Ad oggi, disporsi a parlare della pandemia comporta l’obbligatoria presa di coscienza del fatto che si stia andando a toccare un tema sensibile. L’elevato tasso di sofferenza individuale e sociale sperimentato in questi ultimi due anni non smette infatti di condizionare i giudizi su ciò che si è vissuto: alcune volte insegnando, altre sviando. Come che sia, per questo e per molti altri motivi occuparsi di ciò che è stato (e che peraltro per molti versi è ancora in corso) è ampiamente meritorio: la presenza storica dell’uomo nel mondo non si ferma, e poiché alla cieca non si può certo andare avanti è necessario che qualcuno si assuma l’onere di pensare la via. In questo senso anzitutto va riconosciuto il rilievo del volume collettaneo a cura di Carlo Lottieri, Leviatano sanitario e crisi del diritto. Cultura, società e istituzioni al tempo del Covid-19: al di là del valore intrinseco dell’opera, che discuteremo di qui a poco, è il carattere di appello accorato, di ultima chiamata che esso assume a destare grande attenzione. Ciò che contraddistingue un’ultima chiamata, infatti, è il tempismo: giunge esattamente in tempo, ma porta con sé la consapevolezza che altre e ulteriori finestre utili non saranno verosimilmente concesse. Lungi dall’essere una mera suggestione, l’agire dell’uomo nella storia ha più e più volte comprovato questa osservazione: esistono, al di là di ogni antipatia per le perentorie svolte periodizzanti, nodi ed eventi così significativi da portare alla luce processi da tempo latenti e, insieme, un’ultima occasione per decidere (e per decidersi) a proposito di essi. Il primo suggerimento che va colto dal volume è precisamente questo: sic stantibus rebus, che cosa vogliamo fare? Se decidere è possibile solo nella misura in cui si prenda effettivamente una decisione e non si rinunci a esercitare la propria libertà lasciando supinamente che le cose vadano così come sembra che siano destinate ad andare, il momento è ora.
L’ammonimento, dunque, è un richiamo importante alla riflessione. Ma perché questo si concretizzi realmente – potremmo dire: perché si sia certi di trovarsi di fronte ad una autentica proposta di pensiero, molto al di là delle mere opinioni da schieramento – la riflessione stessa deve essere sostenuta da una solida analisi e proprio nel tenore dell’analisi offerta si rende evidente il secondo grande merito del volume. In primo luogo, la struttura stessa dell’opera è significativa: decisamente composita, i saggi che la compongono cercano di esplorare il maggior numero possibile di angolazioni teoretiche affrontando il problema della gestione della pandemia dal punto di vista giuridico, medico-statistico, filosofico-antropologico, politico ed economico. È già quindi più che esplicito il rifiuto di considerare il sanitario come l’unica dimensione dell’uomo di fronte alla malattia. Dal punto di vista contenutistico, poi, l’analisi – che pur comprende diversi momenti di critica serrata rispetto alle scelte operate in questi due anni – è condotta con serietà e tono pacato, cosa quanto mai rara in questi tempi di opinioni urlate e carenza di argomentazioni convincenti.
