della biosfera interagiscano fra loro in maniera caotica, creando beni non commercializzabili ma necessari alla vita – quali, ad esempio, l’ossigeno – ma che queste reti biotiche possono impattare in modo significativo sull’economia, conferendo alla “natura” un ruolo anche nella produzione di beni di valore. L’economia umana inizia, per Vandana Shiva, con il sistema della sussistenza, il secondo aspetto dell’elenco. Questo sarebbe il modo più semplice e più armonioso di convivere con la natura perché correrebbe in parallelo con il primo sistema, in un ideale rapporto paritario fra l’uomo che prende dalla natura beni di sussistenza – e ottimizza quindi reti di scambio di beni commercializzabili – e la natura nel ruolo di produttore ultimo. O meglio, penultimo, perché l’uomo e la natura, attualizzando la lezione del Maha Upanisad, non sarebbero altro che una parte della famiglia del mondo (vasudhaiva kutumbkham): l’insieme di tutti gli esseri che traggono sostentamento dal pianeta, che assumerebbe la forma di centro di tutte le reti dell’esistente: energetiche, biologiche, economiche. È facilmente intuibile come la forma perfetta di organizzazione sociale umana sarebbe, per Shiva, una sorta di localismo democratico globale, una Earth Democracy appunto :
“La localizzazione permette di assicurare giustizia e stabilità”.
Se il centro di tutto è un Ur-produttore planetario, un superorgano, non sorprende come l’economia di mercato sia intesa, da Vandana Shiva, come il Sommum Immondum, il pervertimento perfetto dell’ordine, la dissonanza che non può coesistere con gli altri due sistemi. Questa sarebbe finalizzata a comporre beni commercializzabili ma non necessari (Bataille direbbe ostensivi), scavalcando il diritto degli individui ad accedere ai beni necessari non commercializzabili della propria area di mondo e andando a sostituire di fatto le forme economiche di sussistenza. Poiché di diritto, inteso nella sua accezione più vasta, si parla, si può intuire agevolmente come il paradigma della crescita economica che guida il mercato globale e il sistema neofeudale delle multinazionali sia in realtà una negazione ontologica dell’economia stessa.
Come ci tiene a precisare in apertura Vandana Shiva stessa, riattualizzando, senza mai citarla, la riflessione Aristotelica, economia ed ecologia sono dimensioni profondamente interconnesse, imperniate intorno alla comune radice greca οίκος (casa). Dove infatti l’ecologia incarna, appunto, la loghia della casa (tutto ciò che può essere saputo ed esperito intorno alla dimensione fisica, tutti i saperi che possono essere studiati e tramandati, letteralmente tutti i “discorsi intorno”); l’economia attiene alla dimensione del nomos, della regolamentazione e della gestione dello spazio abitato. Regole autoimposte e saperi devono necessariamente andare a braccetto perché la casa funzioni. Allontanando ed astraendo l’economia dalla sua dimensione profondamente ecologica, sembra ammonire in ultima analisi Vandana Shiva, si rischia di perdere di vista il necessario a tutto vantaggio di astrusi intellettualismi dietro cui si nascondono solo le vecchie dinamiche di potere.
Ma se dal punto di vista del dibattito teorico e critico l’ambientalismo contemporaneo sembra poter proporre posizioni economico-ecologico complesse, sembra che, nella pratica, il fronte ambientalista sia meno coeso e meno funzionale di quanto appare. Risulta evidente soprattutto se si tengono presenti le strategie che tale fronte attua in fase di lotta.
Ancora una volta Ultima Generazione ha deciso di bloccare il Grande Raccordo Anulare di Roma con un sit-in, nel tentativo (dichiarato) di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di una svolta elettrica nell’acquisto di autovetture, ma col risultato tangibile di suggerire una sorta di piano di investimenti futuribile per le corporations. La preoccupazione nei confronti della salvaguardia del pianeta non può non essere inserita in un quadro di interazioni macroeconomiche che ridefiniranno l’assetto dei mercati negli anni a venire. Non a caso, in America (dove il mercato è politica e la politica è mercato) a spingere indietro la narrativa sulla catastrofe climatica sono principalmente figure che hanno interessi profondi nello sfruttamento di combustibili fossili, mentre chi ne fa un cavallo di battaglia è spesso molto più interessato a sostituire i primi nei ranghi di comando. Si potrebbe pensare che questo sia uno degli obiettivi di questa ondata di ambientalismo militante: cercare di sostituire una vecchia guardia di trivellatori con figure più giovani provenienti da aziende più consapevoli e più rinnovabili.
A prescindere da inutili e irrimediabilmente faziosi (per non dire “da indignati di professione”) discorsi intorno a quanto vi sia o non vi sia di legittimo in queste lotte, sui suoi strumenti, sulle parti in causa; il processo di sensibilizzazione ai bisogni del pianeta (che un antropologo non può fare a meno di leggere come un processo di inculturazione) procede senz’altro a gonfie vele, e tra importanti fanfare. Come se negli ultimi cinque anni(sei? sette? La storia in divenire, specialmente una storia che va a misurare il sentimento popolare, è di difficile lettura mentre si fa) il velo di Maya dell’avidità fosse caduto dalla fronte degli uomini e si fosse palesata una verità nascosta nei meandri più profondi della gnosi: l’impatto antropico ha il suo peso nel quadro delle reazioni biochimiche che regolano il funzionamento del pianeta Terra. Come se non si parlasse, in fondo, delle solite vecchie dinamiche di potere.