Chi si è sempre opposto al “regime change”, alle campagne di demonizzazione di un governo o ancora alle tecniche di coercizione per indebolire uno Stato, qualunque sia il Paese al mondo, deve rimanere fedele a questo principio anche quando sono gli Stati Uniti a esserne la vittima. Se è vero che l’uccisione di George Floyd è un atto criminale (infatti il poliziotto Derek Chauvin è stato arrestato) è ancor più vero che una crisi limitata non può in nessun modo diventare una crisi allargata, attraverso “agenti provocatori” o sciacallaggi mediatici, al punto di destabilizzare o sovvertire un’intera struttura statuale, insieme ad un capo di Stato eletto dal suo popolo, fino a compromettere sicurezza nazionale e pace sociale.
Se così fosse dovremmo indignarci per qualsiasi rivendicazione di una minoranza attiva e organizzata a discapito di una maggioranza passiva e disorganizzata, fino a sovvertire un ordine costituito. Poi se i rivoluzionari hanno un disegno trasversale e non settario, allora ben vengano le rivoluzioni. Quelle che nel bene o nel male hanno scritto la storia. Tutto è legittimo, anche i colpi bassi, e di artiglieria, del resto ormai tutti i manuali di azione politica, come le serie tv dei nostri giorni, soprattutto se americane, prendono ispirazione dal Principe di Machiavelli e da L’arte della guerra di Sun Tzu. Il fine dunque può giustificare i mezzi, ma prima occorre capire il fine e studiarne i mezzi usati per perseguirlo. Analizzati entrambi, ognuno può trarre le proprie conclusione, come vuole.
Ogni capo di Stato deve fare fronte ai nemici esterni (le nazioni), a quelli interni (massmedia, partiti, personalità carismatiche, pezzi dell’establishment, corpi intermedi vari) e ai movimenti più o meno popolari di pensiero e di pressione. A volte, se un governo non è interamente allineato allo spirito del tempo, e le agende degli avversari, anche tutte insieme, coincidono, possono esserci tutti gli elementi per la destabilizzazione di quel Paese, che sia una democrazia occidentale o meno. È accaduto in Siria, che si è trovata la comunità internazionale contro, le manovre della Fratellanza musulmana, e i fondamentalisti armati; accadde a suo modo in Italia durante l’esperienza giallo-verde, avversata dall’Unione Europea, e da tutti i quotidiani nazionali, con una pressione altissima alimentata dalle Ong nel Mediterraneo; e ora sembra accadere per vie traverse anche negli Stati Uniti, patria del politologo Gene Sharp, che proprio nella fase di depotenziamento del Covid-19, si ritrovano a dover fronteggiare dal bunker della Casa Bianca la rivolta legittima quanto pluridecennale di una parte della comunità afro-americana dopo l’assassinio di Minneapolis, col ritorno in pompa magna dei democratici (nonostante il loro candidato Joe Biden avesse detto pochi giorni prima “chi è indeciso se votare per me o per Trump non è un vero nero”) e le censura di Twitter, principale canale di comunicazione usato dal Tycoon per interagire con i cittadini.
La sfida in corso è appesa a un filo ad altissima tensione, tanto che venerdì, durante le manifestazioni alla Casa Bianca, Donald Trump e la sua famiglia sono stati portati nel bunker sotterraneo dell’edificio. E, con le elezioni a novembre, si sta giocando il destino della prima potenza del mondo, anche a costo di ignorare i nemici esterni, veri o presunti, e usare tutti i mezzi possibili, compresi quelli utilizzati tradizionalmente in altre latitudini. Non è uno scontro tra due establishment, ma uno scontro dentro l’establishment, nel cuore dell’eccezionalismo americano, di cui tutti vogliono essere i portabandiera. È una lezione importante, in particolare per chi come l’attuale presidente (e il suo segretario di Stato Mike Pompeo) non ha esitato in questi anni ad appoggiare leader e movimenti molto discutibili, dal Venezuela ad Hong Kong. Chi di “regime change” ferisce, di “regime change” perisce.