OGGETTO: La guerra è un gioco
DATA: 01 Gennaio 2021
SEZIONE: Pangea
Nel 1965 Guy Debord, il filosofo della società dello spettacolo, s’inventa “Le Jeu de la Guerre”, il gioco che riproduce tutti i conflitti possibili. Per risolverli
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Bisogna partire dalla fine – e il fine, nel gioco, è sempre la morte, l’accerchiamento dell’avversario, lo sterminio. Alice Becker-Ho scrive: “Nel 1991, per decisione di Guy Debord, Il Gioco della Guerra è mandato al macero con tutti gli altri suoi libri pubblicati”. Naturale che lo scrittore, il pensatore, desideri eleminare l’opera per esaltarne il valore – si ingoia l’ostia per far rivivere il Risorto. Piuttosto, è debordante la distanza tra il libro e il pubblicare: lo scrittore, annientandosi, vuole annientare il proprio pubblico. Chi vince sulla scacchiera della vita?

Come si sa, Guy Debord, ideologo situazionista, è l’autore de La società dello spettacolo (1967); nel 1994 si ammazza. Così Fabio Gambaro su Repubblica: “All’età di sessantadue anni, Guy Debord, scrittore e cineasta, nonché fondatore dell’Internazionale Situazionista, si è tolto la vita nella casa di campagna nel centro della Francia, dove si era ritirato da qualche anno. Personaggio controverso e discusso, egli era stato un critico precoce e spietato dell’evoluzione del capitalismo moderno, da lui considerato un ‘sistema generale d’illusioni’, in cui vero e falso si confondono di continuo. Non a caso le sue riflessioni sulla società dei consumi, sui media e sul bisogno di sovversione radicale del sistema alimentarono il retroterra teorico e artistico del maggio francese e della contestazione studentesca”.

Geniale analista dell’oggi, del contemporaneo, Guy Debord fu ideatore di giochi. Il gioco indiscutibilmente ha il pregio di riassumere il mondo e l’uomo in una tavola, orientata da certe regole. Nel gioco è certa la vittoria del genio, ma anche quella di chi riesce a risolvere la tensione in una specie di fredda audacia.Per certi versi il gioco – che fa leva sull’esigenza più profonda e indicibile dell’uomo: eliminare il prossimo suo, sopravvivergli, dominarlo – è l’anima dell’uomo.

Nel 1965 Debord deposita un brevetto per un “Jeu de la guerre”; nel 1977, insieme all’editore Gérard Lebovici, fonda una società dedicata ai giochi storici e di strategia, a cui s’intende dare dignità bibliografica. Nel frattempo, fa realizzare alcuni ‘pezzi’ del suo gioco. Il gioco ideato da Debord si basa sulle teorie di guerra di von Clausewitz, tuttavia con Lebovici il pensatore anomalo ama disseppellire manuali di strategia militare, pubblicati e proposti in “Champ Libre” (Antoine de Jomini, Charles Ardant du Picq, William F. P. Napier, Michel Barclay de Tolly). Gli eserciti avversari si sviluppano secondo i contingenti ottocenteschi – pare di essere sul set de I duellanti. Per Debord la realizzazione del gioco ha qualcosa di sacro: riguarda imprevedibilità (“Le operazioni, dunque, per quanto spesso si vogliano riprendere da un qualsiasi punto, rimangono imprevedibili sia nelle modalità che nei risultati”) e solitudine (“Ho redatto in solitudine le osservazioni che seguono”). In effetti, il gioco tende a imbrigliare il caos, ma evoca il caso. Debord ama la strategia e Lautréamont, von Clausewitz e Arthur Cravan.

