Nella prefazione alla prima edizione italiana de Il Golem di Gustav Meyrink (Campitelli, 1926), Enrico Rocca avvisa il lettore che la materia prima dell’opera sono il sogno e le sue «più sfumate o acute sensazioni», gli stati di catalessi «resi con terrorizzante immediatezza», il sonno ipnotico, la dormiveglia, la telepatia. Considera inoltre come i personaggi di Meyrink patiscano lo sconforto per essersi smarriti in una selva di illusioni, simboli ed eventi irreali che compromettono la percezione della realtà. Ma Rocca ci invita a non crederli pazzi, essi sono «i savi veri, i loro sogni sono certezza, e la vita del giorno è sogno. Quelli che credono d’esser desti (gli uomini normali) sognano, perché le loro esperienze di vita non sono in verità che sogno».
Nel marzo 1982, un giovane regista canadese viene licenziato al termine delle riprese del suo primo lungometraggio, un B-movie intitolato Piranha II: The Spawning, e quindi escluso dalla fase di post-produzione. Teme che il suo nome venga associato a un film del quale non ha potuto curare il montaggio, e ancor di più che la sua carriera da regista possa essere compromessa dal risultato finale. Il suo nome è James Cameron, ha ventisette anni e non può permettersi un avvocato che lo aiuti a non essere accreditato nel film che ha rinnegato. Si reca quindi a Roma con un biglietto di sola andata, intenzionato a piantonare lo studio del produttore Ovidio Assonitis. Questi gli mostra lo stato dei lavori, Cameron è sopraffatto dalla rabbia, nelle notti successive si intrufola nello studio sabotando il montaggio di Assonitis. Nel mentre alloggia in una modesta pensione, dove è costretto a nutrirsi per diversi giorni dei soli avanzi della colazione e del pane omaggiato dall’albergo. Esausto e debilitato, subisce un crollo fisico che lo costringe a letto con febbre alta e sintomi da intossicazione alimentare. In quella notte rovente e tormentata, l’abisso dell’inconscio gli restituisce in sogno l’immagine di un torso umano cromato, che servendosi di due grossi coltelli da cucina si allontana strisciando dalle fiamme provocate da un’esplosione alle sue spalle. Svegliatosi di soprassalto, Cameron si precipita a disegnare sulla carta intestata dell’albergo la macabra e minacciosa figura del torso, destinata a ispirare l’opera che lo avrebbe consacrato come uno dei registi più creativi e innovatori della storia del cinema: Terminator.
Già nel XVI sec., il replicante esercitava un fascino mistico che stuzzicava tradizione e leggenda, come quella del golem di Praga creato da Judah Loew ben Bezalel con il compito di proteggere la comunità ebraica della città. Una missione religiosa e sociale, che non aveva previsto l’assegnazione delle facoltà intellettive al gigante di argilla inviato ad eseguire il comando impartito. Nei secoli successivi i discendenti del golem avrebbero ricevuto dai loro creatori un numero sempre maggiore di qualità, che sommate tra loro ponevano in essere l’altro. Le volubili condizioni sociali, la mutevolezza delle esigenze umane, unite ai progressi del meccanicismo, stimolavano la creatività di due specie d’uomo tra loro diverse per interessi e vocazione: gli ingegneri e i cantastorie. Entrambi consapevoli che il rischio latente in qualsiasi forma del progresso fosse l’erompere della violenza, l’elemento che definisce le relazioni umane al loro stato naturale. Hobbes individuava nella violenza il motore relazionale che orienta l’uomo a tracciare il confine dell’autocoscienza, ovvero il compasso di cui l’uomo si serve per marcare la linea di confine tra sé e l’altro. Lo spazio dell’altro rappresenta allora un’area che sfugge a ogni tentativo di controllo o previsione, ed è lungo il confine che ha luogo la lotta per il riconoscimento. In Hegel, la riflessione si arricchisce di una rinnovata identificazione dei soggetti impegnati nella lotta: il servo e il padrone. L’alterità è la condizione necessaria, nessuno può eliminare l’altro, la sopraffazione è il solo esito possibile della lotta relazionale. Al tempo della Fenomenologia dello spirito, le teorie degli ingranaggi sviluppate in seno al moto illuminista prevalevano già sull’interesse per le speculazioni clericali sull’anima.
