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Il nuovo ordine dei secoli

Il dollaro è la moneta imperiale perché bramata da tutti. Il suo dominio è pertanto difficilmente scalfibile se non passando per una totale ristrutturazione dell'ordine mondiale.
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La rivoluzione borghese e antimonarchica che portò alla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 anticipò, sia idealmente che fattualmente, la fine dell’Antico Regime e l’avvento di una nuova stagione di diritti civili e sociali, che in Europa si mostrarono solo con la Rivoluzione Francese di qualche anno dopo. Con afflato universalistico gli Stati Uniti presentarono ai vecchi potenti quello che sarebbe stato, nell’immediato futuro, il loro ruolo nella storia.

Infatti, se all’inizio del XX secolo l’economia degli Stati Uniti superava in termini di Pil quello della Gran Bretagna, era ancora la sterlina la moneta egemone negli scambi internazionali. Il “Nuovo ordine dei secoli” in economia fu sancito agli Accordi di Bretton Woods del 1944 quando le tradizionali potenze imperialiste, Londra su tutte, abdicarono dal trono dal quale avevano dominato il mondo, e compresero come gli equilibri di questo sarebbero stati d’ora in avanti decisi oltreoceano. 

Tuttavia, è forse solo nell’agosto del 1971 che politici e analisti capirono come le chiavi delle relazioni internazionali si detenessero più col denaro detenuto nei forzieri delle banche centrali che con le armi di un esercito. La parità del dollaro con l’oro decisa a Bretton Woods impediva agli Stati Uniti di stampare moneta ad libitum e questa, pur essendo divenuta la divisa di riferimento negli scambi di preziose merci strategiche (petrolio in primis), non era stata ancora iniettata a sufficienza all’interno dei caveaux di tutto il mondo. Tradotto, il dollaro ricopriva solo parzialmente la funzione di riserva di valore, ossia quella peculiarità leggendaria che fa della valuta nazionale una moneta “imperiale”.

Dal dopoguerra all’inizio degli anni Settanta il finanziamento acefalo alla guerra di Corea e, soprattutto, di quella in Vietnam depauperarono le riserve auree statunitensi; e, se la quantità del biglietto verde circolante nel globo doveva essere equivalente o inferiore al valore di oro detenuto dalla Federal Reserve, è chiaro come una drastica emorragia di quest’ultimo riducesse i margini per la coniazione di nuovi dollari. Ecco che con lo Smithsonian Agreement dell’estate 1971, il Presidente Richard Nixon decise di rompere la parità del dollaro con l’oro. Da quel momento l’unità di misura del tutto, delle merci come del Pil, sarebbe stata il dollaro americano. Questa è la base dell’impero valutario degli Stati Uniti. In questo regno la solidità dell’economia internazionale non dipende più dal valore dell’oro ma dalla credibilità del governo di Washington. Da quell’anno il dollaro divenne a tutti gli effetti la moneta di riserva mondiale.

Questa “rivoluzione” monetaria venne associata, in primo luogo, a un fenomeno strettamente legato al provvedimento legislativo e programmato dal governo e dal tesoro, ossia la delocalizzazione all’estero di quelle attività industriali che non erano alla base del primato tecnologico degli Stati Uniti (come le grandi fabbriche di Detroit). Gradualmente l’elefantiaco apparato industriale venne sostituto da quello molto più snello e remunerativo della finanza. Washington riuscì tenere a freno i rischi dell’inflazione intrinseci a questo gioco emettendo un debito pubblico che, valutato con una tripla A dalle agenzie di rating, veniva acquistato in quantità bulimiche dagli attori esteri, alleati e non. Grazie al nuovo sistema, con la creazione di nuova moneta in forma di buoni del Tesoro, gli Stati Uniti ottengono prestiti che possono reinvestire: in sintesi fanno i soldi con i soldi. Pertanto, la remunerazione economica della superpotenza non avviene più con la vendita di prodotti industriali e manifatturieri, ma con i soldi stessi, attraverso l’uso di un’economia virtuale.

Difatti, ad oggi, il Pil degli Usa supera i 23.000 miliardi di dollari ma la componente derivante dall’economia reale si mantiene largamente al di sotto dei 10.000 miliardi. In seconda battuta, ad accrescere ulteriormente i profitti statunitensi prodotti dalla mutazione del sistema economico internazionale, fu un fattore imprevisto: la crisi energetica dell’ottobre 1973, che fece impennare del 400% i prezzi di una merce strategica come il petrolio. Poiché alcuno Stato ne poteva fare a meno e visto che il greggio veniva scambiato solo in dollari, inevitabilmente, di essi, aumentò la domanda, la circolazione, e in ultima analisi s’impose l’obbligo per la Fed a stamparne di nuovi. Quanto summenzionato non risponde ancora alla domanda di fondo: perché il dollaro è una moneta “imperiale”?

