Il fatto che lo spazio saldamente occupato da una civiltà sia racchiuso tra frontiere immobili, non esclude la permeabilità di queste frontiere ai beni culturali che di continuo le attraversano in tutti i sensi. Ogni civiltà esporta e importa beni culturali, che si tratti di una particolare tecnica di fusione, della bussola, della polvere da sparo, di un modo per temperare l’acciaio, di un sistema filosofico […].
F. Braudel, Il mondo attuale. Le civiltà extraeuropee, Einaudi, Torino, 1966, p. 30
Una civiltà per definirsi tale e per vivere in salute si struttura sulla necessità esistenziale del dialogo. Storicamente si è sempre consumato un processo simile, sia che si parli di un’idea diffusa attraverso un libro nascosto nelle pelli di un mercante giramondo, che di un sistema politico imposto con la forza da un esercito invasore. Lo scambio stimola il pensiero, irrobustisce la capacità di adattamento al nuovo, coalizza gli animi nella ricerca di soluzioni alternative al mero fatto compiuto. Pur sopravvivendo grazie allo scambio, le civiltà, d’altra parte, si definiscono anche attraverso la chiusura nei confronti di una pratica culturale o di un modo di vivere proveniente dall’esterno; è attraverso questa zona frontaliera che una civiltà riconosce sé stessa e si distingue per originalità dalle altre; ed è a cagione di questo egocentrismo collettivo che il mondo moderno, in realtà, non è mai stato veramente globalizzato.
Una civiltà raggiunge la propria vera personalità respingendo nell’oscurità delle terre limitrofe e già straniere tutto ciò che la disturba. La sua storia è costituita dalla decantazione secolare di una personalità collettiva presa, come ogni personalità individuale, fra un destino chiaro e cosciente e un destino scuro e incosciente, che è la base e la ragione del primo, pur rimanendo sempre ignorato.
F. Braudel, Il mondo attuale, cit., p. 50
Negli ultimi decenni una civiltà, quella europea occidentale, sembra aver espulso coattamente un bene imprescindibile che per secoli e secoli custodiva gelosamente: il senso della storia. Il concetto di tempo, severo e inaggirabile, sembra essere stato barattato con l’edonismo, con l’illusione dell’eterno presente. Essere nati al tempo della fine della storia significa costringere una parte della propria coscienza sotto formaldeide. L’eterno presente occidentale pare esemplificato da pratiche “culturalmente” diffuse come le serie tv di Netflix sparate in loop fino a notte fonda, dai bei vestiti indossati per entrare in scena all’atto dell’aperitivo, dalla frivola certezza di rinnovare ogni anno il modello di iPhone. A guardar bene, d’altra parte, questa percezione è vera solo in parte.
Al disconoscere l’esistenza di un tempo che corre imperituro consegue la morte del pensiero, la fragilità del dibattito, il dilagare di sintomi depressivi e da esaurimento. Tuttavia, questi ultimi avallano con una certa tragicità la non totale estinzione del senso della storia nelle nostre società. Siamo di fronte a un paradosso. Fino a non molti decenni fa gli usi, i modi di vivere, le norme legali e spirituali di una società -come si può evincere dall’opera di Stefan Zweig – duravano molto di più della vita di un individuo, cambiavano con molta lentezza, nell’arco di tempo in cui si susseguivano molte generazioni, attraverso cambiamenti impercettibili ai viventi. Questa arena di certezze esistenziali, che si apprendevano alla nascita e si riconoscevano ancora eguali alla fine della vita, forniva una struttura culturale adamantina, una forma di sicurezza mentale, una capacità di riconoscere il proprio mondo tanto solida da far percepire all’individuo anche il lato più crudo della storia, ossia la guerra o le forme di lotta politica: indipendentemente dall’epoca appariva chiaro, per quanto miserabile potesse essere, il proprio posto nel mondo. Il disintegrarsi, oggi, di queste certezze è ben esemplificato dal sociologo Alessandro Cavalli sull’ultimo numero de «il Mulino».