La tensione allo sdoppiamento aveva trovato compimento negli automi di Jacques de Vaucanson, così come si erano create le condizioni affinché l’inventiva letteraria si unisse alla meccanica per concepire l’altro. Enciclopedisti, artisti e inventori avevano guardato con trasporto all’aplomb meccanicistico dell’anatra digeritrice di Vaucanson. La sua creatura conteneva i prodromi dell’inventiva ingegneristica del XIX sec., quando la rivoluzione industriale si era manifestata nella forma di una deflagrazione di idee e progetti che avevano rivoltato la società come un calzino, dando luogo a fenomeni sociali che non poterono che esercitare un fascino sociologico sugli spiriti più sensibili e creativi. Carlo Bordoni, nella sua Guida alla letteratura di fantascienza (Odoya, 2013), individua in Frankenstein (1818) l’elemento di continuità tra l’automatico e il cibernetico, osservando come senza l’elemento dell’elettricità il romanzo non sarebbe riuscito ad elevarsi rispetto alla produzione gotica. A Mary Shelley va dunque riconosciuta la forza dell’inventiva per aver reinterpretato in chiave fantastica il prodigio dell’elettricità, concependo la sua creatura con una componente tecnologica fondamentale ma che non faceva ancora di Frankenstein una macchina o un replicante. Trent’anni dopo, il mondo riceveva la prima edizione del Manifesto del Partito Comunista. Sulla scia della riflessione hegeliana, l’alterità veniva ripensata entro la rilettura della storia della società. Ma già ne L’ideologia tedesca (1846), Marx ed Engels consideravano lo spazio relazionale come un «legame materiale condizionato fin dall’origine dai bisogni e dal modo della produzione, antico quanto gli stessi uomini».
L’intellettuale del XIX secolo abitava una società incastonata in un paesaggio urbano stravolto dall’industrializzazione, ed era oltremodo consapevole che le relazioni tra i soggetti di quel paesaggio fossero mediati dai rapporti di produzione. La febbre del progresso avrebbe di lì a poco alterato i ritmi della ricerca e della sperimentazione, esponendo l’umanità al rischio fatale di compiere scelte irrazionali. All’alba del XX sec., un sarto austriaco di nome Franz Reichelt realizzava una tuta alare che riteneva potesse consentirgli di lanciarsi dalla Torre Eiffel e atterrare illeso dopo un salto ci circa sessanta metri. La mattina del 4 febbraio 1912, Reichelt raggiungeva la Torre in automobile, si recava sul punto di lancio, lasciava che le macchine da presa lo filmassero mentre cercava il coraggio di buttarsi giù. Reichelt saltò, il paracadute non si aprì, le macchine da presa lo ripresero mentre si schiantava al suolo. Andava in scena il Novecento, il secolo delle macchine e delle stragi.
Le implicazioni socio-economiche dell’industrializzazione alterarono la percezione del futuro dell’umanità, non più una prerogativa del cristianesimo. All’interpretazione escatologica subentrava la proiezione avveniristica del destino dell’uomo, l’inventiva fantascientifica degli autori si arricchiva di decine di immaginari diversi contenenti versioni favolistiche di mondi che sbalordivano il lettore, ma che al contempo non erano più destinati alla sola letteratura. Esplorazioni lunari, invasioni aliene e viaggi nel tempo trovavano nel cinema la più sbalorditiva delle possibili rappresentazioni. Tra tutti, l’immaginario della macchina è quello che meglio esprime le riflessioni sociologiche sottese ai racconti di fantascienza, ponendo in essere la questione universale dell’alterità e reinterpretandola in una relazione a tre termini del tipo uomo-lavoro-macchina. Il primo grande colpo di genio appartiene a Karel Čapek, che nel 1920 pubblica R.U.R., un dramma distopico in cui si percepisce l’evoluzione dell’elemento fantascientifico del replicante. L’opera di Čapek contiene un’eredità formidabile, consegnando ai posteri il neologismo “robot” e concependo una macchina dotata di facoltà intellettive proprie e autonome. La prima rappresentazione del dramma ebbe luogo il 25 gennaio 1921 al Teatro Nazionale di Praga, la città in cui tre secoli prima si aggirava il golem di Judah Loew. Ma più del golem e più di Frankenstein, i robot di Čapek si candidano a rappresentare le angosce dell’uomo novecentesco riguardo le proprie sorti. Il livello di complessità tecnologica aveva messo in discussione la sua centralità nella società occidentale, nel suo campo visivo la macchina era collocata in uno spazio diverso, esterno: lo spazio dell’altro. Čapek non si limita a conferire all’alter ego meccanico l’intelligenza funzionale a sostituire l’uomo alla catena di montaggio, ma procede perfino ad apportare quelle modifiche che rendono il robot capace di sentimenti. Accade così che il sentimento più eversivo renda il robot in tutto e per tutto l’alter ego dell’uomo: la ribellione. Nella satira fantascientifica di Čapek, i robot ereditano i tratti propri dell’operaio, ovvero la sua indispensabilità per il sistema capitalistico-industriale e la resistenza all’asservimento. Trattandosi di una satira, e dunque appartenente alla categoria del racconto, il finale è riservato al colpo di scena, che in quanto tale deve esporre la morale ma senza dimenticarsi di sbalordire lo spettatore. La lotta per il riconoscimento si conclude così con la distruzione dell’umanità per mano del proletariato robotico. La morale è squisitamente marxista, il finale tragico e stupefacente. La fantascienza era pronta a temere le macchine.
