OGGETTO: I due mondi russi
DATA: 27 Marzo 2023
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
AREA: Russia
Le radici del conflitto russo-ucraino vengono analizzate da Andrea Graziosi, esperto di storia dell'Europa orientale, nel suo ultimo studio, "L'Ucraina e Putin tra storia e ideologia" (Editori Laterza).
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Andrea Graziosi, storico contemporaneo, specialista in storia dell’Europa orientale e in modo particolare sulla storia economica e sociale dell’Urss, ad ottobre dello scorso anno ha pubblicato per Laterza il saggio intitolato, L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia, in cui tenta di spiegare le cause del conflitto. Il saggio è suddiviso in due parti: nella prima viene ricostruita tutta la vicissitudine storica della nascita dello Stato ucraino dopo la sua indipendenza avvenuta nell’agosto del 1991; la seconda è dedicata alla questione russa e in modo particolare vengono indagate le cause che hanno portato all’inizio “dell’operazione speciale” di Putin. 

Nell’introduzione, l’autore tiene subito a precisare che l’attuale conflitto non può essere considerato una classica disputa di carattere ideologico-nazionalistico su basi etnolinguistiche, ma un conflitto che si è prodotto su due diverse concezioni di Stato e società. La Russia, a detta di Graziosi, si sente in dovere di creare un “Russkij mir” non fondato su basi etniche e linguistiche, ma bensì come reazione ad una società occidentale volta al «declino e alla corruzione». Dall’altra parte l’Ucraina, uno Stato ancora in fieri che però è orientato a costruire la sua società secondo un’altra ideologia, quella di matrice occidentale. Difformità di carattere antropologico, quindi,  che è emersa solamente dopo il 1991. Graziosi è dell’avviso che la fine del socialismo sovietico lasciò entrambi i Paesi un «piccolo nucleo positivo», il cosiddetto «umanesimo sovietico», termine preso in prestito dal celebre saggio di Stephen Kotkin, A un passo dall’apocalisse. Il collasso sovietico, 1970-2000. Terminologia utilizzata da Kotkin per indicare il rifiuto dell’utilizzo della violenza da parte dei funzionari dell’Urss dopo il 1970 e che ha permesso la caduta, senza nessun tipo di spargimento di sangue, della stessa Urss. Per Graziosi questa sorta di “umanesimo sovietico” ha evitato che la devoluzione dell’Urss sfociasse in una guerra civile di stampo etnonazionalista come avvenne per la ex-Jugoslavia. Il nazionalismo però non fu mai del tutto assente in Russia. Esso si palesò già nel 1993 con il Partito Liberal-Democratico di Russia fondato da Vladimir Žirinovskij, definito il padre moderno del nazionalismo populista.

Passando all’Ucraina, Graziosi inizia la sua disamina politica dal 1991, anno dell’indipendenza e fondazione della Repubblica di Ucraina. Fondazione che fu sostenuta dalla vecchia élite del Partito comunista ucraino, in modo particolare dal neo presidente Kravčuk, che decise di permettere il distaccamento dell’Ucraina dall’Urss dopo aver letto i rapporti interni del partito in merito alla carestia del 1932-33, comunemente conosciuta come Holodomor, deliberatamente scelta da Stalin per sterminare i contadini Ucraini. La decisione di creare uno Stato ex-novo in cui «il popolo ucraino veniva interpretato come un aggregato del Paese», senza distinzione di appartenenza etnica, linguistica o di religione. Ucraina, che per Graziosi, era stata fin da subito per ideologia a trazione occidentale-europea, ma che però si portava dietro il peccato originale «del suo passato sovietico in cui la distinzione tra Stato e legge era stata minima».

Nel 1994 con l’elezione a presidente di Kučma, con un passato da dirigente sovietico e poi primo ministro per il biennio 1992-1993 di Kravčuk, vennero programmate una serie di riforme volte a rilanciare il mercato del lavoro su stampo liberista e, allo stesso tempo, avviare relazioni di buon vicinato con la Russia.  I primi veri prodromi di un conflitto ideologico tra Ucraina e Russia si palesarono già nelle controverse elezioni presidenziali del 2004, quando nella parte Ovest e centrale Juščenko ottenne la maggioranza schiacciante e dall’altra parte, quella orientale a maggioranza russofona del Donbass, risultò vincitore lo sfidante Janukovyč, uomo vicino alla Russia. Le vicende di quelle elezioni proseguirono con l’avvelenamento di Juščenko e la vittoria di Janukovyč al secondo turno, con un sospetto utilizzo di brogli.

