OGGETTO: L’Anti-Gesuita
DATA: 23 Febbraio 2021
Per capire perché siamo nel Secolo Gesuita bisogna leggere gli “Esercizi spirituali”, manuale di milizia spirituale. Più affascinante di Ignazio di Loyola, però, è Giovanni della Croce, paladino della via contemplativa e della notte oscura
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Non portare un gesuita a Santarcangelo. Amena località romagnola, l’eden dei poeti – vi sono nati Tonino Guerra, Nino Pedretti e Raffaello Baldini – e degli artisti estrosi – è la patria di Guido Cagnacci –, Santarcangelo vive sotto l’egida di papa Clemente XIV. L’ingresso del paese è scandito da un arco monumentale con le insegne papali; la piazza centrale, oceanica, è a lui intitolata, a Lorenzo Ganganelli, salito al trono vaticano il 19 maggio del 1769 come papa numero 249. Il papato di Ganganelli, cioè Clemente XIV, dura poco, un lustro, ma è funestato da uno degli eventi ‘politici’ più clamorosi del Settecento. Francescano, proibì l’evirazione dei probi cantori del coro (così si ottenevano le ‘voci bianche’), ma evirò l’ordine dei Gesuiti. La lettera apostolica con cui l’ordine viene soppresso, la Dominus ac Redemptor del 21 luglio 1773, tradisce un certo tentennamento: i Gesuiti sono cancellati ma non disintegrati. Milizia efficacissima, la Compagnia di Gesù aveva fatto ingresso in tutte le corti, dilagando tra le faglie degli imperi coloniali. I suoi servigi – a dire dei re – si erano voltati in tracotanza, provocazione, sopraffazione. I Gesuiti, insomma, si erano fatti largo tra le stanze dei potenti, fino a vincerli: il sussurro era divenuto sibilo, l’umiltà orgoglio, la compassione il dominio delle anime e il sortilegio della psiche. I Gesuiti erano i latifondisti dello spirito. “Ogni giorno risuonarono più alti i clamori e le lagnanze, e insorsero pericolosissime sedizioni, tumulti, discordie e scandali che, rilassando il vincolo della cristiana carità, e quasi rompendolo, fortemente infiammarono gli animi dei fedeli alle passioni dei partiti, agli odi, alle inimicizie”, così scrive papa Ganganelli. Il papa, si dice, s’inchinò alle richieste dei reali; la Compagnia di Gesù visse in uno stato di smarrimento per alcuni decenni, finché, nel 1814, papa Pio VII – un altro romagnolo, di Cesena, benedettino – non ricostituì l’Ordine con la Sollicitudo omnium Ecclesiarum

Se è vero che questo, come è stato detto, è il “Secolo gesuita”, per capirlo bisogna risalire, per lo meno, al secolo in cui i Gesuiti sono nati, il XVI, grazie al genio spirituale e militare di Ignazio di Loyola. Figlio di nobili – il padre era un cavaliere decorato da Ferdinando il Cattolico – Ignazio, stratega dello spirito, conquista Paolo III per capacità organizzativa, disciplina, severità. La Compagnia di Gesù è la conversione cattolica della compagnia di ventura, una banda di soldati guidati dal condottiero che al posto di un obbiettivo temporaneo ed effimero – un’avventura – ha uno scopo totale, spirituale, eterno. Gli Esercizi di Ignazio sono la “Via della Spada” della cattolicità, tra il samurai e il Gesuita vi sono affinità nel ‘metodo’;  giocando con gli astrali del fato bisognerebbe commisurare la disciplina di Ignazio con l’Hagakure e il Libro dei cinque anelli. In ogni caso, è nella Spagna di quel secolo che si diramano, in forma sublime ed estrema, due modi di vivere la fede – pur con la stessa vertigine – e due strategie per sprofondare in Dio.