Secondo gli autori, la pandemia contribuisce tuttora a portare allo scoperto molte delle contraddizioni che affliggono le nostre società liberaldemocratiche. Assistiamo a una sorta di vigoroso «ritorno dello Stato» (Manzin), primo indizio del carattere utopico della teoria dell’autolimitazione del potere sovrano alla base del costituzionalismo moderno (Lottieri). In effetti, l’esperienza della pandemia ha gettato più di qualche ombra sulla consistenza e sul ruolo che il diritto in quanto tale, per come lo abbiamo conosciuto e interpretato fino ad ora, assumerà nell’immediato futuro. È diventato chiaro per molti come sia senza dubbio il cosiddetto stato di eccezione a definire i limiti e i confini della democrazia, e non il contrario (come utopicamente si poteva aver pensato finora). È altresì evidente che la crisi del politico, inteso in senso classico come la dimensione in cui si esplica la dignità dell’essere umano in quanto attore libero nel campo della storia, capace del bene per sé e per gli altri ed organicamente connesso (intrinsece amicus) con il tessuto sociale nel quale si muove, non coincide con la crisi dello Stato. Al contrario: proprio lo Stato moderno rappresenta il terreno dal quale gli ordinamenti attualmente vigenti in ogni angolo dell’Europa traggono linfa e nutrimento. Non è perciò una perdita di tempo ricordare come lo Stato moderno presupponga a proprio fondamento il concetto di uomo forgiato dal protestantesimo e istituzionalizzato dall’opera di Hobbes: un essere meschino, incapace di conoscere il bene e la verità, bisognoso di disperdere la propria consistenza ontologica alienandosi in uno Stato forte che si prenda cura di lui. Non a caso, il confronto con il Leviatano si rivela particolarmente felice per individuare determinate caratteristiche delle politiche attuate dagli stati europei: accentuato paternalismo, bassa considerazione della persona (appiattita esclusivamente nella dimensione spersonalizzante del cives), nessuna remora nell’adozione della violenza allorché si è trattato di concentrare il potere nelle mani di pochi e di infrangere confini giuridici fino a quel momento considerati sacri.
In questo senso, appare particolarmente grave il ricorso strumentale al discorso scientifico come tecnica di autolegittimazione da parte del potere politico. Se da un lato una non ben definita ‘Scienza’ con la S maiuscola è invocata a ricoprire il ruolo di nume tutelare di ogni decisione politica, dall’altro le regole, le gerarchie e le modalità che animano quella stessa comunità scientifica della cui autorevolezza si vorrebbe grossolanamente partecipare sono sistematicamente disattese. Si è così dovuti assistere al magistero improvvisato di presunti esperti da un giorno all’altro passati alla ribalta, in una vera e propria «sovraesposizione di scienziati che hanno un peso secondario nel dibattito internazionale delle rispettive discipline» (Gandini-Miconi) cui ha fatto da necessario pendant l’esclusione puntuale e selettiva di voci non allineate alla versione ufficiale dei fatti, non importa quanto qualificate e prestigiose fossero. In questo senso, la vicenda legata al nome di John P. A. Ioannidis non può che rappresentare un motivo di profondo imbarazzo per il nostro Paese, nonché un triste sintomo del decadimento morale ed intellettuale della nostra comunità scientifica. Proprio il ricorso alla valutazione morale offre poi spazio ad un’ulteriore e rapida considerazione sul tema del rapporto instauratosi tra scienza e potere durante la pandemia: mentre si è imposta fin da principio un’inquietante connessione fra adesione alla verità scientifica ufficialmente diffusa e bontà individuale (declinata nel senso della responsabilità, dell’altruismo, della generosità, etc.), invano si è tentato di ricordare che la ricerca non procede né mai ha proceduto in questo modo. Sicché laddove alla dimostrazione tramite argomenti e alla libera ricerca si sostituisce la persuasione tramite vere e proprie negoziazioni di diritti e la minaccia (peraltro esplicitamente formulata) di valutare moralmente il pensiero di ciascuno, si è già inseriti in qualcosa di molto diverso da ogni forma di scienza, con tutto ciò che questo passaggio comporta.
Resta comunque il fatto che solo grazie alla costruzione di un’aura di autoattribuita superiorità morale ed epistemologica è stato possibile dar vita ad una serie di provvedimenti di natura giuridica che, in altri contesti e in tempi non sospetti, sarebbero stati bollati come proposte irricevibili. Questo tipo di atteggiamento, condensatosi soprattutto nel ricorso piuttosto spregiudicato al mezzo del decreto-legge, ha portato in Italia anche a diverse contestazioni da parte di tribunali regionali: annullate le sanzioni previste dai DPCM, accresciuta la convinzione che ci si sia mossi in un clima di totale anarchia giuridica (su questo, non manca di centrare il punto in particolare il saggio di Daniele Velo Dalbrenta). Sempre restando in ambito giuridico, il contributo di Aldo Rocco Vitale ha toccato con competenza e sobrietà il delicato tema delle vaccinazioni, evitando di cadere nell’imboscata di sconfinare dal proprio ambito di competenza: messe in rilievo le criticità dal punto di vista biogiuridico e biopolitico, non resta che osservare in estrema sintesi come una campagna vaccinale tanto sconclusionata e incoerente a livello giuridico non sarebbe mai stata possibile in un contesto dove sofferenza, ansia e debolezza psicologica non avessero recitato un ruolo tanto ingombrante tra la popolazione.
