L'editoriale

I guardiani del disordine

Quello che sta accadendo negli Stati Uniti dopo l'assassinio di Minneapolis ci insegna che le traiettorie del caos sono infinite.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Chi si è sempre opposto al “regime change”, alle campagne di demonizzazione di un governo o ancora alle tecniche di coercizione per indebolire uno Stato, qualunque sia il Paese al mondo, deve rimanere fedele a questo principio anche quando sono gli Stati Uniti a esserne la vittima. Se è vero che l’uccisione di George Floyd è un atto criminale (infatti il poliziotto Derek Chauvin è stato arrestato) è ancor più vero che una crisi limitata non può in nessun modo diventare una crisi allargata, attraverso “agenti provocatori” o sciacallaggi mediatici, al punto di destabilizzare o sovvertire un’intera struttura statuale, insieme ad un capo di Stato eletto dal suo popolo, fino a compromettere sicurezza nazionale e pace sociale.

Se così fosse dovremmo indignarci per qualsiasi rivendicazione di una minoranza attiva e organizzata a discapito di una maggioranza passiva e disorganizzata, fino a sovvertire un ordine costituito.  Poi se i rivoluzionari hanno un disegno trasversale e non settario, allora ben vengano le rivoluzioni. Quelle che nel bene o nel male hanno scritto la storia. Tutto è legittimo, anche i colpi bassi, e di artiglieria, del resto ormai tutti i manuali di azione politica, come le serie tv dei nostri giorni, soprattutto se americane, prendono ispirazione dal Principe di Machiavelli e da L’arte della guerra di Sun Tzu. Il fine dunque può giustificare i mezzi, ma prima occorre capire il fine e studiarne i mezzi usati per perseguirlo. Analizzati entrambi, ognuno può trarre le proprie conclusione, come vuole

Ogni capo di Stato deve fare fronte ai nemici esterni (le nazioni), a quelli interni (massmedia, partiti, personalità carismatiche, pezzi dell’establishment, corpi intermedi vari) e ai movimenti più o meno popolari di pensiero e di pressione. A volte, se un governo non è interamente allineato allo spirito del tempo, e le agende degli avversari, anche tutte insieme, coincidono, possono esserci tutti gli elementi per la destabilizzazione di quel Paese, che sia una democrazia occidentale o meno. È accaduto in Siria, che si è trovata la comunità internazionale contro, le manovre della Fratellanza musulmana, e i fondamentalisti armati; accadde a suo modo in Italia durante l’esperienza giallo-verde, avversata dall’Unione Europea, e da tutti i quotidiani nazionali, con una pressione altissima alimentata dalle Ong nel Mediterraneo; e ora sembra accadere per vie traverse anche negli Stati Uniti, patria del politologo Gene Sharp, che proprio nella fase di depotenziamento del Covid-19, si ritrovano a dover fronteggiare dal bunker della Casa Bianca la rivolta legittima quanto pluridecennale di una parte della comunità afro-americana dopo l’assassinio di Minneapolis, col  ritorno in pompa magna dei democratici (nonostante il loro candidato Joe Biden avesse detto pochi giorni prima “chi è indeciso se votare per me o per Trump non è un vero nero”) e le censura di Twitter, principale canale di comunicazione usato dal Tycoon per interagire con i cittadini.

Hong Kong chiama Trump

La sfida in corso è appesa a un filo ad altissima tensione, tanto che venerdì, durante le manifestazioni alla Casa Bianca, Donald Trump e la sua famiglia sono stati portati nel bunker sotterraneo dell’edificio. E, con le elezioni a novembre, si sta giocando il destino della prima potenza del mondo, anche a costo di ignorare i nemici esterni, veri o presunti, e usare tutti i mezzi possibili, compresi quelli utilizzati tradizionalmente in altre latitudini. Non è uno scontro tra due establishment, ma uno scontro dentro l’establishment, nel cuore dell’eccezionalismo americano, di cui tutti vogliono essere i portabandiera. È una lezione importante, in particolare per chi come l’attuale presidente (e il suo segretario di Stato Mike Pompeo) non ha esitato in questi anni ad appoggiare leader e movimenti molto discutibili, dal Venezuela ad Hong Kong. Chi di “regime change” ferisce, di “regime change” perisce.

I più letti

Per approfondire

Cassa Depositi e Prestiti è un fondo sempre più sovrano

Lo Stato si affida ancora una volta alla “potenza di fuoco” della Cassa Depositi e Prestiti per cercare una via d’uscita dall’emergenza economica che sta investendo il nostro tessuto produttivo.

Meno Orwell, più Huxley

Dimenticate il Grande fratello e il controllo orwelliano, il presente in cui ci troviamo a vivere è quello del 'Mondo Nuovo'.

Le grida armene non fanno rumore

Alcune guerre sono mute, di altre invece c'è una bulimia d'informazioni. È fondamentale che le coscienze europee non abbandonino l'Armenia. Gli Azeri hanno aspettato trent'anni di condizioni sociali, economiche e politiche adatte per riprendersi il Karabakh. Ora che la cuspide dei loro sogni è così vicina non aspetteranno molto per realizzare l'utopica unione dell'annessione del territorio armeno. Nel frattempo i nostri interessi energetici non devono impedirci di guardare alla situazione con lucidità.

Il Sudafrica nel circolo vizioso

Una nazione allo sbando. 27mila omicidi l’anno. Una critical juncture andata storta. Il pallido fantasma dell’apartheid e l’ottusa pretesa che una re-africanizzazione possa rimarginare un’emorragia trentennale. Sullo sfondo, una potenziale contesa con gli Stati Uniti, che con la nuova amministrazione hanno dato segnali d'insofferenza verso le politiche del Presidente Cyril Ramaphosa.

Lamento sull’Afghanistan

Era già tutto previsto. Letture afgane: da Alessandro Magno a Ryan Crocker, da Domenico Quirico a Riccardo Varvelli. Bruce Chatwin aveva profetizzato: “ridesteranno i giganti dell’Asia centrale”

Gruppo MAGOG