OGGETTO: La guerra d’Etiopia
DATA: 05 Dicembre 2020
SEZIONE: inEvidenza
Cosa sta succedendo davvero nella regione del Tigray? La guerra è vinta, dice Abiy Ahmed, primo ministro etiope e Nobel per la pace. Ora inizia la guerriglia, tra le foreste e le montagne del Nord…
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La guerra del governo etiope contro la popolazione che abita la regione del Tigray è durata 24 giorni, in novembre, e sebbene l’esercito federale l’abbia vinta, il conflitto rimane aperto. La presa di Macallè, capitale della regione ribelle, ha posto una fine apparente, sabato scorso, allo scontro. Quel giorno, il primo ministro del paese, Abiy Ahmed, ha annunciato la fine delle ostilità. Quello che non ha detto in televisione è che il suo avversario, il leader del Tigray, Debretsion Gebremichael, e la giunta del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF), sono fuggiti, rompendo l’assedio militare.

Il fronte si trova a 800 chilometri a nord di Addis Abeba, ma la capitale etiope sta vivendo una situazione che preoccupa, nonostante la distanza. C’è la paura di un attacco dei guerriglieri e di rappresaglie contro la popolazione Tigray che vive in città. Nel tardo pomeriggio, i furgoni della polizia attraversano le rotonde degli ampi viali e controllano le automobili, una ad una. Prestano particolare attenzione ai taxi e ai veicoli Riders, la compagnia di trasporto privato più importante del Paese. Perquisiscono passeggeri, bagagliaio, i sedili, il cruscotto. L’ossessione del governo: garantire la sicurezza.

Intanto, le migliaia di cittadini di etnia tigrayana della capitale sanno di essere sotto bersaglio. Accadono perquisizioni selettive, arresti, come denunciano alcune organizzazioni umanitarie, e persecuzioni difficili da individuare. Lo racconta una commessa di 26 anni, lavora in un negozio di abbigliamento nel quartiere centrale di Bole. Non vuole che sia registrato il suo nome. “Se vieni dal Tigray, non ti senti sicura, non sei la benvenuta. Sono pieni di odio contro di noi. Ci è impedito parlare la nostra lingua liberamente”. Il capo entra in negozio, l’intervista è terminata. “Voglio solo vivere una vita normale, ma i miei amici sanno che vengo dal Tigray, mi accusano di sostenere la guerriglia”, mi dice, più tardi, al telefono. Ha paura di perdere il lavoro.

La comunità del Tigray rappresenta solo il 6% della popolazione etiope (su circa 110 milioni di abitanti), ma il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray ha dominato per decenni la federazione dei partiti multietnici. Fino a che non è salito al potere, nel 2018, Abiy Ahmed, di etnia Oromo, con l’intento di superare le divisioni. La distanza tra le parti ha preso la forma di un conflitto quando il governo ha accusato il TPLF di armare le milizie e di aver attaccato una base militare. Le forze nazionali hanno aperto un conflitto di cui non sappiamo il numero ufficiale di vittime: ha causato, però, la fuga di migliaia di persone nelle regioni vicine e in Sudan, e l’accusa secondo cui alcuni gruppi vicini al TPLF avrebbero ucciso a colpi di machete 600 civili di etnia Amhara nella località di Mai Kadra.

Con il conflitto, il Tigray è stretto tra l’esercito federale e le milizie dei gruppi etnici Amhara e Afar, degli stati vicini. Un generale a quattro stelle (55 anni) epurato dall’esercito di Ahmed spiega dalla capitale che non può contattare il figlio, imprigionato a Macallè. “Ci ha chiamato da un telefono dell’Unicef pochi giorni dopo lo scoppio della guerra. I contatti, da allora, si sono interrotti. Ha detto che stava bene. Ma sono passate troppe settimane, non sappiamo niente”. Come altri, non vuole dirmi il suo nome. Quando gli chiedo da che parte avrebbe voluto combattere, alza le spalle, “Non è più la mia guerra, questa”.

