OGGETTO: I dolori del vecchio Trump
DATA: 12 Aprile 2023
SEZIONE: Geopolitica
L’arresto del tycoon segna una cesura irreversibile nella parabola del populismo americano. Può il trumpismo sopravvivere senza il suo fondatore?
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Si è voluto far ritrarre col pugno alzato, Donald Trump, mentre entrava nel Tribunale Penale di New York City. Sguardo di pietra fisso sull’obiettivo, la chioma indomita trattenuta a malapena dalla permanente Anni Ottanta, il numero uno del populismo globale si è prestato al gesto popolare e popolano per eccellenza: intesa o no, la carica simbolica dell’immagine è innegabile. E d’altronde tutto, in quella che si preannuncia come fra le più controverse vicende politico-legali nella storia degli Stati Uniti, è simbolico; perché a processo non vanno soltanto un uomo e neppure un Presidente, ma un leader e il suo movimento. Settantacinque milioni di elettori in patria e centinaia di migliaia di sostenitori all’estero osservano col fiato sospeso mentre l’eccentrico magnate dell’immobiliare si avvia ad affrontare l’ennesima grande sfida. L’ultima, dicono, se i suoi nemici l’avranno vinta: in questa ipotesi si condensano uno per uno i timori di un pezzo di America e di mondo chiamati ora ad immaginare un futuro quanto mai incerto.

L’accusa mossa a Trump, così come formulata dal Procuratore Distrettuale Alvin Bragg in ben trentaquattro capi d’imputazione, è di aver fatto passare per spese legali delle ingenti somme di denaro in realtà destinate a comprare il silenzio di alcune discutibili frequentazioni femminili in vista della campagna per la Casa Bianca del 2016. Secondo la legge dello Stato di New York, quest’atto costituisce un illecito (misdemeanor), per giunta verosimilmente caduto in prescrizione; Bragg asserisce tuttavia che la presunta falsificazione dei documenti fiscali farebbe parte di un più complesso piano per celare «altri crimini», commessi in violazione delle norme elettorali e sui finanziamenti ai candidati. Ciò configurerebbe un reato (felony), la competenza rispetto al quale spetterebbe però alle autorità federali: in attesa di un (improbabile) pronunciamento del Dipartimento di Giustizia, l’impressione d’insieme è che l’impianto probatorio messo in piedi dal Distretto di Manhattan sia a dir poco scricchiolante.

Non aiutano i legami di Bragg con il miliardario George Soros, arcinemesi di Trump il cui contributo è stato decisivo per l’elezione del togato alla carica di DA, e le sospettate simpatie progressiste del giudice Juan Merchan, che presiederà al processo questo dicembre. La stessa data della prima udienza potrebbe non essere del tutto casuale; negli USA il tardo autunno è stagione di dibattiti, ai quali difficilmente il tycoon potrebbe partecipare dalla sbarra. L’ex inquilino del 1600 di Pennsylvania Avenue dovrà dunque scegliere se rinunciare alle presidenziali del 2024 – nonostante i continui rumors riguardanti la sua imminente discesa in campo, Trump non si è ancora espresso in proposito – o portare avanti la corsa elettorale sperando che il procedimento non si concluda con una condanna: damned if you do, damned if you don’t, direbbero da quelle parti. Sono numerose le voci levatesi da oltreoceano in questi giorni contro l’inedito interesse della magistratura newyorkese per il quarantacinquesimo presidente; l’ombra del killeraggio giudiziario già si staglia lunga su una tornata prevedibilmente incandescente.

Al lettore non potranno essere sfuggite le evidenti somiglianze con le vicissitudini di Silvio Berlusconi: esuberante populista ante litteram, anche lui dedito a compagnie opinabili e anche lui finito in più occasioni sotto la lente d’ingrandimento di giudici talvolta forse troppo zelanti, il Cav rappresenta per noi italiani un termine di paragone scontato, attraverso cui accostare – non senza un certo elemento comico – e decifrare realtà altrimenti separate da una distanza insormontabile. Comunque, il parallelismo tra i due è assai più profondo di quanto le facili ironie del momento lascino intendere. Guai con le donne e la giustizia a parte, entrambi sembrano accomunati soprattutto da una spiccata propensione accentratrice; sia Berlusconi che Trump hanno traslato l’archetipo del self-made man dall’arena imprenditoriale a quella politica con straordinario successo, ammantandosi di un’aura quasi superomistica che molto ha fatto per cementarne l’immagine pubblica e, per estensione, il potere sulle rispettive organizzazioni.