Due anni dopo l’approvazione definitiva della Compagnia – tramite la bolla Regimini militantis Ecclesiae del 1540 – nasce Giovanni della Croce, non diverso per determinazione da Ignazio, il suo opposto per indole. Giovanni della Croce, a differenza di Ignazio, non è un condottiero ma un “dottore mistico”; entra nel Carmelo e aiuta Teresa d’Avila a riformare la regola dell’ordine, eppure la sua via è la privazione, la prigione – dove è rinchiuso e frantumato dalla tortura, nel 1577 –, l’insussistenza, la precarietà, l’imperfezione e l’incompiuto. Ignazio vive alla luce del tempo, nel mondo, mentre Giovanni perfeziona i confini della notte; Ignazio parla alle anime, Giovanni sprofonda nella propria anima; Ignazio impara la retorica, piega, Giovanni ambisce al silenzio. L’abito tradizionale dei carmelitani è la tunica grigia, quasi una nebbia sul corpo, in grazia di anonimato; quello dei Gesuiti è nero, corazza che splende per intensità ambigua, eppure il carisma è la dissimulazione, “il nostro modo di vestire è inusuale: non abbiamo una veste religiosa che ci identifica. A seconda delle circostanze, valutiamo come è più appropriato stare in mezzo alla gente. La nostra missione nasce dall’ascolto attento e discreto del contesto in cui viviamo per trovare dove e come lo Spirito sta agendo nella situazione contingente”.

In una recente biografia di Giovanni della Croce (Benché sia notte, Ares, 2018), Mario A. Iannaccone segna le distanze tra Ignazio e Giovanni, la via attiva e quella contemplativa alla fede. “Rispetto a quella di Ignazio di Loyola, la sua figura ci appare più antica, simile a quella dell’eremita… Ignazio e Teresa erano organizzatori nati e fundadores capaci di trattare con i potenti e di vivere, al contempo, un’intima vita mistica. Juan fu un mistico, un maestro spirituale e un poeta impegnato anche in un’indefessa opera di fondazioni di conventi per oltre 25 anni. Egli fu soprattutto un imitator Christi… Ignazio e Teresa ci hanno lasciato opere autobiografiche (e cospicui epistolari) mentre Juan no e nella sua opera non c’è spazio per l’autobiografia. Un’altra differenza importante sta nel fatto che Ignazio e Teresa, pur vivendo una vita povera, restavano a proprio agio anche con i potenti. Quando c’era da impugnare la penna per scrivere una lettera, financo a papi o imperatori, lo facevano. Tale sicurezza derivava anche dall’origine familiare: Ignazio apparteneva alla famiglia nobile dei Loyola ed era hidalgo, e così Teresa Ahumada (antica nobiltà) y Cepeda (cristianos nuevos nobilitati). Il caso di Juan è diverso: sebbene si dica che il padre appartenesse alla nobiltà toledana – questione storicamente aperta – egli visse sempre da povero, nella massa di braccianti e piccoli artigiani degli strati più bassi della società spagnola. Se conquistò un’eccellente istruzione lo dovette soltanto alla propria volontà e ingegno”.

Gli Esercizi spirituali e La notte oscura sono i libri più influenti e autorevoli della spiritualità moderna. Il primo è una sorta di palestra, di agonismo dello spirito, che in un tempo strutturato – quattro settimane – addestra il discepolo, perfeziona l’azione. L’atletismo spirituale è esaltato da Ignazio, da subito: “Così come il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi corporali, analogamente si chiamano esercizi spirituali i vari modi di preparare e disporre l’anima a rimuover da sé tutti gli affetti disordinati e, dopo rimossi, di cercare e trovare la volontà divina nella disposizione della propria vita per la salvezza dell’anima”. Gli Esercizi, in effetti, valgono come terapia per tutti: non è raro che ad appropriarsene siano uomini di mondo, alti imprenditori, governanti. Propongono, infatti, una ricetta spirituale concreta, avvincente, vincente. La notte oscura, al contrario, prevede l’anamnesi del proprio niente, più che la dedizione muscolare al proprio spirito; è una indagine tra la polvere, in cui il tempo è mutilato (“Passano di solito molti anni, durante i quali, usciti dalla condizione dei principianti, si esercita in quella dei progrediti”), e non ha utile, non è un manuale da utilizzare per migliorare l’efficienza del proprio stare nel mondo. Piuttosto, tramite la noche oscura si ascende alla deficienza, paladini di un esilio, raffinando l’anima nella fiamma:

“Il fuoco materiale, avvicinandosi al legno, dapprima comincia ad asciugarlo, facendogli trasudare l’umidità e piangere l’acqua che racchiude. Poi lo fa diventare nero, scuro e brutto, e persino maleodorante… e infine, allorché la fiamma comincia ad attaccarlo dall’esterno e a riscaldarlo, il legno prende a trasformarsi completamente e diventa bello come il fuoco stesso… In questo stesso modo dobbiamo filosofare sul divino fuoco d’amore della contemplazione il quale, prima di trasformare l’anima e unirla a sé, la purifica di tutti i suoi accidenti contrari; ne fa uscire tutte le brutture e la fa diventare nera e oscura, al punto che così sembra peggiore di prima, più brutta e più abominevole di quanto non fosse mai stata”.

Il lavoro di Giovanni della Croce è un lavacro, impegno nel fuoco che chiamiamo notte, la via negativa, equilibrismo sul nulla, a rischio di morte – dacché “amore è forte come morte”, come insegna il Cantico dei Cantici libro miliare per Giovanni. La purificazione dell’anima è opera alchemica: Giovanni stigmatizza le “imperfezioni dei principianti”, quelli che “sono mossi verso le pratiche e gli esercizi spirituali per il piacevole conforto che ne ricavano”, che storpiano la disciplina in superbia, la remissione in presunzione, il delirio in didattica. La notte va vissuta, dice Giovanni, cioè bisogna autenticamente perdersi in essa, vivere il deserto buio, la cortina del contraddittorio, dove ogni apparizione può essere divina o diabolica – incunearsi nella crisi, fino al punto da smarrire la fede, fracassati dal dubbio. Ignazio, piuttosto, lavora sulla superficie: deve creare soldati mica mistici, la profondità con i suoi clamorosi singulti – e l’estasi nello smarrimento – è bandita. “Dove la tradizione mistica tende alla ‘luce-in-tenebra’ del Nulla (del Nada) divino, in Ignazio è un continuo e pedantesco richiamo alla materialità: visiva, ma anche olfattiva, auditiva, tattile, gustativa; tal che, sotto certi aspetti, si potrebbe affermare che siano appunto i cinque sensi, forzati però a un proposito di ascesi, gli strenui protagonisti degli Esercizi”, scrive Giovanni Giudici, che per Mondadori, nel 1984, traduce gli Esercizi spirituali “come testo poetico”.

D’altronde, la scrittura di Ignazio è rigida, rigorosa, schematica, propria di un agrimensore di Dio; Giovanni, invece, è un poeta, e le sue poesie, ineffabili, sfuggono perfino alla propria interpretazione spirituale, rendono spurio il trattato, un vaneggio l’abbecedario dello spirito. La poesia è il falò: il mondo non va perfezionato con l’arte orafa dell’astuzia, la scaltrezza dei buoni di spirito, ma semplicemente incenerito. Con lo pseudonimo di Giusto Cabianca, nei Mistici dell’Occidente, la grande impresa antologica di Elémire Zolla, Cristina Campo ha tradotto alcuni versi di Giovanni della Croce. Il paradosso, la contraddizione, l’anatema tra i contrari sono il genio di Giovanni. Ecco alcuni distici da tatuarsi sull’osso frontale, frontalieri dell’invisibile:

“Per arrivare a quello che non sai

devi andare per dove non sai”

“Per arrivare a sapere tutto

non voler sapere nulla in nulla”

“Per arrivare a essere tutto

non voler essere nulla in nulla”

“Per giungere del tutto al tutto

devi lasciare del tutto il tutto”

“Oblio di tutto il creato,

memoria del Creatore,

attenzione interiore

e starsene amando l’amato”

Giovanni della Croce muore allontanato, lontano, alieno; come i veri santi è dissezionato, alto alla dissipazione. “Prese l’abitudine di andare nel bosco prima che facesse giorno; lì se ne stava in ginocchio ai bordi di un ruscello, in preghiera, fino a quando il calore del sole glielo concedeva. A volte, pregava tutta la notte nel giardino, poi andava a celebrare la Messa e si ritirava nella sua cella” (Iannaccone). Della notte aveva tratto aurora eterna, il giorno dei giorni, l’estremo labbro del Padre. Gli altri vagavano ancora, pieni di brama ‘spirituale’, per i meandri di questo mondo.

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