Proprio in quella contingenza la popolazione dell’Ucraina diede i primi segnali del suo forte orientamento in senso filoccidentale tramite le proteste di piazza, che presero il nome di “Rivoluzione arancione” dal colore della bandiera del partito di Juščenko, che ottennero il risultato di far indire al presidente uscente Kučma un terzo turno straordinario delle elezioni, che alla fine diedero la vittoria a Juščenko. 

La presidenza di Juščenko fu però deludente per gli elettori che volevano adottare l’ideologia europeista. Proprio la vittoria alle successive elezioni presidenziali di Janukovyč fu giudicata da Graziosi come una sorta di un voto di protesta per le politiche inattuate di Juščenko.   

Una volta che Janukovyč è salito al potere non ha impiegato molto tempo per varare nuove misure norme «seguendo la ricetta putiniana». I primi decreti varati ebbero per oggetto l’attribuzione di poteri speciali al Presidente sul controllo della magistratura.  Ma il provvedimento che segnò la fine della presidenza di Janukovyč fu il rifiuto di non ratificare l’accordo di libero scambio tra l’Ucraina e l’Unione Europea, dietro l’ovvia desiderata di Putin, dopo che la Rada (Parlamento ucraino) si era espressa a grande maggioranza a favore dell’accordo. Quello che ne seguì furono le famose proteste di piazza Maidan e la fuga di Janukovyč in Russia. Per Graziosi quell’episodio fu la prima vera sconfitta personale di Putin nella questione Ucraina. In quei giorni di proteste, oltre ai partiti d’opposizione, scesero in piazza anche i neonati partiti di estrema destra, come Svoboda e Pravyj Sektor, i cui militanti fronteggiarono i reparti di assalto dell’esercito ucraino. A dire il vero, quelle organizzazioni politiche alle elezioni politiche del 2014 ottennero dei risultati scarsissimi, ma di fatto furono determinanti per tracciare un’ impronta di un’ Ucraina autodeterminarsi rispetto «al dispotismo Stato-centro moscovita».

Prorpio il 2014 fu determinante per la successiva narrazione nazionalista Ucraina. Un mezzo importantissimo è stato l’utilizzo pubblico della storia, secondo due filoni storici principali: il primo individuato nella Rus Kiev sotto la dinastia dei Vladimir del X secolo d.C., considerata come un’istituzione in cui venivano perseguiti i principi democratici, identificata, tra l’altro, come l’istituzione statuale che fu all’origine di tutte le Rus, quella di Mosca compresa; il secondo filone è inerente alle comunità dei Cosacchi, uomini guerrieri stanziati nel sud dell’Ucraina, considerati come l’archetipo di un’Ucraina libera e selvaggia, ispirato al Taras Bulba di Gogol. A questi due filoni storici è stato aggiunto anche il tragico evento dell’Holodomor, inserito con il preciso obiettivo di far orientare la concezione pubblica ucraina come l’erede di un popolo che è stato vittima «di una forza superiore da parte di un’altro popolo». Ma per l’autore la peculiarità del nazionalismo ucraino è stata quella di prendere a modello il nazionalismo degli Stati moderni occidentali, unendo aggregati diversi con diverse tradizioni storiche e linguistiche, come è successo con la fondazione dell’Italia che unì il Regno delle Due Sicilie, la Repubblica di Venezia e gli Stati della Chiesa.  Stesso analogo processo che avvenne con la fondazione della Germania nel 1870 e la Spagna, che nel 1469 si costituì grazie all’unione tra la Castiglia e  l’Aragona.  

