L’attuale governatore della Virginia, il democratico Ralph Northam, ha stabilito che la statua dedicata al generale Robert E. Lee (1807-1870) deve essere rimossa, motivando la scelta con la seguente affermazione: “in Virginia non si può diffondere una versione falsa della storia e nel 2020 avere ancora un sistema che era basato sulla schiavitù”.
Una versione falsa della storia la ha offerta proprio il governatore Northam, e tutta l’opinione pubblica Usa che ha accusato Lee di essere schiavista. In realtà il generale non lo era affatto, anzi deplorava moralmente il fenomeno. È incredibile che nessun accademico statunitense studioso della guerra di secessione americana, periodo storico che è oggetto di materie d’insegnamento negli atenei d’oltreoceano, abbia dato un’analisi oggettiva della biografia del generale Lee. Per dirla con le parole dello storico di casa nostra Angelo D’Orsi, in questo caso si è preferito ridurre il sapere propriamente scientifico (episteme) ad opinione (doxa), probabilmente per usi strumentali.
In questa età illuminata, vi sono pochi, credo, che non vogliono riconoscere che la schiavitù in quanto istituzione è un male sia morale che politico per ogni paese. È inutile intrattenersi suoi suoi aspetti negativi. Io penso tuttavia che essa sia una peggiore calamità per la razza bianca che non per quella nera, nei miei sentimenti sono fortemente a favore di quest’ultima. L’emancipazione degli schiavi sarà più rapida grazie alla mite e progressiva azione del cristianesimo, che non attraverso le bufere e gli uragani della feroce discordia. Questo influsso sarebbe lento è sicuro. Mentre vediamo dinanzi a noi avvicinarsi l’abolizione finale della schiavitù umana, e la aiutiamo con le nostre preghiere e tutte misure lecite in mio potere, dobbiamo lasciare il progredire e l’esito nelle mani di colui che vede i risultati!
Estratto di una lettera di Robert Edward Lee alla moglie Mary Curtis, 23 gennaio 1861
Come si può leggere dall’estratto di questa lettera l’allora cinquantaquattrenne Robert Lee, colonnello dell’esercito degli Stati Uniti d’America, aborriva il fenomeno della schiavitù. Questa attività era diffusa dai proprietari terrieri degli Stati del sud. Lo stesso generale e sua moglie appartenevano a una di queste famiglie definite della “old domination”, che si sentivano di essere i veri fondatori degli Usa e disprezzavano gli Yankee, gli americani del nord. Proprio la moglie di Lee, Mary Curtis, era la nipote di George Washington, anch’egli ricco proprietario terriero virginiano, di conseguenza schiavista. Da fervente devoto alla chiesa evangelica, Lee era contrario alla schiavitù, ma era ben conscio che l’affrancamento sarebbe dovuto avvenire gradualmente, tramite riforme costituzionali legiferate da ogni Stato che componeva la federazione.
Il contesto sociale ed economico in cui si trovavano gli Stati Uniti era esplosivo. Il divario culturale e sociale tra gli Stati del nord e quelli del sud era sempre più marcato, si può sostenere che esistessero due nazioni separate: al nord vigeva una cultura fondata su una democrazia individualista, legata alla concezione del self-made man dove si aveva un costante sviluppo del capitalismo industriale, sostenuto dagli esponenti del neonato partito repubblicano, propugnatore di un accentramento dei poteri dello Stato federale; dall’altra parte il Sud, dove le grandi famiglie proprietarie terriere alimentavano il sentimento della tradizione gerarchica, paternalistica e dell’onore militare. L’economia, in questi Stati, era fondata esclusivamente sulle coltivazioni estensive di cotone, canna da zucchero, tabacco, organizzate in fattorie dove venivano utilizzate gli schiavi neri. Queste famiglie-padronali erano l’elite agraria che controllava le politiche degli Stati meridionali e che voleva mantenere un’ampia autonomia decisionale vedendo le istituzioni politiche federali come il Congresso e la Casa Bianca come un’ingerenza degli yankee nelle loro politiche.
