Politologo, professore di Storia delle dottrine politiche alla ‘Statale’ di Milano, classe 1928, è morto a Camogli, domenica scorsa, Giorgio Galli. Oltre che teorico del “bipolarismo imperfetto”, come ricordano un po’ tutte le testate italiane, Galli, già direttore della rivista “Il Mulino” negli anni Sessanta, è autore di libri importanti come “Hitler e il nazismo magico” (1989), “La politica dei maghi. Da Richelieu a Clinton” (1995), “Esoterismo e politica” (2010). Per gentile concessione di Luca Gallesi – che con Galli l’anno scorso ha firmato “L’anticapitalismo di destra” – e di Oaks Editrice, pubblichiamo il saggio introduttivo di Galli al testo di Louis Daménie, “La tecnocrazia”.
Questo libro di Michel Flichy, vero nome di Louis Daménie, appare come il relitto prezioso di un’epoca precedente. La tesi è che nella società industriale stia emergendo un nuovo ceto egemone, che l’Autore definisce “tecnocrazia”. Egli applica alla Francia, all’inizio della seconda metà del XX secolo, concetti che avevano cominciato ad essere elaborati negli anni Trenta, in presenza di quelli che apparivano nuovi regimi politici, dall’Unione sovietica “socialista”, al fascismo italiano, al nazionalsocialismo tedesco, al “New Deal” rooseveltiano negli Stati Uniti. Il precursore è uno studioso marxista italiano, Bruno Rizzi, già militante del partito comunista d’Italia: isolato nel regime fascista, cerca di capire quello che sta accadendo nell’Urss staliniana, dove il dittatore georgiano annienta la vecchia guardia leninista. Rizzi parte dalla lettura di Trotzky, sulla base di Marx, ma ritiene inadeguata l’analisi sull’Urss, definita “Stato operaio degenerato” dal fondatore della Quarta Internazionale, così come altrettanto inadeguata, secondo Rizzi, è la definizione di “capitalismo di Stato” elaborato da un’altra personalità della Terza Internazionale leninista, l’italiano Amadeo Bordiga. Quella che nasce, attraverso il controllo statale dei mezzi di produzione (terra, fabbriche, commercio) e l’accelerazione dell’industrializzazione (piani quinquennali), è una nuova forma sociale (definita “collettivismo burocratico”), che non è più capitalistica senza essere socialista. Rizzi va oltre: mentre la cultura politica e sociologica del suo tempo vede fascismo e nazionalsocialismo come radicali contrapposizioni al comunismo sovietico e il New Deal come riformismo nell’abito del capitalismo, lo studioso marxista italiano vede nel collettivismo burocratico una nuova modalità produttiva, fondata sul controllo politico dei mezzi di produzione, gestiti in modo pianificato da un ceto che ne dispone: si possono definire comunisti, fascisti, nazionalsocialisti, funzionari del New Deal, ma sono tutti, parimenti, un nuovo ceto sociale (la futura tecnocrazia di Flichy).
A questo punto Rizzi ritiene che un’economia fatta di pianificazione e nazionalizzazioni, sotto il controllo del potere politico, rappresenti un progresso rispetto al capitalismo. Alla vigilia della guerra, emigra in Francia, raccoglie le sue idee in un testo e lo spedisce a Trotzky. Questi, con un riferimento a un non meglio precisato Bruno R., ne accenna, per confutarlo, nei suoi ultimi scritti; poi lo dà a un seguace, James Burnham, che poi lo abbandona, traduce il testo e lo presenta come suo nel libro The Managerial Revolution, che diviene un best seller nei primi anni Quaranta. Ma intanto Rizzi, a Parigi, capovolge la sua impostazione: la statizzazione dell’economia non è un progresso, ma una regressione che avvia alla stagnazione economica e al dispotismo politico. È una decadenza paragonabile al crollo dell’impero romano, che Rizzi studia (nella Parigi occupata) in chiave marxista; scrive così La Bureaucratisation du Monde, che ripropone al ritorno in Italia, denunciando il plagio di Burnham. Ma fascismo e nazionalsocialismo sono crollati, gli Stati Uniti non sono più il Paese del New Deal, ma del capitalismo delle grandi corporations, mentre l’opinione pubblica, sia comunista che anticomunista, non dubita che l’Urss sia il contrapposto Paese del “socialismo reale”; Il collettivismo burocratico non trova dunque eco se non tra i lettori di nicchia della sinistra antistalinista, rimane un relitto, ma prezioso. Nel 2018 tutta la vicenda è ricostruita nel libro (ed. Mimesis) di Bruno Rizzi (a cura di Paolo Sensini e Chiara Chiorrini Dezzi, con una mia postfazione) La rovina antica e l’età feudale. Flichy, che forse ha sentito di Rizzi a Parigi, comunque recupera il relitto, collegandolo partendo non dal marxismo e da Trotzky, ma dall’esoterismo e da Saint-Yves d’Alveydre.
