“Literature does not exist in a vacuum, writers have a definite social function“. Così si apre il terzo capitolo di “ABC of Reading” di Ezra Pound. Già dal titolo dell’opera, si può osservare un duplice intento dell’autore: da un lato quello di costruire una teoria poetica, dall’altro quello di insegnare qualcosa. Nella totalità dell’opera di Pound, un vorticoso ipertesto in cui si mescolano storia, economia, diversi linguaggi naturali ed artificiali, un filo conduttore che emerge è l’autobiografismo che però non appare mai come una raccolta di meri memorabilia, ma come un continuo travaso di conoscenza: ciò che viene imparato direttamente dal poeta, viene a sua volta insegnato dal poeta stesso. Una raccolta di lezioni, insomma, che Pound non solo rivendica, ma che si premura di trasmettere alle “nuove leve” della poesia.
Che lo scrittore, o l’artista in generale, avesse una funzione sociale ben definita Pound lo aveva scoperto tardi, solo nel 1920, quando pubblica l’agile poemetto Hugh Selwyn Mauberlay. Qui si racconta la vita di un versatissimo ma pavido poeta, un creatore abilissimo ma passivo, che non sa cosa fare dei suoi versi, rinuncia a prendersi la responsabilità di ciò che scrive e, per questo, i suoi meravigliosi componimenti verranno maltrattati e dimenticati alla sua morte.
L’ignavia del protagonista del Mauberlay (vero e proprio ritratto in negativo di sé stesso) è, per Pound, una prospettiva sconcertante, quasi quanto la naturale timidezza del suo amico T.S.Eliott, ribattezzato affettuosamente Possum.
Mauberlay è prigioniero di quella cinica mollezza da salotto che Pound rifuggì andando via da Londra in fretta e furia, ma il personaggio resta, quasi una tentazione buttata su carta per allontanarla da sé. Pound scrive per insegnare ciò che ha insegnato a sé stesso.
Ancora 25 anni dopo il Mauberlay, Pound rivendicherà l’importanza, la necessità quasi di prendere posizione in una delle lotte che animano il mondo. L’illusione di chi crede che la storia, come scrive Eliot in The Waste Land, si faccia con un lamento, non con uno schianto è rigettata in toto da Pound: la storia è un susseguirsi di schianti, di lotte, di sotterfugi e di violenza aperta, e in questo senso chi non si schiera, chi finge di essere morto (come un opossum) è ignaro partecipe. La morte di Mussolini e Claretta Petacci, che apre i Canti Pisani è uno schianto; la tragedia della Prima Guerra Mondiale non può non esserlo. Rifugiarsi nell’ignavia e nell’ozio corrisponde a lasciare il campo, a ritrarsi dai propri doveri prima di essere umano e poi di poeta. Nella società pre-globalizzata di inizio secolo, Pound osserva l’economia americana farsi finanza, vede la nascita di grandi distribuzioni internazionali, studia le influenze che, ad ogni latitudine storica, mercanti hanno avuto sui governi. Teorizza lo stato d’ansia in cui i lavoratori si trovano poiché il capitale ne erode progressivamente la stabilità trent’anni prima di Sennett e Baumann, tocca con mano la Grande Guerra e ne ricerca le cause in un odioso disegno di colonialismo economico da parte dei governi Inglese e Americano. Scrive, quasi per togliere ogni ulteriore dubbio; “Il pacifista che si rifiuta di indagare le cause economiche della guerra fa causa comune con il mercante di armi“. Per Pound il capitale che destabilizza i lavoratori è lo stesso che ha voluto la Grande Guerra, è Usura “old bitch gone in teeth”, concetto multiforme che rappresenta filosoficamente l’avidità, più concretamente gli interessi del grande capitale.
Ma “ABC of Reading” non è solo la dichiarazione di intenti di un artista militante, è soprattutto un vademecum per il lettore che deve porsi in dialettica con le opere, uno scritto teorico di vasta erudizione. A parte le felici intuizioni prettamente letterarie, come la sezione in cui Pound asserisce che il linguaggio poetico possiede tre capacità creative (nel dettaglio phanopoesis– capacità di suscitare immagini nella mente, melopoesis- capacità di essere declamato musicalmente, logopoesis– capacità di evocare sensazioni), il poeta americano asserisce che la fruizione di un’opera richiede un impegno bidirezionale: da una parte l’autore è responsabile del linguaggio che usa, dall’altra il fruitore deve scegliere con attenzione le fonti cui abbeverarsi. Questo non significa che si debba leggere solo quello che ci piace, ma che si debba, possibilmente, ricercare la qualità. Nonostante si sia portati ad apprezzare gli scrittori che sono d’accordo con noi, esiste un criterio oggettivo con cui si misura la grandezza di un autore: “Good writers are those who keep the language efficient“.
