OGGETTO: Il neoliberismo non muore mai
DATA: 18 Maggio 2023
SEZIONE: Economia
Nessuna catastrofe, finanziaria o sanitaria, sembra in grado di scalfire le capacità del sistema economico di superare le crisi, mutando e adattandosi alle circostanze.
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La parola neoliberismo è stata usata in maniera così ampia e diversificata, a volte anche a sproposito, che difficilmente è stato possibile inquadrarne con precisione il significato. 

Come sappiamo il liberismo è un sistema economico basato sull’assoluta libertà di produzione e commercio, in cui l’intervento dello Stato è ammesso in rari casi, sostanzialmente quando l’iniziativa privata non riesce a soddisfare le esigenze della collettività. Pur avendo radici lontane, questa scuola di pensiero si è sviluppata grazie a quella che viene definita la Scuola Austriaca, ad opera di economisti come Friedrich Hayek e Ludwig Von Mises ottenendo grande popolarità agli inizi del secolo scorso.

Con la grande crisi del 1929 e la seguente depressione, il ritorno delle politiche keynesiane mirate al raggiungimento della piena occupazione (facendo ampio ricorso alla spesa pubblica), oscurò per qualche decennio l’idea del liberismo assoluto, che dovette aspettare gli anni Settanta per tornare di moda. A questo punto però qualcosa era cambiato, l’avanzata politica delle socialdemocrazie in Europa, aveva definitivamente screditato l’idea classica di un liberismo ben disposto a tollerare la povertà diffusa in nome di una crescente ricchezza concentrata in pochi soggetti.

Ecco che il termine Neoliberismo iniziava a farsi strada, per indicare quella corrente di pensiero che accettava di buon grado la necessità di interventi statali per portare la maggior parte delle persone sopra una determinata soglia minima di reddito. Ma una volta garantito questo obiettivo, non ci sarebbe stata più alcuna ragione per preoccuparsi di eventuali diseguaglianze sociali, politiche o economiche. La Gran Bretagna di Margaret Thatcher, gli Stati Uniti di Ronald Reagan ed in maniera ancora più spinta il Cile di Pinochet, sostenuto da prestigiosi economisti della scuola di Chicago, furono esempi di un sistema che combinava vari gradi di autoritarismo con politiche piuttosto radicali improntate al libero mercato. Nulla a che fare con la legittima preoccupazione riguardante la libertà di parola, che motivò i grandi pensatori liberali da John Stuart Mill in poi, ma assolutamente in linea con i pensieri di Hayek per cui la questione fondamentale era preservare la libertà di azione dell’individuo, minimizzando le interferenze dei vari governi.

Nonostante la fine di queste esperienze piuttosto “estreme” la concezione neoliberista ha dominato il mondo occidentale negli ultimi quarant’anni. Un’idea economica basata sul mercato, con una regolamentazione più leggera possibile sotto governi decisi a tenere la spesa pubblica sotto controllo ed i bilanci in ordine. In momenti di crisi il dogma dello Stato poco presente è stato largamente, anche se temporaneamente, disatteso in nome di un pragmatismo politico spesso frutto di calcoli elettorali, ma l’ideologia di base è sempre rimasta.

La crisi finanziaria del 2009 ha scosso le fondamenta del neoliberismo. Il completo fallimento degli economisti mainstream di prevedere una catastrofe di così vasta portata sembrava porre fine se non alle idee, almeno alla credibilità di gran parte di questi accademici, ma una volta recuperata una parvenza di normalità sui mercati si è capito che l’ideologia neoliberista era ben lungi da potersi considerare defunta.

Anche la pandemia da Covid 19, recentemente dichiarata conclusa, sembrava poter mettere la parola fine all’idea di un mercato onnipotente, che nel tempo risolve ogni problema riportando tutto in equilibrio senza alcun bisogno di interventi esterni. Milioni di posti di lavoro scomparsi, interi settori produttivi collassati, il mercato azionario in caduta libera, miliardi di crediti divenuti progressivamente inesigibili hanno creato un’emergenza tale per cui il bisogno di agire andava ben oltre lo steccato delle ideologie.

Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e perfino nell’austera Unione Europea si sono abbandonate le politiche prudenziali con gigantesche iniezioni di liquidità sul mercato ed un poderoso ricorso alla spesa pubblica. Ma anche in questo caso gli annunci di una definitiva rinuncia al neoliberismo, a seguito degli eventi scatenati dalla pandemia non si è concretizzata. Ed anzi il ritorno dell’inflazione ha dato ulteriore vigore a tutti quelli che auspicavano il ritorno a politiche di bilancio rigorose ed in generale ad un ridimensionamento del ruolo dello Stato.

Alcuni pensano che la spinta definitiva all’archiviazione del neoliberismo potrà arrivare proprio dal Paese che ha fatto del mercato la sua ragione di vita, gli Stati Uniti d’America. Molti analisti sottolineano come il Presidente Biden abbia speso i primi due anni del suo mandato promettendo, come in realtà hanno spesso fatto i suoi predecessori, un ampliamento massiccio del “social welfare” ed in generale poderosi investimenti pubblici. Si ricorda come in uno dei suoi primi interventi al Congresso il Presidente ci tenne a ricordare la centralità dell’intervento dello Stato nella costruzione delle infrastrutture che hanno permesso all’America di diventare una grande potenza mondiale.

Ma nonostante queste dichiarazioni di intenti, e la naturale antipatia dei democratici verso il Reaganismo, non era mai stata formulata una vera e propria strategia economica alternativa. Recentemente però la situazione sembra cambiata, il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan ha parlato apertamente di un nuovo “Washington consensusovvero di un principio ispiratore della politica economica della Casa Bianca, che tenda ad incoraggiare l’intervento Statale piuttosto che ad avversarlo, che miri a rafforzare le tutele per i lavoratori invece che puntare ad una deregulation, e sia volto a ridurre l’interdipendenza economica tra le Nazioni e non a favorirla. Sullivan ha quindi definito il nuovo modello economico statunitense in aperta critica al neoliberismo, sostenendo che quest’ultimo pone le sue basi su tre ipotesi palesemente errate. La prima è quella che “i mercati riescano sempre ad allocare le risorse in maniera produttiva ed efficiente”, la seconda è che “qualsiasi crescita sia una buona crescita” e la terza che “l’integrazione economica e la globalizzazione renda le nazioni più responsabili e favorisca un processo di pace globale”.

Ma questo progetto, che secondo i più entusiasti metterà fine all’infatuazione americana per il Neoliberismo, ha davanti a sé un ostacolo potenzialmente insormontabile ovvero che al tanto prospettato “Washington consensus” possa mancare proprio il… consenso. Non è un mistero che l’idea di alzare le tasse ed incrementare la spesa pubblica non faccia propriamente parte dell’agenda politica repubblicana. E senza la collaborazione del partito dell’elefante vi è una probabilità piuttosto alta che la speranza della realizzazione di un nuovo paradigma economico che vada oltre il Neoliberismo possa rimanere disattesa.

La verità è che il fascino del Neoliberismo per quanto possa essere indebolito dalle varie crisi, rimane forte perché è insito nella logica del capitalismo globale. La sua natura è mutevole, cambia e si adatta a seconda delle situazioni. Possiamo quindi aspettarci che continuerà a vivere come ha sempre fatto, trasformandosi in base alle diverse condizioni, superando gli ostacoli, adattandosi al pensiero comune senza però mai cambiare le impostazioni di fondo. Parafrasando Mark Twain: “Spiacente di deludervi, ma la notizia della morte del Neoliberismo è grossolanamente esagerata”.

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