Quando la notizia della morte di Umberto Agnelli irruppe nelle redazioni dei giornali, la sera del 27 maggio 2004, la stampa cominciò subito ad interrogarsi se al suo epitaffio funebre sarebbe seguito quello altrettanto tragico della Fiat. La scomparsa del “Dottore”, così era chiamato per distinguerlo dal più noto fratello “Avvocato”, giungeva al termine di un mese di fuoco per il Lingotto, iniziato con violentissimi scontri tra polizia e operai nello stabilimento di Melfi e proseguito con l’annuncio della malattia, poi rivelatasi mortale, da parte del Financial Times. Resa acefala dal burrascoso addio dell’Amministratore Delegato Giuseppe Morchio, la crisi della Fiat sembrava destinata ad evolvere in una colossale amministrazione straordinaria sulla scia del crac Parmalat. Come noto, non fu così. All’arrivo di Marchionne ai vertici sociali, su intuizione dello stesso Agnelli e di Gianluigi Gabetti, fece seguito un radicale turnaround che ancora oggi è un caso oggetto di studio. Dunque, se oggi Stellantis è una multinazionale in grado di ricompensare lautamente i suoi azionisti, lo si deve anche alla perspicacia del suo presidente. Umberto non esitò a scommettere sulla ristrutturazione aziendale, sfatando le aspettative che vedevano nella sua lunga carriera ai vertici dell’IFIL, la finanziaria di famiglia, il preludio ad un disimpegno dal settore automobilistico in favore di una crescente diversificazione.
Nemo profeta in patria, si potrebbe riassumere così la vicenda di Umberto Agnelli. Nel 1993 la crisi della Fiat e l’intervento di Mediobanca fecero riconsiderare i piani di successione al fratello Gianni, confinandolo nella torre eburnea dell’IFIL. Per giungere ai vertici del Lingotto, l’attesa di Umberto Agnelli si dipanò però ben oltre i settantacinque anni di Cesare Romiti, che inutilmente tentò di modificare lo statuto per allungare la sua permanenza dopo il 1998. Le acque agitate dell’industria automobilistica e la necessità di esplorare nuove sinergie portarono al lustro di Paolo Fresco. L’ex vice chairman di General Electric portò in dote uno standing internazionale di cui la casa torinese aveva disperatamente bisogno. Nei cinque anni vissuti in contrapposizione con l’AD Paolo Cantarella, che di Romiti fu il vero successore, Fresco strinse l’alleanza con General Motors, per alcuni il preludio all’uscita di scena della famiglia Agnelli e negoziò il celebre prestito convertendo con le banche, tenendo a galla l’azienda nel periodo più difficile della sua storia.
In un clima da fine impero, Umberto Agnelli ebbe modo di dimostrare che la crisi della Fiat non fosse irreversibile e che, con il giusto compromesso tra esperienze manageriali e impegno degli azionisti, sarebbe stato possibile il rilancio di una grande casa automobilistica data per spacciata. In questo senso il mix tra grandi intuizioni e aspettative deluse è stato la cifra stilistica della storia di Umberto Agnelli. Una vita intensa che accompagnò alle delusioni professionali quelle familiari, con la morte del figlio Giovannino nel 1997, vissuta con la stessa compostezza sabauda con cui avrebbe affrontato le numerose traversie della vita. Se c’è qualcuno nella famiglia che ha rappresentato più di tutti il motto reale never complain never explain, traducibile nel don’t forget you are an Agnelli di Miss Parker, quello è sicuramente Umberto.
Così, a distanza di trent’anni, si potrebbe ancora ipotizzare come sarebbe cambiata la storia dell’automotive in Italia, se il tandem con il “genio del prodotto” Vittorio Ghidella ai vertici di Fiat avesse avuto seguito. Anche in questo caso però, il tutto si risolse in un complicato esercizio immaginifico, purtroppo solo speculativo. Ma è pur vero che, vigendo la legge del contrappasso, se nel 1993 fu Mediobanca a bloccarne l’avvicendamento per permettere l’ennesima ristrutturazione aziendale, saranno le stesse banche a richiederne dieci anni dopo l’arrivo alla Presidenza del Lingotto come garanzia. Si può dire quindi che i meriti di Umberto Agnelli furono riconosciuti, senza che il diretto interessato potesse giovarsi delle sue intuizioni. Ciò è stato valido per l’industria tanto quanto per l’impegno in politica.