Ma né l’uno né l’altro sono superuomini. Il medesimo personalismo che ha finora consentito loro di rimanere sulla cresta dell’onda ne rappresenta, quasi a mo’ di contrappasso, la debolezza più grande. Conseguenza inevitabile dell’ambizione o riverbero di un carattere narcisista, l’essere solo al comando ha segnato nel Bel Paese la fine de facto della carriera di Berlusconi e con ogni probabilità di Forza Italia, che in mancanza di un erede designato è destinata a venire cannibalizzata dal resto del centrodestra; per quel che concerne a Trump, l’incriminazione ed il (brevissimo) arresto riportano in primo piano la questione della successione, rimasta largamente irrisolta dopo la contestata sconfitta del 2020. Ai fedelissimi del magnate si contrappone in seno al campo conservatore un’agguerrita coalizione di scontenti, che gli contestano l’attuazione spesso distratta del suo programma originale e l’eccessiva influenza esercitata dalla famiglia – ricordiamo in particolare il genero Jared Kushner, da molti considerato l’artefice del riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele, nel 2019 – nella gestione degli affari di Stato.

La nuova fronda anti-Trump (da non confondere con i cosiddetti NeverTrumpers, appartenenti all’area neocon del GOP) pare aver trovato il suo campione nell’attuale governatore della Florida, Ron DeSantis. Distintosi dapprima come uno dei più feroci critici delle misure anti-COVID imposte nei propri Stati dalle controparti democratiche, DeSantis si è poi guadagnato le simpatie di una non trascurabile porzione della base repubblicana ingaggiando una riuscita battaglia contro l’ideologia woke e i suoi promotori, veri o presunti; dopo la riconferma dello scorso anno, il veterano della Marina è oggi indubbiamente il principale avversario di Trump per le prossime primarie del partito dell’elefante. Ad ogni modo, non è detto che un’eventuale vittoria debba per forza di cose garantirgli la leadership della galassia #MAGA. Al netto dell’aperta ostilità di Trump, che dal suo Truth Social non manca di rivolgergli invettive al vetriolo, DeSantis ha di fronte a sé un interrogativo fondamentale: è davvero possibile replicare il trumpismo senza l’uomo che gli ha dato vita?

La risposta è meno scontata di quanto si possa pensare. Il governatore si direbbe intenzionato a traghettare l’esperienza iniziata nel 2016 in una direzione ortodossa, facendo leva sui suoi legami con gli apparati del GOP per tentarne la definitiva istituzionalizzazione e, questa l’idea di fondo, assicurarsi che essa non si esaurisca con Trump. Si tratta di un approccio che, lo si è detto, incontra i sentimenti di un certo segmento dell’elettorato, perlopiù di estrazione elitaria e favorevole ad una graduale riforma interna; diversa per contro la situazione presso il grosso del bacino di consensi dei conservatori, composto del ceto medio e della classe lavoratrice rurale, che temono di vedere le proprie istanze cooptate dalla partitocrazia di destra, non a torto additata come corresponsabile, insieme ai progressisti, del percepito declino degli Stati Uniti. Il divario tra le due posizioni è tangibile, specie nei sondaggi: Trump è in nettissimo vantaggio su DeSantis, complici alcune dichiarazioni poco chiare di quest’ultimo sulla crisi ucraina.

Eppure, anche con la corsa per la candidatura repubblicana apparentemente già decisa la sorte del populismo americano è tutto fuorché certa. È vero che sebbene esso sia, al pari di qualsiasi movimento ideologico (o post-ideologico), inscindibile da una proposta politica concreta, sarebbe in definitiva un errore ridurlo ad una semplice serie di policies estranee al contesto storico, sociale ed economico che le ha generate in primo luogo, alla maniera di DeSantis: l’una e l’altro esistono, e possono esistere soltanto, in simbiosi. L’intera ondata trumpista prende le mosse in diretta opposizione alle forme istituzionali tradizionali, rigettate come inadatte ed indisposte a promuovere gli interessi di una popolazione che ne è esclusa; cercare d’inserirla in quella cornice è un esercizio futile, quando non dannoso. D’altro canto, l’istintiva diffidenza dei populisti per la politica strutturata li vincola a spazi, tempi e personaggi specifici, inibendo la pur presente volontà di radicarsi nel sistema decisionale e nella continuità del Paese.

La personalizzazione alla quale accennavamo poc’anzi s’impone allora come il portato naturale del populismo stesso. A Trump va riconosciuto il merito di aver colto ed intercettato questa tendenza, e più ancora di averla fatta pienamente sua, elevandola a tutti gli effetti ad un cesarismo — postmoderno e kitsch — capace di contrastare lo strapotere burocratico-manageriale del famigerato Deep State. Quanto poi davvero egli sia consapevole del ruolo di cui si è fatto carico è forse la più grande perplessità lasciata dalla sua presidenza; quel che è certo è che, ammesso e non concesso che Trump lo sia stato, di Cesare ne nasce uno ogni cent’anni. Troppo, per non relegare la sua (contro)rivoluzione ad una mera parentesi della vita americana. Ai suoi seguaci la scelta: affidarsi ancora una volta a lui e rischiare così di entrare in un ciclo che non si chiuderà mai del tutto, o intraprendere la strada tracciata da DeSantis. Aspettando un Cesare che possa durare.

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