Altri sono riusciti a lasciare la regione con grande difficoltà. David Unzueta, 36 anni, è stato sorpreso dalla guerra a Macallè. Lavora per una fondazione basca, Etiopia Utopia, ben radicata nel Tigray dal 2009. “Il primo giorno hanno tolto Internet. Neanche i telefoni funzionavano. Ho capito subito che era una cosa seria perché eravamo del tutto isolati. La vita quotidiana era apparentemente normale. Caffè e negozi erano aperti, ma il carburante si stava esaurendo e i generatori di elettricità iniziavano a spegnersi. La cosa più preoccupante, almeno per me, è che le banche hanno chiuso, prive di denaro”. Parla al telefono, da San Sebastián. “Dieci giorni dopo lo scoppio della guerra, ci siamo riuniti in cinque, abbiamo affittato un furgone con un autista locale. Ci ha salvato la vita, perché abbiamo dovuto valicare una ventina di posti di blocco militari prima di giungere ad Addis Abeba. Ci hanno lasciato andare perché eravamo bianchi ed europei, ne sono convinto. C’erano viaggiatori neri, con passaporto straniero, che sono stati respinti. Ho visto persone piangere disperate. Dalla capitale, mi sono imbarcato, in aereo, per la Spagna”…

I miliziani del TPLF sono in trincea, si stanno riarmando per lanciare un’offensiva dalle montagne. Ma sanno di non avere scampo, guadagnano tempo prima della sconfitta finale. Da quando il Tigray ha fatto la rivoluzione sono passati trent’anni. Questi sono i cuccioli di quei rivoluzionari, ma mancano di un adatto addestramento militare

La popolazione del Tigray ha dato vita a una delle rivoluzioni africane più sorprendenti del secolo scorso. Nel 1991 i guerriglieri del nord hanno preso Addis Abeba e rovesciato il regime comunista di Mènghistu. Hanno preso il potere, coltivando il sogno di un grande Tigray, che includesse la vicina Eritrea, dove metà della popolazione è della stessa etnia. Per quasi trent’anni il denaro statale ha finanziato il TPLF e modernizzato la regione: la capitale, Macallè, ha tre università, dispone di moderne infrastrutture e di un collegamento ferroviario con la capitale del paese.

“I miliziani del TPLF sono in trincea, si stanno riarmando per lanciare un’offensiva dalle montagne. Ma sanno di non avere scampo, guadagnano tempo prima della sconfitta finale. Da quando il Tigray ha fatto la rivoluzione sono passati trent’anni. Questi sono i cuccioli di quei rivoluzionari, ma mancano di un adatto addestramento militare”, mi dice Getachew Eyob, microbiologo di 55 anni, attivista in diverse organizzazioni civili. Durante i 24 giorni del conflitto, tutte le più importanti città del Tigray, compresa Macallè, sono cadute, una dopo l’altra. Ma il centro della regione, con un sistema montuoso di picchi alti oltre 4mila metri, resta sotto controllo Tigray. Il conflitto rischiava di estendersi, ma la vicina Eritrea, con cui Ahmed ha risolto un conflitto ventennale che gli è valso il Nobel per la pace, ha mantenuto un ruolo ambiguo: non ha sostenuto ufficialmente Addis Abeba ma non accoglie le provocazioni di Tigray.

In assenza di altre notizie attendibili, l’immagine del premier si è fortificata. Fonti diplomatiche di Addis Abeba interpretano il “golpe contro il Nord” come un monito a futuri rivoluzionari. Abiy Ahmed ha insistito sul fatto che la guerra è terminata. Ma sa che il leader del Tigray è in fuga. Alcune fonti lo collocano alla periferia di Macallè. Nel frattempo, nella capitale del Paese festeggiano la fine della guerra – e si preparano a quella che può essere una lunga guerriglia, a Nord.

Xaquin López

*Questo articolo è pubblicato su “El País”; photo Eduardo Soteras

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