Eletto Senatore nel 1976 nelle liste della Democrazia Cristiana, al culmine di una diatriba sulla discesa in campo dell’Avvocato che non ci fu, Umberto compì l’ennesima scelta controcorrente. All’edera repubblicana di La Malfa, che tante soddisfazioni diede alla sorella Susanna, il Dottore preferì lo scudo crociato. La breve esperienza a palazzo Madama si consumò nei difficili anni del terrorismo e nacque a margine di una prova di responsabilità richiesta alle élite verso il paese, sul cui futuro si addensavano le prime nubi dal dopoguerra. Anche in questo caso le ambizioni di riformare il sistema istituzionale con la stessa verve mostrata nella riorganizzazione della Fiat dieci anni prima furono destinate a scontrarsi con il muro di gomma dei partiti. Un’opposizione al cambiamento forse persino peggiore di quella mostrata da Niccolò Gioia nei piani alti di Corso Marconi, sicuramente meno autorevole e qualificata. Preso atto dell’assenza di competenze tecnico-economiche dell’allora classe dirigente, Umberto Agnelli contribuì a fondare insieme l’AREL insieme a Nino Andreatta. Un think tank ante litteram, che avrebbe dovuto consentire il salto di qualità al processo decisionale, dotando gli esponenti di area cattolica degli strumenti per comprendere e interpretare la crescente complessità dell’Italia degli anni Settanta.
Anche in questo caso i risultati furono ben al di sotto delle aspettative. La DC non si innamorò mai di un approccio alternativo a quello tradizionale, che avrebbe momentaneamente privato i suoi campioni di preferenze della base elettorale. In tal modo, nonostante l’attivismo di Andreatta e Pandolfi, l’Italia andò incontro allo SME senza sciogliere i nodi economici, a cominciare dal debito pubblico, che dieci anni dopo presenteranno un conto salato.
Rientrato a Corso Marconi nel 1980, Umberto Agnelli trovò la Fiat in presa ad una gravissima crisi industriale, con pesanti ricadute sulle relazioni sindacali esacerbate dal terrorismo. L’asprezza dello scontro che divampava a Mirafiori e le conseguenze della difficile vertenza sul piano occupazionale minacciavano la continuità stessa dell’azienda. La marcia dei quarantamila, alla cui riuscita Umberto contribuì dietro le quinte, pose fine alla paralisi produttiva ma la ristrutturazione dei processi produttivi divenne non più rinviabile e Mediobanca scelse Cesare Romiti, affermatosi come vero leader nella Fiat, per guidare la nuova riorganizzazione della casa torinese. La famiglia fu così costretta ad un doloroso passo indietro, lasciando le deleghe operative al management e accettando il più defilato ruolo di rappresentanza. Per Umberto Agnelli cominciava così un lungo conto alla rovescia di ventitré anni, trascorsi ai vertici delle finanziarie di famiglia e intervallati da illusorie ascese al vertice che l’ostilità di Enrico Cuccia trasformava in altrettanti miraggi. Ma, come nel Bel Ami di Guy de Maupassant, la vita, tanto lenta a scorrere durante la salita verso la cima, si dimostrò caduca e breve una volta guadagnata la vetta. L’esistenza di Umberto non fece eccezione. La morte che lo colse nella tranquillità della sua tenuta nella Mandria dopo appena diciotto mesi al Lingotto lascia ancora oggi i commentatori ad interrogarsi sulle numerose occasioni perdute, un esercizio difficile per un’esistenza stretta tra tanti moralia e pochi memorabilia, che impedirono al Paese di apprezzare quel suo binomio tra etica pubblica e responsabilità individuale, a lungo padroneggiato senza poterlo mettere in pratica.