Completamente in antitesi con il nazionalismo ucraino vi è quello di Putin. Quest’ultimo ha fatto un ampio utilizzato del linguaggio retorico-nazionalista per richiamare l’attenzione alle minoranze russe e russofone delle ex repubbliche dell’Unione sovietica, in modo particolare nella regione ucraina del Donbass. Graziosi tende a sottolineare che nell’identificazione putiniana della Russia con l’Urss non va però inserita l’ideologia marxista-leninista, pensiero politico lontanissimo dalle vedute dello stesso Putin.  Il presidente russo non ha mai smesso di affermare che il crollo dell’Urss e l’adozione di politiche liberiste da parte dei funzionari sovietici, che facevano capo a Gorbaciov, e la successiva svendita selvaggia delle ex-aziende di Stato è stata causata dal perseguire la corrotta ideologia dell’Occidente. Ma per l’autore queste tesi sono ritenute errate, dato che la Federazione Russa scelse liberamente di adottare un’economia di mercato di stampo liberista, in cui non le fu imposto nessun tipo di ripartizione nel pagamento del proprio debito, sia da parte del Fondo monetario che dall’amministrazione Usa. Anche dal punto di vista militare gli stessi Usa e la Nato furono molto accondiscendenti nei confronti della Russia: alla Conferenza di Parigi del 1994 la Russia ricevette circa 4.000 testate nucleari che erano sul solo suolo ucraino e in cambio si impegnò a garantire i confini con l’Ucraina: «la storia è cruciale perché indica quali fossero i sentimenti, filorussi, degli Stati Uniti negli anni Novanta, rivela la malafede della Mosca odierna».

Nell’ultima parte del libro, Graziosi dedica una parte cospicua dell’ economia del saggio ad indagare, dal punto di vista intellettuale, quali siano i riferimenti culturali-ideologici di Putin.

Il primo tra gli autori citati da Graziosi appartenenti al pantheon ideologico di Putin è Solzenicyn, scrittore molto ammirato dal presidente, tanto che nel 2017 ha inaugurato un monumento dedicato alle vittime delle repressioni staliniste raccontate in Arcipelago Gulag. Ma Graziosi mette in guardia il lettore , sostenendo che le stesse letture che Putin ha fatto di Solzenicyn sono state strumentali e con l’obiettivo di ritagliare un fondamento ideologico alla sua presidenza. Putin per costruire la sua dottrina nazionalistica, può aver preso a modello il discorso che lo scrittore tenne ad Harvard nel giugno del 1978, in cui si oppose all’idea di una Russia tradizionalmente ortodossa, che avrebbe dovuto riscattare il suo presente e passato socialista. La stessa ideologia putiniana può essere associata a quella di Žirinovskij, costituita da un sincretismo di elementi nazionalistici e imperiali in cui dominava il desiderio di rivincita dell’impero russo verso il mondo ex-sovietico, in modo particolare l’Ucraina definita dalla stesso Žirinovskij un “non Stato”. Ideologia putiniana che può essere definita ambigua e contraddittoria, sostiene Graziosi, a cui va aggiunto anche il pensiero di un’altro autore fondamentale per l’adozione di una politica di stampo neo imperiale, il filosofo Lev Gumilev, figlio di Anna Achmatova, teorico dell’euroasitismo nazionalistia post-sovietica. Da quest’ultimo Putin riprese il concetto che il collasso del socialismo, come elemento ideologico, non avrebbe dovuto coincidere con la caduta della Russia come organismo federativo delle altre repubbliche. L’ultimo intellettuale elencato da Graziosi, che ad oggi sembra essere presente nei discorsi di Putin, è Aleksandr Panarin. Con il libro-manifesto, La civilizzazione ortodossa in un mondo globalizzato, Panarin sosteneva che la Russia era diventata economicamente più arretrata dell’Occidente, ma intellettualmente molto più avanzata grazie alla sua cultura secolare. Proprio grazie a quest’ultima caratteristica la Russia doveva ambire a nazione guida degli altri popoli dell’Eurasia.  

Nelle conclusioni Graziosi non si azzarda a far pronostici sull’esito del conflitto. Ma tende a precisare che l’invasione della Russia sull’Ucraina sia da imputare all‘unica volontà di Putin di creare quel “Russkij Mir”, tramite l’arma performante di una propaganda infarcita di retorica, dove alla decadenza culturale ed economica dell’occidente contrappone l’utilizzo delle armi nucleari. Per l’autore questi postulati possono essere sufficienti “a costruire un nuovo mondo russo ma anche ad alterare radicalmente l’ordine mondiale“.

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