È difficile ricostruire la formazione culturale dell’autore di Tecnocrazia. Egli stesso vuole che di lui si scriva il meno possibile. È un imprenditore che non si impegna direttamente in politica. In guerra, ha combattuto con De Gaulle, attorno al quale vede però maturare la tecnocrazia, non meno che nella Terza repubblica francese dell’anteguerra e a Vichy. Per capire meglio Flichy, sarebbe necessario leggere La rivoluzione, fenomeno divino meccanismo sociale o complotto diabolico?, pure pubblicato nello stesso anno (1968) del libro sui tecnocrati. Personalmente ritengo la rivoluzione un meccanismo sociale, Flichy un complotto diabolico, che fa risalire a Saint-Yves (uno dei promotori di quello che lo storico Pierre Riffard definisce “l’occultismo diffuso”, iniziato col neo-occultismo francese del primo ottocento), il cui concetto di “sinarchia” costituirebbe l’impianto teorico esoterico della tecnocrazia, di cui il libro documenta l’evoluzione, culminata nella Francia del dopoguerra, a partire da Monnet per giungere sino a Macron, direbbe oggi Flichy, che descrive l’ascesa della tecnocrazia nell’anteguerra, attribuendo un pericoloso ruolo di eminenza grigia a Georges Soulès, che con lo pseudonimo di Raymond Abellio è una figura eminente dell’esoterismo non solo francese. Legato ad André Breton e ai surrealisti, Abellio è nello stesso tempo giovane militante socialista, vicino alla sinistra della Sfio, di Marcel Deat e Marceau Pivert, che avranno un futuro molto diverso, il primo collaborazionista nel 1942, il secondo filo-comunista nel 1947, quasi precursori di Mitterand, che passa da Vichy al riportare i comunisti al governo nel 1981, mentre anche Macron comincerà socialista (con Hollande) per poi fondare un suo partito (En Marche) per arrivare all’Eliseo.
Questi accostamenti sono importanti per capire l’approccio di Flichy, secondo il quale la tecnocrazia appare un ceto a cavallo tra l’economia e la politica, secondaria, ma utile per arrivare a posizioni chiave per gestire un’economia che rimane capitalistica, basata sul profitto come scopo unico. È questa la chiave per capire l’evoluzione della tecnocrazia dopo il 1945, nella quale lo scontro, apparentemente centrale, tra comunismo e anticomunismo, è secondario rispetto al dato centrale del XX secolo, che è la rivoluzione anticolonialista, che condiziona la Francia nel quadriennio tra il 1954 (sconfitta di Dien Bien Phu a opera di Giap, in Vietnam) e la ribellione di Algeri, 1958, che riporterà al potere De Gaulle, quadriennio centrale per il ruolo di Flichy. Nel 1956 egli fonda il mensile “L’Ordre Français”: è l’anno ricordato per la crisi comunista (rapporto Krusciov, ribellioni polacca e ungherese, “l’indimenticabile 1956” di Pietro Ingrao), ma per la Francia è l’anno delle elezioni che portano all’ultimo governo del centro-sinistra della Quarta repubblica, quello Mendès France-Mollet, che dopo Dien Bien Phu abbandona il Vietnam (con sostituzione nordamericana). Ma nelle elezioni si afferma, inedito, il partito populista di Pierre Poujade, col quale esordisce in politica il tenente paras Jean-Marie Le Pen, inizialmente ammiratore di Vichy, ma espressione di una politicizzazione militare che si richiama a De Gaulle, attraverso questo accostamento: Hitler nel Mein Kampf aveva sprezzantemente definito la Francia «un impero mulatto che va dal Reno al Congo»; il generale del 18 giugno, nel discorso di Brazzaville (1944) capovolge il negativo in positivo, proponendo una sorta di “Commonwealth, multietnico, ma di lingua francese”, che da Parigi attraverso l’Africa sfiori l’Asia (in Indocina, appunto), per giungere all’Oceania della Polinesia. Forse è a questa idea che si riallacciano gli ufficiali paras, quando, dopo l’Indocina perduta, debbono ricombattere la rivoluzione anticolonialista, esplosa anche in Algeria con la rivolta iniziata nel novembre 1954, una guerriglia che non si riesce a sconfiggere, con una Francia impegnata piuttosto, secondo Flichy, nell’avvento della tecnocrazia (con la regia di Abellio?), in vista di un Europa mercato comune (qui è certa la realtà di Monnet, a partire dalla Ceca). Mentre Flichy pubblica “L’Ordre Français”, anche gli ufficiali paras pensano a un ordine diverso, prendono il potere ad Algeri alla testa dei coloni ultras (13 maggio 1958), con comitati di salute pubblica (eco rivoluzionario di Robespierre), con alla presidenza il generale Massu (che alla testa della sua leggendaria X divisione paracadutisti ha vinto la battaglia di Algeri), che ha come vice un arabo musulmano (eco di Brazzaville). Il fatto che la sola biografia di Flichy sia stata scritta da Hugues Le Barbier de Blignières, uno dei capi dell’Oas (l’organizzazione clandestina degli ufficiali, sconfitti nella seconda rivolta di Algeri del 1961), dimostra il legame tra lo studioso ostile alla tecnocrazia e gli ufficiali ribelli che auspicavano un “ordine francese” opposto, una sorta di socialismo militare costruttore di un impero francofono multietnico, risposta alternativa alla rivoluzione anticolonialista occidentale.
