Gli Hôtel-Dieu, in Francia, dall’Alto Medioevo sono gli edifici, adiacenti alla cattedrale, adibiti all’ospitalità, al ricovero. Sono gli ospedali, ed è bello immaginare che in quella parola, ospedale, sia inciso il nome di Dio, quasi che Dio – colui che ospita – sia l’ospite, il malato, il destinato a cure. Sembra paradossale, a un occhio arroccato sull’oggi, che l’hotel, il vescovado dei piaceri, si leghi a Dio, che tra ospizio e spazio sacro non ci sia distanza, dacché hôtel è anzi tutto hôpital, e solo nel luogo del grande dolore è possibile la conversione, Dio è lì nel corpo dilaniato, nel sintagma delle urla.
Nella mia mente, non so perché, l’Hôtel-Dieu – pure per assonanza – è l’Eden in terra: luogo di passanti e di sconosciuti, di sconfitti, di massacrati, di assetati, di laidi e di scaltri; di malati. Il Primo Testamento dice delle città-rifugio, “perché servissero di asilo all’omicida che avesse ucciso il suo prossimo involontariamente” (Dt 4, 43); sono nomi dolci a ripeterle a fior di labbra: Beser, Ramot, Golan. Luoghi in cui la legge è sospesa, spazi di ospizio – o di cauta prigionia – per i Caino in fuga dal proprio tempo. Maqroll il Gabbiere, l’inquieto avventuriero creato da Álvaro Mutis costruisce, in Rassegna degli Ospedali d’Oltremare, un vasto catalogo di infelicità, setacciando la genesi e la genealogia di ogni sfortuna:
“Entrate tutti a vestire il manto occhiuto della febbre e a conoscere il tremore serafico dell’anemia
o la trasparenza cerea del cancro che custodisce la sua materia molte notti,
fino a sparpagliarsi sul tavolo bianco illuminato da un altro sole voltaico che ronza dolcemente!
Avanti signori!
Qui finiscono i desideri impossibili…”
In origine il libro di Francesca Serragnoli, La quasi notte (MC, 2020), doveva intitolarsi Hotel Dieu: la sua poesia, in effetti, tutt’altro che afflitta, mendica tra i fratelli del dolore, tra razioni di luce, radiazioni povere. Il manoscritto di Hotel Dieu è introdotto da alcuni pensieri; un paio mi sono rimasti a pelle, e li rimastico: “come è liberante non servire a nulla”, e poi, “diventare anonimi come gli autori biblici”. Il male, prima di eleggerti, ti rende anonimo al corpo; l’ospizio, infine, è sepolcro: o se ne sfonda la pietra o si soccombe.
Di Hôtel-Dieu credo parli Cristina Campo, in qualche scritto; di certo ne scrive Rainer Maria Rilke, in una lettera di rara crudeltà, da Parigi, alla moglie Clara, è il 31 agosto del 1902:
“Quando passai per la prima volta davanti all’Hôtel Dieu stava giusto entrando una vettura scoperta, nella quale era buttato un uomo, che oscillava a ogni movimento, sghembo come una marionetta rotta, e aveva una piaga profonda nel lungo collo grigio e pendente. E che gente ho incontrato da allora, quasi ogni giorno; rovine di cariatidi su cui gravava ancora tutto il dolore, l’intero edificio di un dolore, sotto il quale esse vivevano lente come tartarughe. Ed erano passanti fra passanti, lasciati soli e indisturbati nel loro destino. Al massimo li si coglieva come impressione, e li si osservava con pacata curiosità scientifica come una nuova specie di animali, ai quali la necessità ha sviluppato particolari organi, organi per la fame e per la morte… Vivevano, vivevano di niente, di polvere, di fuliggine e della sporcizia sulla loro pelle, vivevano di ciò che i cani perdono di bocca, di un qualche oggetto insensatamente rotto…”.