Ad un’attenta valutazione di ciò che è stato, nel migliore dei casi ci si può limitare a considerare questa emergenza come un’occasione persa da parte della politica per dimostrarsi «pratica esperta» (Festa), cioè capace di apprendere e ascoltare opinioni qualificate senza dimenticare che il politico come dimensione specificamente antropologica non è riducibile a nessuna delle sue sottodeterminazioni. In breve: si è persa un’occasione per mostrarsi in grado di gestire emergenze senza abdicare al ruolo di esseri umani. Ciò che è emerso in questo frangente, è la deprimente evidenza del fatto che la politica in quanto attività precipua dell’essere umano rappresenta un lusso (e, nei fatti, una concessione da parte di chi di volta in volta detiene il potere operativo) che non sempre è lecito permettersi. Bisogna allora sottolineare, in conclusione, l’opportunità e la rilevanza di una riflessione come quella proposta da Riccardo Manzotti. Se la comunità scientifico-filosofica che indaga la categoria del mentale nega recisamente ogni evidenza di riducibilità della categoria di persona a quella di corpo (o di alcune sue determinazioni, come il cervello), non si vede come singole scienze come la medicina o la fisica possano disvelarci il significato ultimo e profondo della vita umana, del vivere associato, dell’essere-persona. Difendere il politico come dimensione di significati, difendere la democrazia come traguardo di civiltà, comporta impegnarsi ad evitare che il valido contributo portato dalle singole scienze si trasformi in totalità onnicomprensiva delle istanze di una o due di esse, elette dal potere di turno a portatrici di verità assolute per mere questioni di utilità. Solo considerando queste cose sarà possibile far fronte all’incipiente crisi di fiducia che sta investendo (e investirà sempre più) le istituzioni e recuperare una dimensione di senso di fronte all’ormai prossima automatizzazione del comportamento sociale: mai come oggi le sfide del futuro ricordano all’essere umano che la salute non è sinonimo di salvezza.
In questo senso, vale la pena formulare un pensiero che raccolga in sintesi l’andamento della storia per come essa va dispiegandosi in questi ultimissimi tempi, sotto i nostri occhi. In qualche modo, abbiamo assistito al compimento delle logiche immanentistiche tipiche della modernità, dove alla sostituzione dei fini trascendenti con traguardi storici (si pensi alla tensione teleologica caratteristica della stagione delle grandi ideologie politico-totalitarie) non poteva che far seguito la venerazione della vita presente come fine escatologico. In quest’ottica, ciò che si è, o ciò che si sente di essere nel momento presente riassume ogni massimo valore desiderabile: nessun altro orizzonte è aperto, dunque si rende necessaria una nuova mitopoiesi dell’esistente. Basti notare una contraddizione decisiva: una società votata al più spinto liberalismo soggettivistico nel tentativo di valorizzare l’esistente nel proprio farsi totalmente autoreferenziale ha prodotto, proprio per proteggere quella nuda vita che è condizione necessaria perché ogni soggetto possa esplicare le potenzialità dell’io non più confinato in alcun ordinamento trascendente, le soluzioni politico-sociali più autoritarie dell’ultimo mezzo secolo. Questo non deve stupire: se la soggettività è legge a sé stessa, allorché il suo fondamento biologico viene messo in crisi esso deve essere protetto ad ogni costo. Ciò non sarebbe mai accaduto in un contesto altro, in cui il fine ultimo della vita umana non si esauriva nella vita umana stessa. Resta perciò da domandarsi: se il tragitto della modernità va verso una paradossale antinomia, quella tra l’iper-realismo riduzionista della nuda vita e l’iper-soggettivismo dell’io creatore del sé (gender studies, post-colonial studies), che cosa ne sarà della libertà intellettuale, e ancor prima umana, chiusa come si prospetta fra le due tirannidi del capriccio e del Leviatano?