Le società sono entità che prescindono da coloro che di volta in volta ne fanno parte, esistevano prima che i membri che attualmente la compongono esistessero e esisteranno anche dopo la loro morte. Su questa trascendenza della società rispetto a coloro che la occupano provvisoriamente sono nate molte rappresentazioni e credenze, ma non è su queste che vorrei riflettere in questa sede. Mi piace la metafora che assimila la società a un treno la cui popolazione è composta da coloro che salgono (nascono o immigrano) e coloro che scendono (muoiono o emigrano). La novità degli ultimi tre secoli è che il treno non solo si sposta, ma si modifica mentre i viaggiatori sono ancora in viaggio. Le società cambiano nell’arco della vita, quelle in cui viviamo nella fase del tramonto della nostra esistenza non sono più quelle nelle quali siamo stati accolti al momento della nostra nascita.
P. Cavalli, L’età dell’incertezza in «il Mulino», vol. 524, n. 4, 2023, pp. 15-31, p. 19
Dall’impossibilità di stimare il proprio futuro, lavorativo, affettivo, esistenziale, dall’incapacità di riconoscere il mondo in cui si vive, si sviluppano fenomeni di burnout e depressivi: è una forma di protesta, tragica e inconscia, con cui gli individui che vivono in una società a-storica rivendicano il proprio diritto ad uno scorrere del tempo più ordinato. Ritrovarsi a vivere in un tempo caduco e transitorio, instancabilmente mutabile, consegue la ceca tenacia all’accaparrarsi il presente, l’unico oggetto che dà sicurezza, nella speranza di blindare un futuro che si staglia fosco.
Altre società complesse, dall’est europeo alla polveriera mediorientale, funzionano diversamente, si potrebbe dire che il loro funzionamento sia ancora “tradizionale”. Il tempo storico ha ancora un senso e ogni individuo accetta la sicurezza con cui l’ordine costituito in cui è immerso lo incasella: ossia la certezza di scegliere fra un numero limitato e imposto di opzioni, non la libertà totale di perdersi nel cosmo del possibile. La Pax Americana è un’ubriacatura da cui quelle parti di mondo si sono presto riavute; certo è che da tre anni ad oggi il peso della storia ha dimostrato in innumerevoli occasioni come essa sia il traino dei fatti umani. Un evento fra tutti si erge a segnacolo di tale dinamica.
Quando il 23 giugno del 2023 il capo del Wagner Group, Evgenij Prigožin, ordinò ai suoi quarantamila mercenari di lasciare il fronte e attraversare il confine russo-ucraino, per marciare con carri armati ed elicotteri verso la capitale dello Stato per cui combattevano e dove molti di loro erano nati, lascia intendere come la storia resti componente mai esausta dell’ordine su cui le relazioni di potere si strutturano. In Europa questo evento è stato recepito per il tempo della sua durata: un solo giorno, un film un po’ noioso visto il martedì sera e presto dimenticato. Il suo peso è in realtà enorme e affonda le radici in un passato lontano duemila anni. La sfida di Prigožin a Putin, l’attraversamento di un confine e la marcia su Mosca ricordano, con le dovute variazioni del caso, il più insigne scontro di Cesare contro Pompeo. Analogie del genere stanno in piedi grazie alla loro forza simbolica: a distanza di millenni le controversie più bieche si risolvono con l’uso della forza, diretta o meno. Non è una soluzione galante o auspicabile, è semplicemente la realtà.
Gli esempi – accettando ancora l’arco temporale dei tre anni – non mancano: la riconquista di Kabul da parte dei talebani dopo un’effimera pacificazione di vent’anni; la lotta senza quartiere, in barba a qualsiasi divieto del diritto internazionale, di Israele a Gaza; i colpi di Stato nel Sahel; il Venezuela affamato di territori; o ancora, nello stesso contesto della guerra russo-ucraina, l’uso discrezionale del gas da parte di Mosca per generare crisi economiche e stress test sulle democrazie occidentali.
Quello che nel Vecchio continente viene narrato di queste vicende è lo stupore e lo sciocco disappunto di fronte alla volgarità e al disordine del mondo esterno: non c’è visione più miope se si accetta invece che le relazioni fra Stati, quindi di potere, non sono altro che relazioni fra uomini, raramente mosse dal raziocino, mai ordinate e certo imprevedibili.
Se ai fenomeni prima elencati si aggiungono l’esplosione di una pandemia e la volontà di una parte del globo a sottrarsi dal giogo costituito da una serie di istituzioni economiche e giuridiche in cui non si riconosce, probabilmente non si trarrà una previsione schizofrenica a scrivere che sarà sul collo di coloro che aggirano l’ostacolo posto dal tempo, vivendo un eterno presente, su cui calerà la ghigliottina della storia.