In questi convulsi giorni di crisi politica molti esponenti della (ex) maggioranza si sono prodigati in accese difese dell’operato del(l’ex) presidente del consiglio Giuseppe Conte: dai Cinque Stelle al Partito Democratico per finire a Leu, tutti si sono uniti in un coro unanime lodando le sue capacità di sintesi tra partiti così diversi, osannando le sue abilità negoziali nel raggiungere il tanto patito Recovery Fund, incensando la sua figura per renderla di fatto imprescindibile da qualsiasi altro possibile governo. Non volendo abbandonare il campo semantico della liturgia, qualche sarcastico commentatore potrebbe far notare al protagonista di tutte queste odi un’analogia non del tutto rassicurante per il proseguo della sua carriera politica. Come i parenti afflitti celebrano le qualità del defunto durante le ore strazianti della cerimonia funebre ‒ elencando le infinite qualità e dimenticandosi dei numerosi difetti, con un occhio al ben nome della famiglia e con l’altro all’eredità da spartirsi in segreto ‒ così potrebbe sembrare che gli alleati di governo, mentre beatificano Conte a reti unificate, stiano in realtà cercando un altro papabile premier in grado di assicurare la fiducia necessaria per traghettare il Paese fuori dalle pastoie della crisi.
Siamo certi che anche una parte delle alte sfere del Vaticano si unirebbe volentieri in questa preghiera, affidando la sorte “dell’avvocato del popolo” in mani ben più sicure di quelle dei capi della maggioranza. Gli stretti rapporti tra Conte e l’apice del governo della Santa Sede non sono un mistero, ma frutto di una lunga amicizia iniziata a Villa Nazareth quando il giurista di origini pugliesi ancora non maturava la scelta di entrare in politica. Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità, l’arcivescovo Claudio Maria Celli, diplomatico d’Oltretevere tra i più influenti negli ultimi decenni e il defunto cardinale Achille Silvestrini, “ministro degli Esteri del vaticano”, sono i tre prelati che più di ogni altro hanno o continuano ad avere a cuore la carriera del Presidente del Consiglio. La stampa di tanto in tanto ricorda l’esistenza dei rapporti tra Conte e il partito romano ‒ il nome che viene dato a quest’insieme fluido di alti funzionari vaticani, faccendieri e finanzieri ‒ e si spiega questa affinità con la volontà da parte di entrambi di far nascere un nuovo partito politico cattolico – alcuni dicono che Conte avrebbe pronto il brand “Insieme” e che ci sia persino un programma elettorale – da situare al centro dello scacchiere parlamentare.
Da quando la Democrazia Cristiana si è sciolta all’indomani di Mani Pulite, nessun partito della Seconda Repubblica è riuscito a catalizzare su di sé tutto l’elettorato cattolico e diventare il punto di riferimento del Vaticano. Di volta in volta, a seconda dei casi e dei contesti, ci sono state amicizie, corteggiamenti e vere e proprie alleanze tra la curia e i palazzi romani del potere in nome di una battaglia specifica. La più famosa tra le infatuazioni vaticane è senz’altro quella tra il Cardinal Ruini, ex presidente della Cei, e Forza Italia agli inizi degli anni duemila per combattere la legalizzazione delle coppie omosessuali, ma in nessun caso queste vicinanze si sono tramutate in esperienze politiche organiche. Ora sembra che la classe dirigente di Papa Francesco sia pronta a fare il grande passo, visto che ha già un leader amico in cerca di una casa stabile, e che stia lavorando per la creazione di un polo cattolico progressista in grado di dare una casa ai tanti elettori credenti che si sentono spaesati di fronte alle tendenze contrastanti della politica odierna.
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In queste ore assistiamo per la terza volta in poco meno di tre anni alla liturgia laica delle consultazioni, durante la quale i partiti salgono al colle per conferire con il capo dello Stato sul da farsi della politica italiana. Nelle stesse ore, a latere dei riflettori, il “partito romano” molto più profanamente si ingegna per trovoare una soluzione che li includa in maniera indiretta ad avere voce in capitolo sulla materia. Solo tra qualche giorno, o forse pochissime ore, sapremo se il guado della crisi porterà alla nascita di un Conte-ter. Nell’attesa, per evitare i soliti commenti vuoti e banali, nel solco della plurimillenaria esperienza ecclesiastica e arrischiandoci in uno spasimo profetico, non ci resta che anticipare il futuro rileggendo il passato: analizzare la nascita e la storia del partito romano, che già altre volte ha incrociato il suo percorso con la politica italiana, per capire il presente e farci trovare preparati.