In questa confusione, Lee nutrì la profonda preoccupazione che si potesse arrivare a un conflitto civile, come scrisse in una lettera alla moglie nel 1860:
…non posso prevedere sciagura più grande per il paese che si sta sciogliendo dall’Unione. Sarebbe un accumularsi di tutti i mali di cui ci lamentiamo, e io sono pronto a sacrificare tutto eccetto l’amore per conservarla. Un’unione che si può mantenere soltanto con le spade e le baionette, e in cui la rissa e la guerra civile debbono prendere il posto dell’affetto fraterno e della gentilezza, non ha per me alcuna attrattiva.
Estratto di una lettera di Robert Edward Lee alla Mary Curtis, maggio 1860
Il giorno della secessione e della guerra arrivò: il 13 aprile del 1861 un esercito di ribelli, i secessionisti, bombardarono un fortino dell’esercito regolare dell’Unione a Fort Sumner in South Carolina. Da lì un seguì un turbinio di eventi che si protrasse fino al 1865 e che vide più di 750.000 americani morti. Mai nessuna guerra nella storia aveva fatto prima di allora più morti di quella.
Il fenomeno schiavista non era stato il casus belli della guerra, ma faceva parte di un contesto culturale e politico ancora più grande, ma che per l’opinione pubblica europea, poco e male informata sulle vicende interne degli Stati Uniti, era una semplice contesa tra il nord abolizionista e il sud schiavista. Emblematico è l’episodio che vede protagonista Giuseppe Garibaldi, che appena terminata la spedizione dei Mille e assurto alla fama mondiale, ricevette da Lincoln la proposta di assumere il comando di una divisione delle truppe unioniste contro quelle secessioniste del sud. La proposta avvenne formalmente il 6 settembre del 1861, quando l’ambasciatore degli Stati Uniti ad Anversa raggiunse l’eroe dei due mondi nel suo buen ritiro di Caprera. Garibaldi, dopo aver accolto la richiesta del rappresentante del governo unionista, pose due condizioni: la prima è che voleva che gli venisse affidato il comando di tutto l’esercito, la seconda era che Lincoln avrebbe dovuto proclamare pubblicamente che l’entrata in guerra dell’esercito unionista era motivato dal progetto di estirpare la schiavitù. Garibaldi era del parere che la dichiarazione dell’abolizione avrebbe dato alla guerra di secessione un carattere di valore umanitario.
Il rappresentante di Lincoln rispose a Garibaldi che queste due condizioni non sarebbero potute essere soddisfatte per due motivi: gli americani non avrebbero mai accettato la nomina di un generale straniero a capo dell’esercito e l’abolizione non sarebbe potuta avvenire tramite un semplice proclama ma sarebbe stato risolto solamente con il tempo. Lo stesso Lincoln, da scaltro uomo politico, non aveva mai assunto una posizione ideologica contro l’abolizionismo. Egli era ben conscio di godere dell’appoggio militare e politico di alcuni stati schiavisti come il Kentucky e anche l’appoggio di numerosi unionisti proprietari di schiavi.
Il presidente unionista espresse chiaramente la propria politica in una lettera aperta sul “Tribune” di New York il 22 agosto del 1860, quando già vi era una profonda crisi tra il governo centrale e gli Stati del sud:
Il mio vero obiettivo in questa lotta è salvare l’Unione, e non è né salvare né distruggere la schiavitù. Se mi fosse dato di volere l’Unione senza liberare nessuno schiavo, lo vorrei; e se potessi salvarla mediante la liberazione di tutti gli schiavi, lo farei, e se per non salvarla dovessi liberare alcuni e lasciare stare gli altri, fare anche questo.
Da un punto di vista etico Lincoln, come Lee, sosteneva che il fenomeno della schiavitù sarebbe dovuto terminare tramite un processo graduale, in una cinquantina d’anni, dove ai proprietari terrieri il governo avrebbe concesso un indennizzo economico in cambio dell’emancipazione degli schiavi.
Se la cultura del politicamente corretto si riduce puramente ad un fine superficiale e propagandistico che giustifica l’abbattimento di statue e monumenti secondo una questione puramente morale, senza contestualizzare un periodo storico e porsi domande a problemi ben più complessi ed ampi, allora si dovrebbe anche abbattere il Lincoln Memorial.
*In copertina: Robert E. Lee e il figlio William, nel 1845