La teoria economica attribuisce alla moneta tre funzioni: 1) moneta utilizzata come unità di conto o equivalente di valore; 2) moneta utilizzata come strumento di transizione 3) moneta utilizzata come riserva di valore.                                          

La prima caratteristica è propria di ogni divisa circolante in ogni luogo e in ogni tempo. L’esempio più banale che si possa fare è quello del caffè il cui valore come merce equivale in termini monetari ad 1 euro. La seconda è una peculiarità il cui esercizio è espletato da un numero molto ridotto di valute, riguarda la funzione commerciale della moneta ed è utilizzata nei casi in cui si debbano scambiare marci strategiche come il gas, il petrolio o l’uranio. Queste merci sono scambiate, perlopiù, in euro, rubli, yuan, con un primato, sebbene sempre più risicato, del dollaro. In ogni caso se quest’ultimo fosse sostituto come moneta di riferimento nelle transazioni internazionali dallo yuan, la sua egemonia valutaria non sarebbe ancora messa in discussione. Difatti ciò che fa una moneta “imperiale” è l’essere riserva di valore, peculiarità che può essere rivestita da una sola valuta. 

Essere la moneta che porta l’alloro di riserva di valore, significa essere la moneta che tutti bramano. Il dollaro può fregiarsi di tale titolo grazie alla natura del versatile sistema politico, legale ed economico statunitense. Oltre ai regolamenti di Bretton Wood e dello Smithsonian Agreement, sono tre i requisiti di marca esclusivamente americana su cui si fonda l’egemonia del biglietto verde. 

A) Mercati profondi. Gli Stati Uniti possiedono un mercato azionario estremamente diversificato (si può investire in Ford, come in Apple o Nestlé, si scambiano azioni, si possono acquistare o vendere obbligazioni pubbliche o private), ricco di occasioni di investimento e, rispetto ad altre realtà, se gli investimenti sono giusti, altamente remunerativo.

B) Mercati fluidi. Si tratta di un mercato tanto ampio da essere sicuro: se un’azione crolla l’incidenza negativa sul paniere azionario è minima. Questo tutela gli investitori da un crollo totale e imprevisto del mercato. Ovviamente niente è sicuro in borsa ma, nell’incertezza, il mercato azionario statunitense resta il più solido di tutti.

C) Certezza del diritto. Vi è un potere militare che tutela l’integrità fisica dei caveaux associato ad un corretto esercizio dello stato di diritto che garantisce la tutela legale del privato e delle sue proprietà.

Questi requisiti spiegano alcuni paradossi legati al sistema degli investimenti fatti da miliardari verso Paesi ostili alla madrepatria, o dei depositi internazionali di denaro operati da dittatori al di fuori dello Stato o della regione in cui governano. Il primo caso, ad esempio, è quello degli oligarchi russi che investono negli Stati Uniti. Questo avviene perché da un lato il mercato russo, fondandosi solo sulla ricchezza generata dagli idrocarburi, offre poche occasioni per investimenti diversificati, dall’altro perché l’economia moscovita è troppo piccola per reggere un deposito consistente, di conseguenza questo dovrà essere delocalizzato all’estero e, se non in borsa, comprando patrimoni immobiliari, a Londra come a Porto Cervo.

Il secondo caso vuole spiegare perché un dittatore africano – ma vale anche per l’oligarca russo o per un signore della guerra somalo – deposita i propri soldi in una banca statunitense e non in patria. Stati instabili come quelli africani non garantiscono la certezza del diritto, pertanto, un cambio di regime potrebbe tradursi nella totale spoliazione dei propri averi. Viceversa se questi sono depositati in luoghi sicuri, in America come in Europa, qualora un meccanismo sanzionatorio si attivasse verso il patrimonio privato dell’autocrate, questo non potrebbe essere congelato o requisito unilateralmente ma, in caso di azioni giudiziarie, l’interessato potrebbe far valere tutta una serie di meccanismi legislativi e controbilanciamenti, garantiti ed esercitabili dall’imparzialità dello stato di diritto, in grado di bloccare o rallentare l’azione intrapresa contro di lui. 

Il potere strutturale del dollaro è oggi sfidato dal principale antagonista di Washington, Pechino. Nel club dell’intelligencija di cui la Repubblica Popolare si avvale per conquistare lo scettro di potenza del XXI secolo, un seggio speciale è riservato a Qiao Liang, generale maggiore dell’aeronautica nonché teorico della guerra asimmetrica ed economica. Autore già noto ad analisti occidentali per i saggi Guerra senza limiti (1999) e L’arco dell’impero (2021); egli sostiene come la principale sfida all’ascesa cinese passi per una ridefinizione del pensiero strategico nazionale non in senso militare ma piuttosto economico: per lui la sfida non è geopolitica ma finanziaria. Il concetto di difesa nazionale è stato in effetti rinnovato dal Presidente Xi Jinping includendovi il postulato della sicurezza economica. La sfida cinese per circoscrivere la forza del dollaro sta, da un lato, nella lotta senza freni alla robusta corruzione interna, dall’altro, nell’internazionalizzazione della sua moneta tramite il più intransigente signoraggio economico. 

Pur essendo tanto ambiziosa, tale strategia risulta modestamente efficace poiché va a cozzare con un vincolo strutturale al momento inaggirabile: il fatto che i principali enti di credito (Fmi e Banca Mondiale) e strutture normative del commercio (Wto) internazionali siano stati plasmati dagli e sugli interessi di Washington che, in quanto vincitore indiscusso della Seconda guerra mondiale, ebbe il privilegio di costruire un mondo a sua immagine e somiglianza. Per riformare questo potere occorrerebbe una ristrutturazione dell’ordine mondiale da far tremare i polsi; tuttavia, i continui attriti sullo stretto di Taiwan ne potrebbero essere una fosca avvisaglia. 

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