OGGETTO: È ancora l'epoca delle grandi narrazioni?
DATA: 08 Agosto 2020
SEZIONE: inEvidenza
Lo storytelling come visione del mondo antico e contemporaneo.
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Scrive Alan Moore, uno dei più grandi narratori degli ultimi cinquant’anni dell’arte grafica mondiale, in uno dei suoi capolavori, “V Per Vendetta”: “Gli artisti usano bugie per dire la verità. Sì, ho creato una bugia. Ma proprio perché tu ci hai creduto, hai trovato qualcosa di vero su te stesso”. Eccolo qui. Il caro e vecchio incontro tra racconto della verità e della bugia. L’arricchimento e la scoperta di sé, degli altri, del mondo. Il bisogno di sentirsi parte di un’avventura, di una storia, di consumare – o solo esperire – qualcosa. La questione, arricchita dei suoi aspetti ancora più ampi e divenuta vera e propria weltanschauung, appare come centrale in un discorso che vuole cercare di arrivare a determinare cosa possa significare, oggi, lo storytelling. Almeno nella misura di quanto esso possa ancora fungere da spiegazione e cognizione del mondo e di sé, e non solo declinandolo nei termini ormai espressamente affabulatori con cui oggi lo si contrassegna facilmente, sia come come meccanismo orientato al marketing, sia esso di carattere politico o meramente oratorio-retorico di “comunicazione efficace”.

In molti, nel corso del secolo precedente e di quello presente, sono stati coloro che si sono interrogati sul senso che la narrazione di storie, miti e fatti in generale possa significare all’interno di questo discorso, così protrattosi e divenuto oggi quello che rientra facilmente dentro tali nominazioni. Per Alessandro Baricco, per citare un autore che in Italia ha ancora un certo peso specifico, anche in – ahinoi – termini pedagogici (pur con tutti i se e i ma del caso), la concezione valoriale positiva dello storytelling, come vero e proprio portatore di valore si associa ad un tipo di pensiero che ritorna a guardare all’epica classica, al romanzo storico, al motivo encomiastico e celebrativo che un artista e narratore faceva della sua corte, della sua epoca, della sua visione del mondo. Trasmissione di valori, dunque, attraverso la forma del mito. Anche Christian Salmon – uno degli autori più convincenti in questo settore – parte naturalmente dall’assetto genealogico del racconto di storie, proprio come “strumento di condivisione dei valori sociali”, “nato quasi in contemporanea con la comparsa dell’uomo sulla terra”, ma la sua visione acquista poi tinte fosche quando marketing e strategie capitaliste ne hanno inquinato l’assetto valoriale in favore di una costruzione e trasmissione di idee più strategicamente orientate ai consumi e a vantaggi. Già. quelli costruiti a tavolino. O nelle business call, nei briefing o in qualche altra terminazione rigorosamente anglofona.

Ulteriormente criticata – ma permettendo sempre ad essa di restare legata al passato e alla Storia – la questione del racconto di storie attraverso la comunicazione (come scrive anche l’autodefinitosi “guru dello storytelling” Andrea Fontana), aperta molto più strategicamente alle imprese e ai valori delle imprese, si affaccia a quel motivo propagandistico che ha fatto della narrazione aziendale stessa, ma anche politica (e storica) un aspetto importante di una visione del mondo, della verità e delle cose del tutto orientata ad un’ottica specifica, proprio nella misura di supermedium, capace di trascendere tutti gli altri. Un po’ come -si potrebbe dunque addurre, proseguendo la linea di continuità col passato- se la nascita di Roma fosse stata voluta dagli Dei, ecco. Un po’ come se l’amore tra Ruggero e Bradamante fosse l’antesignano patrono della grande dinastia degli Este e della grande Arte italiana. Un po’ come se attraverso i canti carnacialeschi del Magnifico l’Umanesimo italiano potesse essere visto come il grande periodo di ballo, festa e vitalità iscritto in quelle ottave. Un po’ come se potesse essere prevedibile, o almeno chiaramente riscontrabile epistemologicamente. 