Parte della tradizione fantascientifica aveva elaborato i traumi della Grande Guerra in chiave anticapitalistica, non solo R.U.R. ma anche La fine del mondo di Abel Gance (1931). Le scorie della Seconda guerra mondiale confluirono nuovamente nel più grande bacino letterario del genere, vale a dire il tema della sopraffazione e della surrogazione delle macchine ai danni dell’uomo. Non è un caso che il primo romanzo pubblicato da Kurt Vonnegut adotti il tema in questione. Nel 1952 pubblica Player piano, che in Italia è stato tradotto anche con il titolo Distruggete le macchine. Pur non essendo ancora maturo, ovvero non abbastanza vonnegutiano da allinearsi all’argutezza di Kubrik e Lumet, che avevano salvato la fantascienza da una possibile inerzia creativa, la prima opera di Vonnegut si colloca sulla griglia di partenza del genere. Va dunque annoverato tra i classici, una lettura di riferimento per ritrovare nel secondo dopoguerra la lotta per il riconoscimento e la questione dell’alterità uomo-macchina. Piano Meccanico è strutturato sulla riflessione sociologicamente impegnata piuttosto che sull’ispirazione letteraria del suo autore.
La tradizione degli anni Sessanta adottava poi come guida James G. Ballard e gli interpreti più o meno consapevoli della beat generation, la fantascienza veniva quindi dirottata verso l’inconscio, dove il confine con la realtà si sovrapponeva al confine tra la fantascienza stessa e la letteratura introspettiva (e sperimentale). Eppure, il torso cromato apparso in sogno a un giovane e sconfortato James Cameron, avrebbe consentito l’inaspettata reinvenzione del tema delle macchine, divenendo inoltre il simbolo stesso della corrente cyberpunk. A questo proposito, Bordoni ci invita a considerare il cyberpunk come uno dei generi fantascientifici più interessanti sul piano della contestualizzazione storica. Sorto al tempo della new right, quando per la prima volta dal 1945 l’intesa politica Thatcher – Reagan accantonava i piani di welfare, era possibile individuare nuova classe sociale, riconoscibile per la sofferta precarietà del lavoro e della rivendicazione dei diritti. Inoltre, la tecnologia trionfava sul piano delle comunicazioni, e favorita dalla frenesia dei consumi diveniva una risorsa accessibile a tutti i livelli di benessere economico. La fantascienza tornava a guardare al mondo reale, ormai indifferente alle suggestioni dell’inconscio. Bruce Sterling, colonna portante del cyberpunk, spiegò così il nuovo stato delle cose: «il mondo moderno è definito dalla sua tecnologia. E una letteratura che disprezza e ignora la tecnologia è destinata a rimanere cieca».
Ma in Terminator non si ritrovano soltanto gli elementi dell’alterità uomo-macchina. Cameron ci racconta di un cyborg proveniente da un futuro in cui l’umanità è prossima all’estinzione perché divenuta preda delle macchine sterminatrici. Ciò di cui il Cameron dei primi anni Ottanta non è in grado di raccontarci, è un futuro in cui il rischio di estinzione del cyborg all’interno dell’immaginario fantascientifico – in particolar modo quello cinematografico – è sempre più elevato. Con le dovute e significative eccezioni, Bordoni ci segnala che all’inizio degli anni Novanta si ravvisano sintomi preoccupanti che riguardano l’inventiva degli autori (Terminator 2 è del 1991), parlando senza riserve di «morte della creatività». Curiosamente, lo stesso Terminator contiene l’elemento sotteso alla sensibilità fantascientifica maturata in seguito: la crisi di identità. Nel saggio The Body Vanishes (Lindau, 2000), Franco La Polla e Roy Menarini osservano come «sempre più spesso, ci troviamo di fronte a protagonisti che mostrano di non sapere o potere tenersi strette le facce [..] come il T-1000 di Terminator 2, in metallo liquido, mercuriale esempio di trasformazione imitativa, organica e inorganica».
Ma c’è di più, un film come Arrival (2016), in cui la fantascienza si compie in riflessioni antropologiche sul linguaggio, l’attenzione sterlingiana alla tecnologia viene quasi del tutto ignorata. Con le dovute e significative eccezioni, pare che il cinema non sia più interessato a rappresentare lo spazio della macchina, che la questione dell’alterità sia prossima all’estinzione. Ci si chiede allora che fine abbia fatto l’altro, che fine abbia fatto la paura delle macchine. Un altro esito possibile della lotta per il riconoscimento, a cui ovviamente Hegel non aveva potuto di pensare, è l’assimilazione dell’uno nell’uno. Curiosamente, il teminator è un cyborg mascherato da uomo, quasi a voler rappresentare l’assimilazione sottocutanea della macchina. La digitalizzazione dello spazio relazionale sembra aver privato l’uomo della consapevolezza dell’altro, quasi avesse rimosso dal suo campo visivo la macchina che per quasi un secolo ha ispirato gli autori di fantascienza. Quanto resta ancora dell’onirica e seducente paura dell’alter cyborg?