Una delle prime occasioni di contatto tra le alte sfere vaticane e la Repubblica italiana si situa durante l’occupazione tedesca di Roma nella Seconda Guerra Mondiale. In alcuni locali di giurisdizione papale viene offerto il rifugio ai nuclei del Comitato di Liberazione Nazionale per coordinare in sicurezza gli attacchi e le strategie contro i nazifascisti. Una volta nata la Repubblica, a Papa Pio XII appare naturale indirizzare il voto delle masse cattoliche su un unico partito in grado di arginare l’avanzata preponderante dei comunisti: la DC. La Democrazia Cristiana, sebbene non fosse nata come partito della Chiesa, ne diventa di fatto la longa manus, unica formazione politica in grado di coordinarsi con la Santa Sede per il bene della cristianità e dei fedeli. Fautore di questo avvicinamento è senz’altro il monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI. Tra Montini e De Gasperi nasce un sodalizio importante, che li porta ad avere una comune visione del partito tanto da far sostenere ad alcuni storici come la figura del monsignore sia da considerare nel ruolo di cofondatore della DC. La stretta relazione con San Pietro, però, è bilanciata dall’autonomia politica che il partito mantiene nelle scelte strategiche e nella selezione della classe dirigente, autonomia che appare indigesta ad una parte della curia romana. Nei primi anni dell’esperienza repubblicana il Papa riesce a tenere a bada la compagine prelatizia che vorrebbe un partito cattolico di diretta emanazione curiale, facendo ricorso all’ancestrale saggezza pratica degli uomini di Chiesa: lasciar da parte le dispute interne per affrontare il nemico comune.
Una volta che il “terrore comunista” sembra aver perso l’occasione di poter prendere il potere del governo, però, rispuntano le crepe e si fa più forte l’insistenza di parte dei funzionari vaticani di dar vita a un polo politico cattolico diverso dalla Dc. In questa occasione si scontrano due visioni contrapposte di intendere la politica cattolica: da una parte Montini e De Gasperi difensori di un partito fondamentalmente laico e autonomo dalle gerarchie ecclesiastiche, dall’altra il Cardinale Ottaviani e l’arcivescovo Ronca fautori di un’incidenza diretta della curia nelle faccende politiche. Attorno a Ottaviani e Ronca si forma un nutrito gruppo di funzionari che danno vita al “partito romano”, una vera e propria lobby che ha come obiettivo ufficiale la lotta al comunismo, ma che in realtà vuole avere un ruolo all’interno del potere politico italiano. Lo scontro capitale tra le due fazioni avviene nel 1952 e si consuma durante le elezioni amministrative del comune di Roma. Il partito romano, supportato questa volta anche dal papa scontento della morbidezza con la quale la DC sta contrastando i comunisti, vuole candidare una lista senza simboli di partito in cui siano coinvolti anche monarchici e missini. L’idea è quella di creare un fronte conservatore e di destra in grado di fronteggiare l’ascesa del PCI che nei mesi prima delle elezioni sembra sul punto di prendere il potere nella capitale.
De Gasperi è fortemente contrario a questa iniziativa, chiamata “Operazione Sturzo” perché il posto da capolista della coalizione sarebbe stato riservato proprio al fondatore del partito popolare, e si adopera insieme a Montini per smontare sul nascere l’alleanza tra cattolici e fascisti. I timori del presidente del consiglio riguardano eventuali ripercussioni a livello nazionale di questa alleanza: in prima battuta la DC, uno dei protagonisti della resistenza, avrebbe perso l’aurea morale di partito antifascista con una conseguente emorragia di voti, in secondo luogo il fronte cattolico si sarebbe scisso in due tronconi favorendo il governo di comunisti e socialisti. Nonostante le pressioni del partito romano e l’opposizione del Papa, De Gasperi riesce a mantenere la linea, l’Operazione Sturzo non va in porto e la Democrazia Cristiana conquista il Campidoglio. L’influenza del partito romano e l’ambizione di una filiazione politica diretta iniziano a scemare lentamente e vedono una battuta d’arresto con la salita al soglio pontificio di Papa Giovanni XXIII. Quando poi nel 1963 viene eletto proprio Montini a successore di San Pietro la possibilità di una scissione partitica nell’elettorato cattolico viene definitivamente accantonata.
A più di mezzo secolo di distanza dai fatti appena raccontati ci ritroviamo con la possibilità di vedere un nuovo partito d’ispirazione cattolica nel panorama politico italiano. Dovremmo chiederci se i protagonisti odierni siano più vicini al partito romano degli anni Cinquanta o ai loro antagonisti. Conte e Parolin come De Gasperi e Montini, una blasfemia alle orecchie di molti, ma forse non del tutto da sottovalutare. Il dimissionario Presidente del Consiglio sembra essere l’unico punto d’equilibrio del sistema parlamentare così come De Gasperi lo era nella neonata Repubblica. Allo stesso modo Parolin, uomo della curia per eccellenza che studia da Papa, è il moderato che non disdegna il potere e che in futuro potrebbe ripercorrere le orme di Montini. In attesa della decisione di Mattarella, assistiamo al valzer delle consultazioni, con il presentimento che forse, la Terza repubblica è già iniziata.
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