Il ragionier Ugo Fantozzi rappresentava l’ircocervo, l’allegoria, sarebbe più corretto scrivere, di quel singolare tipo umano che era l’impiegato amministrativo; certo, nel suo caso, vessato, ma in realtà lente con la quale si poteva decrittare la vita nel parallelo mondo del pubblico. Gli episodi comici, i tratti di imbarazzante squallore, l’esasperazione dei rapporti umani, i parossismi di quotidiane avventure, l’uomo medio in tutta la sua picaresca biografia lavorativa ed esistenziale si materializzavano nell’uomo fantozziano. È quello che tutti ricordano. Le partite di calcetto scapoli contro ammogliati, la visioni allucinate della Madonna, i desideri regali dei direttori galattici, i trenini di impiegati che corrono puntuali a timbrare il cartellino per poi fuggire, attraverso finestre e condotti di aerazione, verso il secondo lavoro. Un’elefantiaca macchina dei sogni, sia belli che terribili s’intende, si apriva alla vista di chi accedeva al caicco del pubblico impiego. Per i più spregiudicati? Un concorso pubblico e in cambio si poteva prendere non solo il dito ma l’intero braccio, assenteismo o pensione under 50 che fosse.
Tutti gli ignoti, impuniti, invisibili colleghi del ragioniere-lavoratore, con la complicità di un sistema di controlli pubblici ultra-permissivo, si direbbe quasi “liberoscambista” nel mercato dei favori, hanno fatto sì che negl’anni la barocca architettura in cui erano incasellati, si irrigidisse, formalizzandosi, certo lentamente, in un sistema organizzativo meno umano, più aziendalistico ma maggiormente votato all’efficienza. Un’efficienza ancora in fieri, solo parzialmente compiuta, e non ancora percepita nel mondo di sempre, quello del non-pubblico.
L’irrigidimento viene certo percepito dai novizi, appena entrati in quella terra sempre meno parallela in quanto, a fronte di un corretto ingresso per idoneità di concorso vi è l’incertezza della propria permanenza legata a forme di controllo sulla propria prestazione lavorativa esercitata dall’alto di chi una forma di controllo qualitativo mai la ricevette perché, il Pater Noster lo citava chiaramente, «se il posto è fisso nessuno può farti fare le valigie».
Un’altra categoria che si impatta con le novità del pubblico sono i concorsisti. Per parlare del contingente, si è da poco conclusa la fase scritta dell’ultimo concorso per docenti, una platea di aspiranti gigantesca, da chi ambisce ad insegnare alle scuole elementari fino ad arrivare ai licei. Una gran cacofonia per un gran placebo di massa. Difatti, i circa 29.000 posti presentati con squilli di trombe dal Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM), dovendosi dividere fra regioni, classi di insegnamento e ordini di scuole, diventano presto briciole: per la classe di storia e filosofia nella regione Toscana vi è un solo posto; per quella di fisica sono disponibili 4 cattedre in Umbria; la classe di matematica, una delle più bisognose di personale, a fronte di numeri abbastanza alti in Campania (110) e in Lombardia (211), ne propone solo 9 in Basilicata e 15 in Abruzzo; la classe di storia dell’arte non concede neanche il bis in ben 9 regioni (Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Toscana e Umbria); alcune classi di insegnamento non figurano neppure nel tabulato a suddivisione regionale licenziato dal MIM in quanto le cattedre disponibili soni pari 0.
Tale dinamica di sparuta offerta di cattedre a fronte di un alto numero di pensionamenti è spiegabile solo in termini demografici. La piramide delle età in Italia è capovolta; nei prossimi anni ci saranno sempre meno bambini, quindi meno fruitori di plessi scolastici: in modo cinicamente lungimirante lo Stato vuol aprire lo spazio del precariato – che, si badi bene, probabilmente in una forbice temporale circoscritta ai prossimi 10-15 anni, lavorerà molto – poiché non ha alcuna intenzione di assumersi l’onere di stipendiare docenti che in pochi lustri si ritroverebbero nell’alveo del pubblico ma senza alunni a cui elargire conoscenze. Dipendenti pubblici senza la necessità di lavorare.
Un’altra componente è l’oggetto della prova scritta del concorso per la scuola. Non viene più richiesta la conoscenza specifica della propria classe di concorso (sarà vagliata solo durante la prova orale) ma essa è stata omogeneizzata per tutti gli insegnamenti attraverso quesiti di ambito psicologico e pedagogico, sulle metodologie di insegnamento, sulle onnipresenti inglese e informatica. Questo nella speranza certo onorevole per un sistema scolastico che vuol conoscersi sempre meglio, ma effettualmente inattuabile in classi di trenta alunni, di voler formare un docente in grado di individualizzare l’insegnamento, ossia di adattare gli argomenti specifici di una disciplina alle peculiari forme di intelligenza di ciascun discente, affinché un voto non sia il frutto di una mera prestazione ma piuttosto di un percorso di maturazione tanto cognitivo quanto umano. Probabilmente un’utopia, almeno nella scuola di oggi.
Pertanto, l’oggettiva semplicità della prova scritta – superata da circa l’80% dei partecipanti – è strumento con cui il governo si ingrazia la grande massa dei precari di domani. Oltre al valore di merito psicologico, nei fatti, superare un concorso pubblico porterebbe solo un “gettone”, un punteggio in grado di valorizzare chi dovrà, vista l’inaccessibilità al posto fisso, iscriversi nelle graduatorie scolastiche provinciali (GPS), catena e allo stesso tempo salvagente del docente precario.
I benefici del pubblico, purtroppo o per fortuna, non sono più quelli degli anni in cui il ragionier Fantozzi era in servizio, sono divenuti meno di una medicina, un placebo appunto: dipende tutto dalla volontà del singolo di credere nei benefici dei suoi effetti o di deprimersi per la loro inefficacia.