Il dolore, che porta nell’al di là del creato, attrae, per repulsione. Tra il niente, tra nastri di polvere – secondo l’editto biblico – si realizza l’uomo e si trova il santo, Dio. Più ne fuggiamo, agiti al vomito, più si ripresenta, dedicando splendore allo schifo. Chi ha raccolto da terra un vecchio, calamitato tra le proprie feci, ne sa il carisma, antinomico, il sussurro del dio-bestia.
La predicazione di Gesù è itinerante, ma i Vangeli sono costellati di case. Di chi è la “casa” a Cafarnao di cui accenna, ad esempio, l’evangelista Marco? Lì Gesù, sulla soglia, insegna; lì guarisce il paralitico; lì dà cibo a “molti pubblicani e peccatori” (2, 15). Le case in cui abita Gesù, il senza dimora, sono ospizi, spazi di cura, in cui, indistintamente, a tutti è dato tutto. Bisognerebbe fare un censimento di queste case, autentici Hôtel-Dieu: a volte Gesù ospita nella propria casa temporanea, a volte è ospite nelle case altrui (ad esempio nella casa “di una donna di nome Marta”, a Betania). La sua vita, come narrata nei Vangeli, è un continuo respiro, espiatorio, tra casa e isolamento, tra momenti pubblici, all’aperto, e azioni intime, da camera, tra deserto e sala. In una casa, a Gerusalemme, affittata per Pasqua, Gesù offre il pane e il calice ai discepoli; all’aperto, in Croce, sul Golgota, si offrirà come corpo e sangue per gli uomini. Dopo la morte di Gesù, i discepoli, impauriti, si serrano in casa (“erano di nuovo in casa”, scrive Giovanni) ed è lì che Gesù risorto li visita. Nel momento più estremo non vogliamo che crollare, andare fino in fondo, sprecarci al male. L’ospizio, tra privato e privazione, è l’iride di Dio. Che qualcuno ci raccolga, come acqua, è impugnare una sfida, la circostanza di un nome nuovo.
Con Alessandro Dehò tentiamo di dare nuovi nomi al sacro.
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Non conosco nessun Hotel Dieu, ma l’ospizio, il ricovero, quelli non solo li conosco, mi sono entrati dentro, conficcati in qualche parte della carne, grani di rosario, collana di denti strappati troppo presto. Perché in colpevole anticipo ho abitato l’abisso degli hotels des hommes, ricoveri per indesiderati, ero poco più che un ragazzino, nemmeno la patente avevo, nessuna scuola a guidarmi nel mistero dei ricoveri per vecchi e trai corridoi dei reparti psichiatrici. Troppo presto, allievo infermiere, fuggito da una scuola tecnica mi guadagnavo la vita, o forse anticipavo la mia vecchiaia. Se la morte ha iniziato a masticarmi presto lo devo a quella specie di arruolamento in una legione che sarebbe dovuta rimanere straniera almeno per un altro po’. Sono di un’altra generazione, non sono stato risparmiato, me ne faccio vanto e ne sconto le pene. Ma se dovessi tornare al lavoro, ad un lavoro vero, non avrei il mino dubbio: o un ricovero per vecchi o la psichiatria. Tornarci adesso sarebbe una specie di risarcimento per tutto quello che involontariamente ho rubato loro, imparando almeno in parte il mistero della vita. Ci tornerei pregante, un rosario da sgranare tra i misteri che si declinano in morte o in follia.
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Primo mistero della gioia: l’angelo annuncia a Maria la nascita di Gesù.
Come quando Rosa decide di dire ai figli che non se la sente più di vivere da sola, e allora chiede di essere deportata a finire la vita altrove. Per non dare fastidio. Finge di credere che loro non la abbandoneranno, finge di credere che sia giusto così, finge di credere che non si possa fare altro. Finge, anche quando prega, e non capisce perché il dio tanto onnipotente non le riservi una morte esatta e pulita, degna, almeno la morte.
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Secondo mistero della gioia: Maria fa visita alla cugina Elisabetta.
