Il Sudafrica lo ha promesso e poi lo ha fatto: Israele sarebbe stato portato all’Aia, per rispondere dei presunti crimini di guerra commessi durante la campagna di Gaza, e così è stato. Il governo sudafricano non ha perso tempo, inoltrando in tempi record la documentazione necessaria per l’apertura del processo del decennio e ottenendo di salire alla ribalta del palcoscenico internazionale.
Alcuni credono Pretoria abbia agito su mandato iraniano, ma la verità è che Tehran non possiede nessuna leva nell’estremità meridionale del continente nero. Pretoria ha agito probabilmente di concerto coi BRICS+, sempre meno partner e sempre più alleati, e sicuramente per chiudere un conto in sospeso con Tel Aviv risalente all’epoca dell’apartheid.
Due sono i fattori che hanno incoraggiato il Sudafrica, eterna potenza ascendente, a trascinare Israele al banco degli imputati della Corte Internazionale di Giustizia. E né l’Iran né Hamas, sebbene il Sudafrica stia venendo dipinto come un loro proxy, hanno svolto alcun ruolo in tutto ciò.
Il primo fattore, non per forza in ordine di importanza, è la politica estera comune in divenire del gruppo BRICS+, la BRICS+ diplomacy, che, sebbene non ovunque e non sempre con lo stesso vigore, va lentamente e inevitabilmente prendendo forma. Con l’obiettivo di dare concretezza a un’alternativa, a tratti antagonistica ed essenzialmente antitetica, al fronte rivale di G7 & co., ovvero l’Occidente a guida statunitense.
Il secondo fattore, colpevolmente trascurato dalle analisi mainstream, è la cara, vecchia, dimenticata storia. Storia che, nel caso delle relazioni Israele-Sudafrica, è fonte di un risentimento duro a morire che spiega la rivalità contemporanea.
Durante la Guerra fredda, all’ombra ma pur sempre nel contesto dello scontro egemonico tra Stati Uniti e Unione Sovietica, in Africa combattevano guerriglieri, mercenari e paramilitari di ogni dove: britannici, cubani, francesi, israeliani. Chi per la gloria. Chi per la causa – colonialismo contro decolonizzazione.
Israele, dopo un iniziale posizionamento con le istanze degli anticolonialisti, all’indomani della guerra dello Yom Kippur, ritrovatosi semi-isolato a livello internazionale, fece un drastico cambio di rotta. Investendo nella costruzione di relazioni speciali con altri paria, come gli ultimi governi bianchi dell’Africa: Rhodesia e Sudafrica.
L’intesa tattica col Sudafrica sarebbe diventata una vera e propria alleanza strategica, multiforme e multisettoriale, nell’arco di pochi anni. Il Sudafrica forniva a Israele il materiale necessario allo sviluppo del suo programma militare atomico. Israele addestrava e armava l’esercito e i gruppi paramilitari del Sudafrica. Entrambi si reciprocavano investimenti e conducevano, congiuntamente e segretamente, esperimenti illegali su armi di distruzione di massa: biologiche, chimiche, nucleari, radiologiche. Il mondo venne a conoscenza di quell’alleanza lontana dai riflettori nel 1979, anno dell’incidente Vela, uno dei tanti episodi misteriosi della Guerra fredda.
I neri dei bantustan, una volta recisi i legami con Israele, cercarono l’emancipazione rivolgendosi all’Unione Sovietica, seguendo così le orme dei loro fratelli sparsi nel resto del continente, e stringendo un patto con l’OLP di Yasser Arafat. Fu l’inizio dell’espansione delle guerre arabo-israeliane in capo all’Africa: i guerriglieri dell’Umkhonto we Sizwe addestrati dai fedayyìn, i guardiani dell’apartheid preparati dalle forze speciali israeliane. Fu l’inizio di un rapporto di immedesimazione, tra neri dei bantustan e palestinesi dei campi profughi, dimostratosi resistente al mutamento dei tempi e delle circostanze.
I sudafricani non hanno mai dimenticato l’aiuto esteso, multidimensionale, e in particolare securitario-militare, fornito da Israele ai governi boeri dell’era apartheidiana. E hanno anche interiorizzato il terzomondismo dell’African National Congress di quell’epoca e l’affezione alla causa palestinese del padre della nazione, Nelson Mandela, facendo di essi le cifre distintive dell’identità e della politica estera del Sudafrica.
Il passato è un ricordo che non passa. In Sudafrica come in ogni parte del mondo che non è stata avvolta dal manto soporifero e annichilente della fine della storia. Il passato, e non la presunta influenza dell’Iran o di Hamas sul Sudafrica, è la chiave per comprendere le origini e le ragioni che hanno spinto il governo Ramaphosa a portare Israele a processo. Perché, come si dice nella savana che circonda la culla dell’umanità, un buon zulu né perdona né dimentica. E per il Sudafrica, eterna potenza ascendente alla ricerca di un posto nel mondo, la guerra in Terrasanta è l’occasione di chiudere un conto in sospeso con un antico rivale.