Il libro Le Jeu de la Guerre viene pubblicato per Lebovici nel 1987. Eppure, Lebovici, l’editore degli estremisti – aveva una passione per Jacques Mesrine, di cui riedita L’Instinct de mort – viene ammazzato, misteriosamente, il 5 marzo 1984. Il gioco della vita è più cruento di quello della guerra. Guy Debord pubblica l’anno dopo le Considérations sur l’assassinat de Gérard Lebovici, scrivendo, tra l’altro: “Lebovici ha pubblicato molti più libri classici che sovversivi contemporanei, ma in un momento di decadenza e di ignoranza programmate, in cui si comprende meno della rivoluzione che monta che della società che si eclissa, la stessa pubblicazione dei classici è apparsa come un atto sovversivo”. Nel 2006 l’editore Gallimard pubblica la versione definitiva de Le Jeu de la Guerre ed è su quella che si basa la magnifica edizione di Giometti & Antonello, Il Gioco della Guerra (2019), che è di fatto un libro ‘da giocare’: all’interno ci sono le tessere di soldati, cavalieri, cannoni; la copertina si stacca, si spalanca, ed è la plancia di combattimento, il terreno di lotta.

Il gioco è quindi una disciplina: “si può affermare che il Gioco della Guerra riproduce esattamente la totalità dei fattori operanti in guerra e, più in generale, la dialettica di tutti i conflitti” (Debord). Una vita spesa interamente nell’ambito del gioco strategico, è la vita spesa meglio. In una pagina che segnala le “Differenze fra il sistema degli scacchi e il Gioco della Guerra”, Debord scrive: “In realtà, ho voluto imitare il poker. Non il caso, ma lo scontro violentissimo nel poker”.

Rileggo ciclicamente Il maestro di go, di Yasunari Kawabata. È un libro bellissimo, centrato sull’ultima partita di go del “maestro Shusai”, venerabile sapiente nell’arte del gioco, pressoché santo. Il romanzo inizia con la morte del maestro – perché ogni gioco ha in sé il carattere dell’assoluto, del non replicabile, del definitivo – e si svolge in un rigoroso flash back. Il maestro venerato, infatti, muore al termine della sua ultima partita – realmente giocata, nell’arco di diversi giorni, e seguita come cronachista da Kawabata. Contro il maestro, un giovane eroe del go, autore di un gioco nervoso, rapace, violento. Se il maestro Shusai, giocando, crea un’opera d’arte disponendo le tessere – esiste una estetica nella lotta – il suo avversario mira all’utile, alla mera vittoria. Ma il gioco, nel suo aspetto più sublime, dice Kawabata, non c’entra del tutto con la vittoria: si realizza, piuttosto, nel gesto, esprime la fragilità di una istantanea bellezza, perciò indimenticabile.

Il go è il gioco di strategia più antico al mondo: si dice sia nato in Cina 2300 anni prima di Cristo, di certo se ne scrive nel V secolo a. C. A differenza degli scacchi, il gioco del go prevede l’accerchiamento e l’eleganza nell’uccidere – o nel limitare l’azione per soffocamento. Negli scacchi le statue imitano i personaggi in campo: nel go esistono soltanto delle tessere, bianche e nere, tutte uguali, così che sulla tavola, in effetti, si compone una sorta di quadro. “Il go è quell’arte che sviluppa il controllo e il dominio dei rapporti di forze sempre soggette a mutamento: è l’arte della connessione discontinua, della dispersione concentrata, del controaccerchiamento accerchiate, della flessibilità inflessibile. In una parola, è l’arte che presiede a quel solo Grande Gioco che in un medesimo istante e con un medesimo movimento unisce e separa libertà e vincolo” (Raffaele Rinaldi).

Il gioco ossessiona il giocatore insinuandosi nei suoi sogni, nei recessi indicibili. Quando il gioco diventa la vita del giocatore, la sua ragione di vita, quando il gioco sostituisce la realtà, il gioco vince.

Il maestro aveva disputato la partita come accingendosi alla creazione di un capolavoro. Un dipinto, perfetto, imbrattato d’inchiostro proprio nel momento di massima tensione creativa. Il sovrapporsi dei bianchi e dei neri rispecchiava intenti e modi della creazione artistica, in un fluore melodioso dell’animo come nella musica. E bastava una sola nota fuori posto, o un’improvvisazione eccentrica del secondo elemento del duetto, a guastare l’armonia. Errori e cadute di stile dell’avversario sancivano la distruzione della partita come opera d’arte.

Yasunari Kawabata

In questa visione, l’avversario – anche quando muore – è necessario: non deve rispondere, ma corrispondere alla chiamata dell’altro. Il gioco, così, si eleva a danza.

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