“È tutta una questione di soldi, il resto è conversazione.” Così diceva Michael Douglas nel film “Wall Street” nei panni di uno dei suoi personaggi più iconici Gordon Gekko ad un giovanissimo Charlie Sheen, che nel ruolo di Bud Fox sognava la scalata al successo. Negli ultimi anni lo strapotere delle Big Tech detentrici di posizioni dominanti nel mercato pubblicitario della Rete ha creato profitti enormi. Uno dei motivi fondamentali per cui tutti noi usiamo Internet, oltre il mero intrattenimento ricreativo, è l’informazione giornalistica che pian piano dalla carta stampata si è quasi completamente trasferita, evolvendosi variamente, sugli schermi retroilluminati delle nostre macchine di Turing (desktop, laptop, pad, smartphone). Ogni mercato nazionale in relazione alle cosiddette News produce un traffico annuale tale per cui i profitti pubblicitari superano mediamente il miliardo di euro. Ultimamente le varie autorità competenti per la concorrenza e per il mercato, le cosiddette Antitrust, in molti paesi, hanno sollecitato la questione intentando cause ai danni delle più grandi aziende in ogni caso assolutamente non intenzionate a condividere parte dei profitti con gli autori delle informazioni alla base del traffico di utenze a sostegno del mercato pubblicitario da loro detenuto. Le Big Tech non si limitano a far orecchio da mercante, ma sostengono che un’eventuale modifica nei loro protocolli attuativi metterebbe a rischio l’intero sistema di veicolazione delle informazioni rendendo le testate più forti sempre più forti e riducendo la visibilità di quelle più piccole e indipendenti, fino a mettere in pericolo persino la libertà del Web. Dopo qualche piccola scaramuccia: Facebook ha fatto sapere che non avrebbe più mostrato le news, salvo poi ritrattare dopo qualche giorno; e Google ha reagito oscurando alcuni siti di informazione australiani, definendo la cosa un esperimento, e lanciando Google News Showcase, una sorta di contenitore dedicato alle informazioni. Intanto il parlamento australiano recepiva pienamente le sollecitazioni ben formulate dagli esperti dell’ACCC (Australian Competition and Consumer Commission) che in un’appuntita quanto efficace relazione al governo australiano perfettamente figuravano quanto fosse ingiusto che i profitti della pubblicità andassero soltanto a delle aziende che evidentemente occupavano, e occupano, una posizione dominante ai danni di un mercato che per statuto deve mantenersi equilibrato a garanzia del consumatore.
Prima dell’avvento delle attuali tecnologie informatiche, il secolo scorso, l’individuo era un soggetto in carne ed ossa dotato di alcuni codici di riferimento identificativi stampati sulle patenti, le carte di identità, i passaporti, i codici fiscali, i libretti sanitari; e più o meno è tutto, matricole militari e universitarie a parte. Oggi ogni individuo, cittadino del mondo sviluppato e dotato di identità, continua a portarsi addosso gli identificativi del passato a cui sono però da aggiungere: i Big Data, o meglio quella porzione di essi che corrisponda alle attività del soggetto specifico tradotte in dati sensibili e archiviabili, ma soprattutto sottoponibili ad elaborazione statistica. Chi sono questi altri? Tim Berners Lee, uno dei veri druidi di internet, molto preoccupato per la piega che ha preso “Internet”, ha sviluppato un contratto per il web (contractfortheweb.org) con una sorta di decalogo che servirebbe a salvare quello che giustamente ritiene, e non è il solo ovviamente, uno degli strumenti più straordinari che l’umanità abbia mai sviluppato. Aaron Hillel Swartz, classe ’86, ci ha lasciato le penne nel 2013, probabilmente in un terribile momento di giustificabile sconforto aggravato da una condizione di disagio personale, in carcere, dopo essere stato accusato di avere “rubato” materiale protetto da copywrite.