Naturalmente è stato narrato così, poiché il mito è sempre stato, sia in Platone che nel Cristianesimo, nell’economia feudale e nella tensione Romantica, portatore di visione del mondo fondante. E non sembra un gran mistero che è così anche nel Neoliberismo capitalista, nella condivisione ossessiva dell’e-democracy, nei talent show e in tutta una società spettacolare come quella odierna. Certo. L‘American Dream, il successo, la fama su Variety o su Instagram. Ma in cosa è cambiata questa progressione? Se mai la situazione sia effettivamente cambiata, dopotutto. Criticarne solamente la terminazione contemporanea potrebbe voler dire non averne capito l’assetto principale. Numerosi sono infatti i casi interessanti che emergono negli ultimissimi anni nella saggistica più funzionante e ben oleata, emblematicamente rappresentati da “The End Of Storytelling: The future of narrative in the storyplex” di Stephanie Riggs (2019), in cui si porta avanti la massima di McLuhan, divenuta ancora più massima, per la quale il medium è ben più che il messaggio che trans-porta, e il nuovo lavoro di Salmon (2020), intitolato “L’ère du clash” (tradotto in italiano con “Fake. Come la politica mondiale ha divorato se stessa”), che perfettamente prosegue la definizione di narrativa sorpassata perché sempre meno duttile all’universo algoritmico e algocratico (esatto, la dittatura dell’algoritmo). 

Ogni due giorni viene creata la stessa quantità di informazioni prodotta dagli albori della civiltà fino al 2003.

Eric Shmidt

All’interno di un proseguimento di un percorso critico e riflessivo sulla narrazione che le epoche si sono fatte di loro non si possono però non citare i grandi critici, filosofi e sociologi che hanno insistito -ora si potrebbe dire profeticamente- sulla concezione di cosa sia la cognizione della realtà, se non vera e propria narrazione di fatti. È infatti con Debord, Baudrillard, Foucault e Lyotard che la società divenuta tardo-novecentesca riflette i suoi lati più falsi, illusori e distorti. Spettacolarizzati, naturalmente, per cercare di inserirsi nel mondo della comunicazione omnicomprensiva. Quella del “discorso narrativo”, espressione e manifestazione propria del “pensiero narrativo”. Quella che probabilmente esplica il perché il metadato, radice dell’informazione, rende -o comunque potrebbe rendere- lo storytelling -quello che abbiamo inquadrato in termini tradizionali- sorpassato. Si possono tranquillamente citare i numerosi discorsi di Eric Schmidt, presidente della società madre di Google. Cinque miliardi di miliardi di byte (exabyte) sono la misura della quantità di informazione linguistica -metadatata e digitalizzata- prodotta dall’umanità dall’origine al 2003; nel 2011 veniva prodotta la stessa cifra ogni due giorni e nel 2013 ogni tre ore circa. Quale storytelling, dunque, associare a questa mole di dati? Quale percorso? 

Michel Foucault

Non sembrerà dunque particolarmente dubbio il fatto che la conoscenza data dall’informazione è oggi disponibile per le più di cinque miliardi di persone che hanno accesso al web, e di come questo modifichi fortemente le modalità di apprendimento e il livello di conoscenza a cui può accedere ogni individuo. Certamente il povero – solo come eufemismo di rito – Schmidt, pur considerando – ormai non si sa quanto superficialmente – la tecnologia come “neutrale”, ammette sicuramente che le persone non sono di certo pronte a sostenere una tale mole di dati. Senz’altro, in questa eruzione di exabyte e senza un’opportuna educazione appropriata o particolare capacità critica (se mai sia possibile, a questo punto) sarà molto difficile, in futuro, scindere “I Promessi Sposi” dallo stream di un tizio che infiamma con un accendino le sue flatulenze mentre gioca all’ennesima prosecuzione della saga di GTA. Beh, ci si perdoni l’esagerazione predittiva, ma con gli angoli e i paragoni smussati -anche di poco- sembra già cosa probabile. Come simpaticamente suggeriva Bill Gates la cosa più bella di un computer portatile e che, per quanta roba tu ci possa mettere dentro, non diventa più grande o più pesante. Lui no di certo. Ma noi come sosteniamo questo nuovo peso?

“La fine dei grand recits“, delle grandi narrazioni, diceva Lyotard nel 1979, ne La condition Postmoderne, il cui sottotitolo recitava il sintomatico titolo Rapport sur le savoir. Il sapere diveniva la cognizione della fine delle narrazioni che la società aveva fatto di sé, proseguendo una grande e definitiva “morte di Dio” nietzschiana, avvenuta nelle pagine dello scrittore, altrettanto sintomaticamente, in un mercato, davanti a uomini increduli e sbeffeggianti l’accaduto. Uomini dediti all’acquisto, alla condivisione di pensieri, critiche, commenti ed euristicamente volti ad interessi specifici. Sarebbe stato molto interessante se Bourdieu avesse fatto una distinzione dei consumi di quel mercato e di quanto ognuno avesse potuto pensare delle parole profetiche del viandante. Quanto cioè il “capitale umano” e quello “culturale” potessero essere rispondenti a questa profezia nietzschiana.