Lontano dagli accademismi à la Harold Bloom, Pound afferma che il linguaggio deve essere equilibrato tra espressione e significato: come a dire, non è la forma (o la nettezza dello stile) a fare il contenuto (a conferire all’opera valore complessivo), ma non si può aprire una scatola di scarpe e pretendere di trovarci dentro un violino.
L’obiettivo non dichiarato, ma palese è quello di insegnare a fruire, di educare la platea. Probabilmente prendendo spunto dall’ideale di armonia confuciana cinese, sua seconda patria d’elezione dopo l’Italia, la responsabilità sociale del letterato non può essere che quella di creare le condizioni per cui la bellezza e la qualità dell’arte possano diffondersi il più possibile.
L’arte in Pound è non solo una responsabilità, ma è anche il veicolo attraverso cui mettersi in dialettica con la tradizione, che non è un mazzo di catene, per citare le sue parole, ma una bellezza da conservare. Questa posizione ricorda da vicino il concetto di negoziazione tra l’uomo e la sua identità, al centro di numerosi studi etnografici. Gli studiosi sono concordi nell’affermare che una delle primarie esigenze di ogni individuo sia quella di autodefinirsi come parte di…e contrapposto a…. De Martino pensava che la replica spasmodica e l’insistenza nella tradizione fossero il rifugio di gruppi che avevano -in una sorta di sentimento inconscio collettivo- il sentore di sparire dalla storia. Pur facendo la tara tra i due concetti (De Martino parla di tradizione folklorica, Pound di tradizione letteraria) sembra che il poeta americano percepisca una simile urgenza: la tradizione è viva se si arricchisce di nuovo e se preserva il bello, non se si fossilizza.
In questo modo agisce l’arte, in Pound: con uno schianto. È la chiave di volta per un sapere diffuso, è uno strumento con cui indagare il mondo, una irresistibile tentazione di bellezza contro la dittatura dell’utile (Pound conia il termine daneistocrazia: potere ai mercanti. I quali, stando a Mario Sconcerti, “non hanno anima per professione”). Certo, è anche puro intrattenimento, e il poeta americano è entusiasta di riconoscere l’importanza dell’ozio (che per Pound non ha alcuna connotazione negativa: nell’ABC dell’Economia arriva ad asserire che la giornata lavorativa perfetta dovrebbe essere di 5 ore per permettere ad ognuno di godere di un meritato ozio) e del lato disimpegnato dell’arte, ma questo deve corrispondere a una forte volontà dell’artista stesso: è lui a fare le regole non le case editrici, non le reti televisive.
La filosofia di Pound corrisponde in sostanza ad una visione radicalmente anti-utilitaristica dell’arte, coerentemente con il resto del suo pensiero. “La vera solidarietà“scrive “vi è fra chi ha infranto la legge“, gli artisti devono fare cartello, pubblicarsi l’un l’altro, in barba ai gusti e alle simpatie personali, purché si abbia oggettivamente (sempre secondo la categoria poundiana dell’efficient language) qualcosa da dire. Pound stesso si profonde in aiuti economici o critici, anche ad artisti che umanamente non sopportava. L’artista è il proprietario della sua opera che poi dona -nel senso Maussiano di dono, cioè di scambio pre-economico informale basato sull’elezione di affettività – ecumenicamente.
È molto utile rileggere Pound in un momento in cui le strategie progressive di stigmatizzazione della militanza da parte delle Democrazie Occidentali sta dando i suoi frutti più maturi. Tanto più che la professionalizzazione degli artisti ha diffuso uno strisciante paradigma utilitarista nelle produzioni culturali che farebbe rabbrividire il poeta americano. Obiettivamente, inserita nelle reti, l’industria culturale è un conglomerato come un altro che cerca di fare affari, con un agguerrito cartello oligopolistico al vertice che detta legge. Ad andare per la maggiore ultimamente, su questo versante, sembra essere il racconto nostalgico di una militanza passata, attraverso le cui lenti schiere di artisti-intellettuali (a volte perfino ex-sindaci) pret-à-porter pubblicano film intimisti, romanzi, lunghe interviste cercando di relegare l’impegno politico/sociale ad un capriccio di gioventù.