Le visite dei parenti quando loro non arrivano. Il tempo che si dilata sotto la carne, scorre tra le vene, le maltratta. Essere attesi non è vera fede, nessun avvento ha senso, attendere è vera fede e vedere i parenti degli altri che ti rubano anche la compagnia degli altri abbandonati. Vera fede è schiantarsi nell’attesa di chi non verrà, vera mistica è una solitudine come un cratere che ribolle di bestemmie impossibili da far volare in forma di preghiera.
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Terzo mistero della gioia: Gesù, il figlio di Dio, nasce dalla Vergine Maria.
La puzza di piscio, i pannoloni zuppi di urina. Ogni mattina. A trapanarti le orecchie la sigla dei telegiornali, violenta e illusoria l’informazione, ancora e sempre le ultime notizie, ma ogni cosa è ultima in un ricovero. Sfilare il pannolone, l’acido che sale nelle narici, non è vero che ci si abitua, ti rimane dentro, e poi l’acqua tiepida e bianca, versata con delle brocche di plastica e sapone neutro. I genitali avvizziti, le spugne da gettare a parte, le mie mani giovani a ripetere quel gesto. Qualcosa nasceva, era una grotta, gli angeli se ne erano già andati, ma avevano dimenticato dietro di loro la puzza acre della vita.
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Quarto mistero della gioia: Maria e Giuseppe presentano Gesù al Tempio.
Carrozzine, una lunga fila di carrozzine, la chiesa è una palestra, gli sforzi delle suore servono solo a peggiorare la situazione: drappi lucidi, statue di madonne albine, candele finte, canti sgangherati, occhi assenti, il prete barcolla ma finalmente arriva all’altare, lo sorreggono, non vede, salta dei pezzi, mastica parole, l’alito pesante, la puzza di vecchio gonfia anche i sacri paramenti. Dal fondo infermieri attendono la fine di quel rito parlando d’altro. Andate in pace, la morte fa l’amore con la libertà.
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Quinto mistero della gioia: Maria e Giuseppe ritrovano Gesù nel Tempio, fra i dottori.
La trovarono in un angolo della stanza, una pozza di sangue e vomito, la trovarono dietro occhi sbarrati dalle medicine e dalla disperazione di un mondo che le rimbombava tra le tempie. Tra tutti lei vedeva ciò che nessuno osava immaginare, le medicine non riuscivano a cancellare, nessun sudario a calmarla. Il camice bianco respirava nell’angolo opposto e in terra, recuperata chissà dove, una madonnina di Lourdes, di quelle con l’acqua dentro. Chi ha visto giura che in quel tempio le due donne avessero appena finito una lotta che nessun capì mai se fosse d’amore o di disperazione.
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Primo mistero della luce: Gesù è battezzato da Giovanni nel Giordano.
Queste mani hanno ammazzato lo sai? Sai cosa è il manicomio criminale? E Io non ero pronto. All’immersione nel peccato. Queste mani hanno ammazzato, non volevo crederci, ero un ragazzino, vivevo in oratorio, mi perdevo a preparare veglie di preghiera e tornei di calcio, io volevo solo innamorarmi ed essere felice. Queste mani hanno ammazzato, fu la mia prima immersione nel Giordano, dove i peccati non vengono trascinati via ma diventano liquido amniotico. Guidando, alla fine del turno, stringevo forte il volante, come non avevo mai fatto.
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Secondo mistero della luce: Gesù presente alle nozze di Cana trasforma l’acqua in vino.
Una delusione d’amore e poi nelle vene un miscuglio di droghe e solitudine. Un cadavere rivestito di pelle, e non voleva mangiare mai, niente. Le sue nozze non ripartirono, inceppata la festa, il vino del passato si diluiva in acqua, acqua che lei tentava di raggiungere, per inabissarsi finalmente, per sempre. A volte l’amore uccide, se non si trasforma.
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Terzo mistero della luce: Gesù annuncia il Regno di Dio.
