Come fosse il finale di un romanzo di Houellebecq, la “guerra civile strisciante” – così l’ha definita Fabrizio Agnocchetti sul quotidiano Il Messaggero dello scorso 26 marzo – sta interessando una porzione di società via via più ampia, interclassista, metropolitana e periferica in egual misura. Il casus belli, come noto, è la riforma pensionistica, croce di qualsiasi Presidente francese che abbia cercato di metterci mano. Nelle ultime settimane si sono registrate irruzioni nelle sedi della finanza (come l’assalto a Blackrock) e attacchi alle banche, incendi a municipi, e tanti scontri con la polizia, oltre a centinaia di arresti. Al di là della riforma in sé, da alcuni giudicata un attentato oltraggioso ai diritti dei lavoratori francesi, da altri invece fondamentale in un Paese che spende in previdenza sociale il 14% del proprio prodotto interno lordo, il doppio della media europea. Lo stesso Agnocchetti aveva già definito la Francia “un Paese lacerato”, a causa del disagio sociale causato dal comune senso di smarrimento a fronte dei fallimenti della globalizzazione e delle crescenti ineguaglianze. In questo scenario Emmanuel Macron non ha cercato di smorzare i toni: ha avviato una procedura parlamentare per bypassare il voto della Camera sulle pensioni (una situazione che non si verificava dal 1958), e si è più volte dimostrato indisposto nei confronti del dialogo con le parti sociali.
Mai come in questi giorni il Presidente francese ha ricordato l’immagine idealizzata della vecchia nobiltà, sprezzante nei confronti del popolo. Non ha poi aiutato l’arcinota polemica nata durante l’intervista tv rilasciata dall’Eliseo, quando si è sfilato l’orologio dal braccio, ufficialmente “perché batteva sul tavolo”.
Corre dunque un rapporto fra Palazzo e Piazza che definire complicato è dir poco. Il tutto mentre il consenso del Presidente scende di giorno in giorno, potendo al momento contare sul sostegno di un francese su tre. Rispetto alle proteste che resero noto il variegato movimento dei “gilet jaunes”, stavolta a protestare non sono imprenditori, partite iva e liberi professionisti, ma lavoratori salariati, dipendenti statali, un segmento interclassista che sente di non avere alternative che non sia lo sciopero a oltranza, per invertire la tendenza che vuole uno stile di vita sempre meno invidiabile dagli anni Ottanta a oggi. Macron, a ben vedere, rappresenta perfettamente la boria di quell’élite, forse il 10% del Paese, sfacciatamente e fintamente sullo stesso piano di un restante 90% sempre più distante. Come seguendo un principio di vasi comunicanti applicato alla politica, l’Eliseo sta cercando in questi giorni di far parlare di sé per le questioni internazionali (ovvero Taiwan) nel tentativo di distogliere l’attenzione dagli affari di casa propria. È una vecchia tattica degli esecutivi di ogni parte del mondo: chi è interessato o preoccupato dagli equilibri geopolitici del nascente nuovo ordine mondiale, non seguirà con la medesima attenzione la protesta in corso.
Ma andando più in profondità, il “marzo francese” altro non fa che reiterare un eterno ritorno delle logiche politiche transalpine, intrinseche al suo sistema istituzionale, che da una parte pone al centro la personificazione del potere, mentre dall’altra presuppone una centralità popolare emersa, de facto, dopo il 1789, e non più eludibile da allora. Gli attacchi alle vetrine dei brand di lusso, le irruzioni nei centri del capitale finanziario internazionale, testimoniano che c’è altro: uno sfogo esistenziale nei confronti di una disuguaglianza percepita come insormontabile, e proprio per questo ancora più frustrante.
Così, a voler psicanalizzare l’inconscio delle logiche di potere francese, il favore maggiore che il Presidente possa fare in simili circostanze è quello di rappresentare ancora di più lo snobismo tipico di chi è costretto a nascondere la propria estrazione sociale per risultare credibile agli occhi del pubblico. L’Eliseo, a prescindere da chi sia rappresentato, deve farsi catalizzatore dell’odio di classe: questa è la clausola del contratto sociale firmata da tutti i francesi un paio di secoli fa. Una situazione fattuale senza dubbio più vivibile dello scenario opposto, dove al contrario il potere si mostra e obbliga gli altri a percepirlo come moralmente retto, e ancora di più come essenza stessa dell’etica politica.
Dando per vero questo gioco delle parti, Macron rappresenta l’ideale di politico “odiabile”, come già altri prima di lui, capace di creare i presupposti fondamentali per l’esplosione di rabbia utile a decomprimere il Paese. Questo è il modello francese, che basa la propria esistenza sul dualismo fra palazzo e piazza, dove l’uno è lo specchio dell’altra, e dove i principi democratici, al di là dell’atteggiamento dell’esecutivo, si compiono in nuove forme. In un certo senso il potere, per definizione, non può che essere detestabile e detestato. In altri Paesi, come negli Stati Uniti, il cui modello, non a caso, è sotto attacco da Macron stesso, gli esecutivi per sussistere devono incarnare l’etica politica, esprimendo una sorta di guida illuminata per il mondo. Presupposto, questo, unico e fondamentale per giustificare l’impero. Una condizione che tuttavia soffoca il dibattito sulla possibilità di un potere giusto, il medesimo che il francese Michel Foucault e l’americano Noam Chomsky tennero all’Università tecnica di Eindhoven oltre cinquant’anni fa. Le cose non sono cambiate molto da allora, sebbene le idee siano state traslate, sfortunatamente, in una pratica conflittuale.