La cosa triste, a proposito dell’intelligenza artificiale, è che le manca l’artificio e quindi l’intelligenza.

Jean Baudrillard

Jean-François Lyotard

Si arriva dunque ad un punto importante, dal quale si è probabilmente iniziato a prendere le mosse e sul quale possiamo anche concludere questa breve disamina. Post-moderno si affilia facilmente a post-verità, a disamina critica e conseguente impossibilità di vera e propria condivisione univoca di una versione della storia. Di una sua verità. O di una sua bugia. Però la modalità -quella sì- non è di certo impossibile da definire. Parallelamente alla scoperta, per rimanere con Salmon, delle strutture fredde e oculate dello storytelling informativo, economico e politico, nell’ultimo Novecento i grandi narratori (non a caso definiti da alcuni post-moderni) come Roth, De Lillo, Vonnegut e molti altri mettono sul campo un grande disagio cognitivo nei confronti della narrazione che mondo e persone fanno di sé. Una grande lotta nei confronti del format, dello schema narrativo consolidato, apparso ormai come statuto per la comunicazione specifica di un messaggio, non più necessariamente valoriale, fissatosi come un refrain ossessivo e familiare. Come scriveva Eco, ancora una volta antesignano di un pensiero lucido e consapevole di un mondo di apocalittici e integrati: “una canzone ha successo per la sua capacità di fissarsi nella memoria producendo un riflesso incondizionato”. Riflesso incondizionato che diviene in ogni caso produzione di senso, che resta e rimane come “impalcatura per lo spettacolo”, per il simulacro che diviene esso stesso il mondo che si pensa esser vero. 

Analogia e virtualità dunque avvicinano sempre di più i loro bordi, così come verità e bugia, così come critica e distaccata incredulità nei confronti dei grand recits. Come in una grande prigione panottica foucaultiana il singolo diviene moltitudine e gli occhi dei guardiani sono gli stessi occhi di quel singolo e di quella moltitudine. Anche quella stessa moltitudine che leggeva libri di Roth e ora guarda True Detective, conscia che le cose non sono poi molto diverse, e che alcune narrazioni siano più vere del vero, ma la maggior parte si integra, comunque e pian piano, a quel principio ormai ineluttabile della “rana bollita” di chomskiana memoria. L’uomo è letteralmente schiacciato da questo narrare (con la formula refrain di Eco) che però sembra divenuto solo (meta)dato di narrazione, accettando passivamente il degrado, le vessazioni, la scomparsa dei valori e dell’etica che derivano da questo continuo subire, passivamente, senza mai reagire. Senza più essere in grado di gestire tale peso, tale quantità, tale mole di informazioni. Quello stesso calore che prima la rana nella pentola vedeva come tepore e -prima o poi- diventerà torpore.

Un racconto, almeno nella sua forma tradizione, deve avere un inizio, un corpo e un finale -anche se oggi destinato ad essere riutilizzato in termini di sequel, prequel, reboot- e altro, ma per i ritmi dell’algoritmo ciò è poco funzionante, se non in termini di metadato e tag per esigenze marketing e fruizione; da parte dell’uomo consumatore, d’altro canto, il tempo necessario per essere seguito, assimilato e compreso supera di certo la soglia del nostro “volere subito”, immediatamente, a portata di click, della nostra abitudine all’essere nutriti e bombardati da questa colata di dati, ma soprattutto il narratore non è più né credibile né tantomeno necessario. E proprio nel senso stesso della bugia e dello smascheramento di struttura e doppio gioco di fondo, che si scopre, come sotto la maschera di Guy Fawkes, il rivoluzionario anarchico di “V Per Vendetta” (assurto oggi a maschera anonyma), l’idea che ci si può fare della fruizione e cognizione del narrare e del narrarsi di noi e della nostra società. E lo storytelling diviene probabilmente – o si dovrebbe dire- permane, come l’unica produzione di senso con cui fare i conti attivamente, criticamente, ancora umanamente. Prima, almeno, che il narratore, avente tutte le informazioni, diventi, oltre che bugiardo, anche totalmente d’etere, byte e silicio. 

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Tutti Mitomani

Si dicono giornalisti ma sembrano influencer. Auto-referenziali, egocentrici, mettono sempre se stessi al centro di ogni narrazione. Parlano di tutto ma non sono esperti di niente. Poca credibilità e molti like. Sono i professionisti della mitomania. Ne abbiamo parlato con chi si spende quotidianamente nel "debunking" di questo fenomeno.

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