OGGETTO: È la fine del mondo!
DATA: 17 Novembre 2021
SEZIONE: inEvidenza
I Placebo non vedono l’ora che l’uomo si estingua; Ben Okri annuncia la “fine dei tempi”. Cronaca di una civiltà suicidale
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Beautiful James è il nuovo singolo dei Placebo: come sempre ipnotico, martellante, da ascoltare nella nebbia. Il testo è sufficientemente vago (“Non voglio svegliarti/ Tutti mentono/ Centinaia di volte al giorno/ Il silenzio nei tuoi occhi duri/ È troppo raro da sprecare”) da significare qualsiasi cosa: secondo la giornalista del “Guardian”, Sasha Geffen, “parla di amare qualcuno al di là dei copioni eteronormativi”. Bah! Che spericolata minchiata su geroglifici di fumo. Brian Molko nicchia, sorride, accoglie; gli etero, si sa, sono degni di rogo. Ad ogni modo: Beautiful James è il singolo che inaugura l’ultimo album dei Placebo, Never Let Me Go, uscirà il 25 marzo 2022. La settima traccia del brano, Try Better Next Time, è, così dicono, “una melodica elucubrazione sul disastro climatico”. Al tema si riferisce la copertina dell’album: un paesaggio nudo, di rocce oceaniche, alla Caspar Friedrich, con rifiuti umani vetrificati dai pixel, paiono gioielli. Nei Placebo tutto è tanto sfumato che può voler dire il contrario. Ad ogni modo, durante l’intervista promozionale rilasciata al “Guardian”, pure loro hanno strimpellato un ritornello ovvio:

“Non sarà la fine del mondo. Sarà solo la fine della specie umana. La chiamiamo fine del mondo dalla cima del nostro incessante narcisismo, della nostra audace arroganza. Try Better Next Time è una specie di urlo definitivo: smettila, restituisci la terra agli animali. Erano qui prima di noi”.

Il discorso è vago, indefinito, fatto da chi, come dire, non ha particolari necessità. Il problema – quello sì, arrogante – è credere che tra gli animali non vada considerato l’uomo; che tra l’uomo e la terra esista soltanto l’esigenza di una lacerazione, la fisionomia di una colpa; che tutti gli uomini (chessò, i cittadini di Bangkok o quelli di Kampala) avvertano il medesimo desiderio di estinzione. Si percepisce, cioè, una sorta di gioia demoniaca, da bava alla bocca, in chi spera nella fine della specie umana; pare il dionisaco delirio di una civiltà terminale. Ma mentre i riti incorporano una morte per celebrare la vita – si divora il dio per risorgere al giorno –, qui, moribondi, speriamo in un sabba grave di cadaveri. Eppure, la prossimità del disastro climatico galvanizza gli animi: per fortuna l’uomo, il mostro, si leva di torno; leva suicidale che fa comodo al sistema dei consumi (nei momenti estremi non ci si converte, chi può si riempie la pancia con più fetida tracotanza). A questo punto, acceleriamo il processo di estinzione, godiamocela!

Il problema, per altro, precede di parecchio le canzoni dei Placebo – che, algoritmico paradosso, promuovono un disco sperando nella morte di chi lo comprerà. In un testo del 1967, Ragioni di una fedeltà, Andrea Zanzotto parte dal presupposto condiviso:

“Un Micromegas disgustato dell’uomo e delle sue malefatte, o del suo inesplicabile brulichio, forse spazzerebbe via volentieri la corrompente presenza dei formicai umani, liberando la purezza del verde e dell’azzurro, del bruno e dell’aureo, i colori della gemma terrestre nella sua originaria configurazione”.   