Swartz sapeva che l’universo delle tecnologie per l’informazione era uno strumento di emancipazione umana formidabile e aveva tutte le competenze necessarie per dimostrare che esistevano vie alternative alla costituzione di un Olimpo di soggetti deificati come detentori di segrete formule magiche per renderci più moderni e dunque più liberi. Tanto che, invece di fondare una start up company ai fini del mero profitto o andare a sviluppare quelle già ben note, decise di scaricare una vera e propria montagna di articoli scientifici da un database del MIT (Mass. Institute Of Technology) e di renderli pubblici. Reato di appropriazione indebita per il quale avrebbe rischiato un milione di dollari di multa e trentacinque anni di carcere. Aaron Swartz stava male, soffriva di depressione e si è impiccato in carcere. Per lui, uno dei docenti di diritto, avvocato fra i più rinomati e colti degli Stati Uniti, Lawrence Lessig, autore de Il Futuro delle Idee, ha letteralmente rivoluzionato la sua carriera cominciando a occuparsi degli infiniti aspetti legali nati con l’avvento di Internet, e non ancora consolidati nel diritto; esempio ne sia il Creative Commons o CC. Il CC è quello strumento legale che consente a chiunque produca contenuti culturali nella qualità di autore di condividerli gratuitamente a patto che durante la fruizione ne venga riconosciuta inequivocabilmente l’origine, ma se gli stessi contenuti sono veicolati a scopo di lucro allora a quel punto una quota del profitto va riconosciuta per diritto a chi ha originariamente creato quei contenuti. Non c’è nessun complotto, è solo e sempre una mera questione di quattrini. Napster non andava bene perché era gratuito e metteva in ginocchio le case discografiche, e se non si ha idea di cosa si tratti, è sufficiente pensare a uno Spotify senza pubblicità con un pizzico di geekmania in più per arrivare alla musica desiderata e, soprattutto, nessun abbonamento da pagare – bolletta telefonica a parte. È andata a finire che Sean Parker ha fatto un pacco di soldi aiutando Mark Zukemberg a mettere su il primo finanziamento per il suo Faccialibro avendo prima rischiato con Napster, come Swartz, carcere a vita; e che gli amanti della musica loro malgrado sono oggi costretti ad affittare la musica invece di possederla.
Shoshana Zuboff, un’eminente docente e ricercatrice in psicologia sociale dell’Università di Harward, in relazione agli eventi delle ultime due decadi e ai cambiamenti che Internet (Big Tech in testa) ha determinato nelle nostre vite, ha scritto un acuto quanto discusso libro in cui definisce la nostra era come quella del Capitalismo della Sorveglianza. Era in cui dopo aver messo a Mercato la Natura come proprietà fondiaria immobiliare parcellizzata e dopo aver fatto la medesima cosa con le ore della vita umana con la settimana lavorativa, l’essere umano ha brillantemente deciso di speculare e mettere in vendita l’intero compendio delle abitudini e dei comportamenti umani ai fini di continuare a generare senza fine nuovi spazi di puro profitto. Ma siamo sicuri che questo nuovo codice di spartizione dei profitti pubblicitari varato in Australia sia una vittoria della democrazia? Certamente il fatto che per una volta gli organismi di informazione pubblicistica la “abbiano avuta vinta” sui colossi dell’information technology che da poco più di una ventina d’anni la fanno da padrone sul mondo è una cosa che fa notizia. Indubbio che far arrivare una quota dei profitti pubblicitari a tutti coloro i quali si occupino strenuamente di informazione, spesso sottopagati o gratis et amore dei, sia una bella notizia, una di quelle che non ti aspetti.
In Australia Rupert Murdoch nel mondo delle news la fa abbondantemente da padrone e già in passato c’erano stati scontri in cui Murdoch chiedeva delle quote di profitto derivanti da un mercato pubblicitario sostenuto dalle sue attività imprenditoriali. A queste richieste non era mai stato risposto positivamente. Inoltre, tutte le cause intentate dagli organismi di controllo europeo e americano erano fondamentalmente al palo o ottenevano talvolta di scippare qualche prebenda sotto forma di “multa” alla Big Tech di turno, con gran titoloni e petto in fuori sui giornali. Il forte sospetto è che lo strapotere di fatto di questi colossi continuerà a vivere questi eventi come piccoli ostacoli di percorso, come briciole da dare ai piccioni. Le ragioni di posizione dominante di queste aziende americane sono state spiegate in maniera eccellente in un paio di video di approfondimento pubblicati sul canale di Limes e tenuti dal buon Dario Fabbri. La vera questione è se questa vittoria di Pirro, che non scalfisce minimamente le fondamenta del potere di queste enormi aziende dai bilanci delle dimensioni di PIL nazionali, non finirà per dar loro ancora più potere. Poiché esse stanno pian piano trasformandosi da strumenti per giungere alle informazioni a veri e propri editori.
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