Patrizio voleva uscire, doveva uscire, avrebbe venduto la sua auto, avrebbe comprato un cavallo bianco, e sarebbe salito al monte. Era Mosè in persona a ordinarlo, perché non gli credevamo? Nessun annuncio riuscirà mai a colpirmi con tale potenza, una lama, una fede totale imprigionata dietro le sbarre. Perché non gli ho detto che aveva ragione? Perché è così difficile credere?
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Quarto mistero della luce: Gesù si trasfigura davanti ai discepoli.
Una sala nascosta in un luogo di cancellati dal mondo. Segreta e mimetizzata, accanto le caldaie a pompare calore artificiale, entrata a parte, dedicata, e poi gli estintori, quelli li ricordo bene, forse ultima illusione di poter spegnere l’estremo gesto della libertà, gli estintori li ricordo perfettamente. E poi una busta di plastica con ancora attaccata la banda bianca con i buchi, i nomi a sfilati fuori una volta passato il tempo. La puzza di fiori e di gasolio, anche la lavanderia era lì accanto, arrivavano i furgoni. Il silenzio che pareva di vergogna. Di chi quella mattina si era fatto trovare assente. Trasfigurati da una luce inedita ora riposavano, finalmente, eternamente. L’obitorio aveva estintori a presidiare due porte in ferro.
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Quinto mistero della luce: Gesù durante l’ultima cena istituisce l’Eucaristia.
Angela nascondeva pezzi di pane ovunque, attanagliata dalla paura. Forse ricordi di guerra. Aveva ragione lei. Come i cani, sotterrava. La sua non era pazzia ma eucarestia, teneva pezzi di pane duro da mangiare di nascosto. Le infermiere la sgridavano, lei nascondeva pezzi di pane. Viatico.
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Primo mistero del dolore: Gesù prega e suda sangue nell’orto degli ulivi.
Il suo morso non mi strappò la carne, ma fu una specie di miracolo, eravamo in tanti a tentare di legarlo. Per il suo bene, ordine medico, perché non di ammazzasse, perché non distruggesse. Eravamo in tanti a legarlo, sudava e forse c’era anche del sangue. A volte penso che se mi avesse morso avrebbe fatto bene.
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Secondo mistero del dolore: Gesù è flagellato dai soldati.
Ma perché tanto accanimento? Bicchieri bianchi di plastica e poi gocce e compresse, come una liturgia da ripetersi ad orari prestabiliti, come se il mondo non si arrendesse, come a illudersi di poter tenere in equilibrio. Quel giorno Fabio riuscì, non succedeva mai ma lui riuscì, si tenne tutto sotto la lingua e sputò ogni cosa in un cestino. Almeno una frustata era andata a vuoto. Durò meno di niente. Non riuscì più a ripetersi, era vecchio, e stanco, perché non slegarlo da quella colonna? Perché l’umiliazione non poteva aver fine?
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Terzo mistero del dolore: Gesù è incoronato di spine.
Arrivavano a scaglioni, puntuali come la peste. Tentavano gesti di animazione. Danze e karaoke, giochi idioti e stupidaggini a non finire. Quel giorno che vidi Francesco dover subire l’umiliazione di esser chiamato nonnino prima di essere incoronato con un cappellino ridicolo ho sperato che mio padre morisse prima di un simile supplizio.
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Quarto mistero del dolore: Gesù percorre la via del Calvario portando la croce
Il primo giorno, appena assunto, io seduto ad un tavolo con un collega che mi dava le prime istruzioni e dietro di me delle urla, grida disumane, nessuna porta, nessuna serratura poteva fermarle. Ricordo bene quel momento, iniziai a sentire le urla ai piedi della croce.
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Quinto mistero del dolore: Gesù è crocifisso e muore in croce.
Davvero quegli uomini e quelle donne, in quegli ospizi divini, davvero erano i figli di Dio. Trafitti e feriti, crocifissi e soli. A tre giorni almeno da ogni possibile resurrezione.
Alessandro Dehò