Scappatoia facile, ragiona Zanzotto, come chi pone fede nella distruzione e nella distrazione di massa più che nell’ascesi. Invece, scrive Zanzotto, esiste “l’insediamento-piaga” – da bestemmiare e bombardare – ma anche “l’insediamento-fioritura”, è possibile che l’uomo, “quale momento più ardente della realtà naturale”, sia davvero il punto di giunzione tra la terra e il cielo, tra le stagioni e l’avvenire, che conosca le arti dell’ordine e della cura. Zanzotto parla di “giusto antropocentrismo”: quel momento magico in cui la natura risalta grazie all’azione dell’uomo. “L’Italia intera è testimonianza, nel bene e nel male, di questi fenomeni, forse più di qualunque paese del mondo”: non ci sono solo gli orrori metropolitani, emblema di una mente deformata dalla frustrazione, ma anche le ville, meravigliose, i templi privati, dove l’ora umana si tempera coi cicli della terra; ci sono i giardini, gli episodi architettonici dove l’opera è l’estensione della natura; la fattoria, l’etica della coltura.

Pensieri perfino banali (a proposito, il bel testo di Zanzotto si trova, ora, in: Andrea Zanzotto, Premessa all’abitazione e altre prospezioni, Aragno, 2021, a cura di Andrea Cortellessa), ma impossibili da perfezionare di fronte all’ideologia della fine del mondo. Pochi giorni fa Ben Okri, tra i grandi scrittori afro-inglesi di oggi – ha vinto un Booker Prize nel ’91, in Italia è tradotto da Bompiani e La Nave di Teseo – ha pubblicato una specie di manifesto dall’inequivocabile ispirazione: “Gli artisti devono confrontarsi con la crisi climatica”. Il proclama, dal moralismo nauseante – “Non possiamo più essere gli umani che siamo stati: spreconi, sconsiderati, egoisti, devastatori. È giunto il momento di farci creativi, lungimiranti, più consapevoli, altruisti” –, propone una nuova formula romanzesca: la “creatività esistenzialista” (existential creativity). Che vuol dire? Questo:

“La creatività in cui nulla va sprecato. Come scrittore, significa che tutto ciò che scrivo deve essere mirato al fine di attirare l’attenzione sul crinale, terribile, in cui ci troviamo come specie. Significa una scrittura senza fronzoli. Una scrittura che dica la verità. E che in questa verità sia evidente la bellezza. Massima economia. Significa che tutto ciò che faccio ha un unico scopo. Significa che devo scrivere, ora, come se queste fossero le ultime parole che potrò mai scrivere. Se sapessi di vivere gli ultimi giorni del mondo, che cosa scriveresti?”.

È sbalorditiva la barbara idiozia di certi scrittori di vaglia. I consigli di Ben Okri, infine, si risolvono nel manuale del perfetto scrittore hemingwayano – pochi fronzoli, dritti allo scopo – con reflui metafisici imbarazzanti: che cazzo vuol dire dire la verità? Far scomparire la fiction a favore del dato numerico-statistico (che non è che una verità, non quella più patente)? Quanto al resto, non c’è bisogno di forgiare sigle sintetiche, per benessere civico – creatività esistenzialista, alle nostre orecchie anarcoidi vale come realismo socialista: non si può imbragare la scrittura in norme utili a perfezionare un’ideologia. Lo scrittore, sempre, scrive come se stesse scrivendo le ultime parole, in punto di morte, con la pistola puntata balla tempia. Altrimenti, ci sta pigliando per il culo. Sempre lo scrittore scrive come se fossero gli ultimi giorni del mondo, senza difese, inselvatichito da una innocenza puttana. Altrimenti, sarebbe un operaio che vuole vendere la propria opera al prossimo, fare fama, comprarsi una villa, e sputtanare il proprio tempo implorando la fine dell’uomo.

Arrogante, narcisista, perbenista, Ben Okri. Nella sua catechistica orazione cita gli abitanti di Atlantide (!) e quelli di Pompei, “non è dato a molti uomini percepire che la fine del tempo è alle porte”. Siamo addirittura alla fine del tempo? Pur ammantato da sorrisi zuccherosi e da auree intenzioni – “ci è chiesto uno speciale amore per il mondo, l’amore di coloro che scoprono il sublime valore della vita proprio perché stanno per perderla” – l’ideologia di Ben Okri è per lo più nichilista. Se non c’è nulla in cui credere, aggrappiamoci per lo meno alla fine del mondo, all’idea di essere i privilegiati protagonisti di qualcosa, finalmente, di definitivo. Che Ben Okri plachi la sua esegesi masturbatoria: non siamo gli eredi degli atlantidei; non siamo degni neanche della fine.   

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