Il fatto è che De Gaulle, l’uomo di Brazzaville portato al potere in nome dell’Algeria francese, ha poi scelto l’altra Francia, quella (secondo Flichy) della tecnocrazia, col successore Pompidou, che appartiene all’élite bancaria, come poi Macron: che attorno a lui e al rapidissimo successo del suo improvvisato partito En Marche (le stesse iniziali EM e, a detta degli avversari, un inno già di Vichy) vi fosse qualche tipo di organizzazione, mi sembra comprovato da questo giudizio del politologo italiano Ernesto Galli della Loggia, sotto il titolo Una politica costruita sui soldi:
«Veniamo a sapere da “Liberation” che En Marche è riuscita a spendere in un anno 15 milioni di euro, una girandola impressionante di cene, colazioni, brunch, cocktails, con una regìa attentissima, la quale si deve a un ex alto dirigente di Paribas e al tesoriere del movimento, Cedric O., anch’egli alto dirigente di un gruppo industriale».
“Corriere della sera”, 16 maggio 2017
Due “tecnocrati” portano Macron all’Eliseo, direbbe Flichy, che allo stesso modo definirebbe i sei ceo delle multinazionali francesi che figurano nella tabella delle cinquanta più potenti del pianeta, alle pagg. 190-202 di “Come si comanda il mondo”, di Galli e Caligiuri (ed. Rubbettino, 2017): si ritrova Parisbas, col presidente Jean Lanmier e il ceo Jean-Laurent Bonnafé; poi l’Axa col presidente, Denis Duverne; Natixis, col ceo Laurent Mignon; la Société Générale, col ceo Frédéric Oudéa; e infine l’italiana UniCredit, col ceo francese Jean Pierre Mustier.
Poiché Flichy attribuisce un ruolo cruciale ad Abellio, a mio avviso non un astuto complottatore, ma semplicemente un maestro esoterico, mi sembra utile concludere col suo ultimo messaggio. Dopo aver scritto “Ma dernière mémoir” (nel 1932, quando Flichy era un ragazzo decenne) e “Un faubourg de Toulouse, VII nel 1971 (quando un Flichy, oramai sessantenne, aveva ancora solo un anno di vita), Abellio in Les Militants – Sol Invictus conclude sull’esoterismo:
«La mia tesi generale si può riassumere in alcune enunciazioni. 1. L’esoterismo tradizionale è insieme una dottrina e una prassi. Implica un modo fondamentalmente “diverso” di esistenza dell’essere, corpo, anima e spirito insieme. 2. La tradizione primordiale è stata data agli uomini tutta insieme, ma velata. 3. Questa tradizione è una metafisica e non una morale. 4. Spetta a noi, uomini d’oggi, di esplicitare la tradizione passando da una semplice “partecipazione” a una vera “conoscenza”. 5. Il problema chiave dell’esoterismo e il suo fine al tempo stesso è la trasfigurazione dell’uomo ‘nel’ mondo, che è anche il problema della “seconda morte”».
È il 1980, Flichy si è spento da otto anni, se la sua tesi è valida, la tecnocrazia si è ormai affermata in Francia (e forse altrove), ma non vedo alcun rapporto tra questo possibile esito e l’ultimo messaggio di Abellio, supposto erede e continuatore di Saint-Yves d’Alveydre e della sua sinarchia. A mio avviso, gli otto personaggi registrati (i due costruttori di Macron e i sei ceo delle multinazionali), “tecnocrati” per Flichy, sono semplicemente capitalisti, gestori del capitalismo globalizzato delle multinazionali, punto d’arrivo dell’evoluzione del capitale nel XXI secolo.
Giorgio Galli