Patriots vs globalists. La frattura politico-culturale non costituisce una variazione sul tema inedita, come sembra lasciarla passare Gideon Rachman sul Financial Times riferendosi all’attuale corsa presidenziale in Francia, ma è oggetto di ricerca scientifica e di vivace dibattito almeno dalla grande crisi finanziaria del 2008-2009. Il processo causale è interpretabile con le teorie politiche di Lipset e Rokkan, in quanto è per effetto della divisione sociale, prima ancora che culturale, tra sostenitori e critici, tra vincitori e vinti della globalizzazione economica e finanziaria che nuovi partiti sono scesi in campo nei Paesi occidentali e hanno assistito a un progressivo consolidamento del proprio elettorato.
“Non ci sono più destra e sinistra. La vera scissione è tra i patrioti e i globalisti.”
Marine Le Pen
Non sarà necessario ricorrere alla categoria usata e abusata di “populismo” per inquadrare con precisione il problema, ma sia sufficiente ricordare che, nel discorso scientifico, sono state definite populiste anche quelle formazioni politiche che insistono sulla linea di demarcazione “noi-loro”, tra comunità dei connazionali ed extracomunitari. Qui, però, la questione verrà posta in altri termini, focalizzando l’attenzione sulla prospettiva economico-finanziaria del braccio di ferro tra difensori dell’interesse nazionale e globalisti. Una prospettiva che molto ha influito, seppur silenziosamente, sulle politiche economiche dei governi occidentali fin dallo scorso decennio e che ora torna ad accendere i toni della dialettica politica nella campagna elettorale in Francia.
“La nuova divisione politica è tra coloro che hanno paura della globalizzazione e coloro che vedono la globalizzazione come un’opportunità.”
Sophie Pedder, biografa di Emmanuel Macron
22 dicembre 2017. Con la firma del Tax Cuts and Jobs Act, Donald Trump inaugura una stagione di riconquista di capitali e interi comparti dell’apparato industriale americano. Alla presa etnonazionalista esercitata dal tycoon nella campagna del 2016 sulla Rust Belt era stato attribuito dalla maggior parte degli analisti un ruolo decisivo e Trump non poteva deludere le aspettative degli “sconfitti della globalizzazione”: serviva una risposta efficace al declino del motore produttivo del settore secondario statunitense, segnato da anni di elevata disoccupazione, calo dei redditi medi e mediani, crescita dei tassi di criminalità, declino dei tassi di scolarizzazione e di crisi demografica.
Secondo un rapporto stilato dal Board of Governors of the Federal Reserve System, le imprese hanno riportato in patria 777 miliardi di dollari nel 2018, circa il 78% dello stock stimato alla fine del 2017 delle disponibilità liquide all’estero. I dati positivi sulla crescita e sul consolidamento economico degli Stati Uniti hanno dato in parte conferma, al netto dello shock pandemico, della validità delle ricette della Trumpnomics e c’è chi ha scorto in quel frangente il segnale di un riflusso della globalizzazione neoliberale. L’indirizzo di politica economica impresso dall’amministrazione Trump ha assunto un evidente valore simbolico; tuttavia c’erano forze sotterranee che avevano innescato già all’inizio del decennio un’ondata di de-globalizzazione.
“L’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine alla globalizzazione che abbiamo vissuto negli ultimi tre decenni.”
Larry Fink
L’inversione di marcia del commercio internazionale aveva preso avvio a seguito della grande crisi finanziaria del 2008 ed era stata accelerata nel 2014-2015 da alcune tendenze catalizzatrici: il rallentamento del mercato agroalimentare globale, la contrazione degli scambi di risorse fossili e minerarie, il ridimensionamento della politica commerciale cinese del tipo export-led e il calo della domanda di materie prime ed energia da parte delle economie emergenti. È una versione contrastante con quella che ha prevalso nella narrativa pubblica, secondo cui sarebbe la combinazione micidiale di shock pandemico e guerra russo-ucraina ad aver mandato in cortocircuito la globalizzazione.
“La mia convinzione che la Francia dovrebbe essere una nazione più indipendente è cresciuta durante una pandemia che ci ha mostrato le nostre vulnerabilità e dipendenze. […] La guerra ce lo ribadisce rispetto ai settori dell’energia e delle materie prime.”
Emmanuel Macron
Pour une Nation plus indépendante, recita una grafica proiettata alle spalle di Emmanuel Macron in una delle uscite pubbliche dello scorso marzo. Mentre il termine decoupling ha cominciato molto di recente a infestare convegni internazionali e articoli pubblicati da riviste autorevoli, è in Francia che il tema dell’urgenza di governare la globalizzazione anima il confronto politico, economico e culturale da ben prima dello scoppio della pandemia. Eppure, è proprio dinanzi alle pesanti ripercussioni della pandemia sulle catene globali del valore (GVCs) che ha ripreso quota l’idea di porre un freno alla deregolamentazione in atto da trent’anni e di riattivare i meccanismi regolatori del mercato di cui lo Stato dispone.
Ci si guardi bene dal definirla “guerra di matrice ideologica”: il fenomeno delle delocalizzazioni verso i paesi a basso costo del lavoro e della de-industrializzazione del territorio francese, le forme di specializzazione produttiva e di pericolosa concentrazione delle filiere strategiche in un ristretto numero di paesi costituiscono ragioni tutt’altro che ideologiche e invocano il ritorno in campo dello Stato. Se persino un sostenitore convinto delle deregolamentazioni come Macron ha cambiato approccio ai dossier di principale interesse nazionale, virando su posizioni economiche più dirigiste, ciò vuol dire che nella classe dirigente francese esiste un comune intendimento, che prescinde dai colori politici, sull’esigenza di mettere al primo posto dell’agenda politica la sicurezza nazionale, specialmente nel campo dell’energia e delle commodities.
“C’è effettivamente una contrazione in atto delle catene di produzione globale.”
David Cousquer
Circa 115 rilocalizzazioni avvenute in Francia da settembre 2019 e 45 solo durante il 2021, che hanno generato ciascuna almeno 5 posti di lavoro sul territorio francese. Sono i numeri dello studio condotto da Trendeo in tema di reshoring, che ha evidenziato anche l’accorciamento delle catene di produzione: nel 2020, la distanza tra centri decisionali e luoghi di destinazione degli investimenti è scesa di quasi il 5% a livello mondiale, il massimo osservato dalle rilevazioni effettuate da Trendeo dalla sua creazione nel 2016. C’è da aggiungere, tuttavia, che 31.740 posti di lavoro sono stati trasferiti dalla Francia verso l’estero tra il 2009 e il 2021, mentre 4.885 posti di lavoro sono stati creati rilocalizzando l’attività produttiva in Francia nello stesso periodo.
Un rilancio della sovranità nazionale, nelle sue svariate accezioni, esaltato dall’intervento massiccio della “mano visibile” è possibile? Negli ultimi due anni, i due candidati alle elezioni presidenziali francesi che si sfideranno al secondo turno si sono distinti sulle tematiche socio-culturali e rincorsi sull’asse degli orientamenti di politica economica, con una recente convergenza su posizioni dirigiste. Con la differenza che per Macron non ci può essere France souveraine senza Europe souveraine: nella retorica politica, il presidente uscente divide i dossier tra quelli di competenza nazionale e quelli di competenza europea, ma concepisce la sovranità dell’Unione come naturale potenziamento della sovranità statale. Mentre Le Pen e Zemmour avanzavano la proposta di ridurre la dipendenza economica della Francia dalle catene globali del valore e di fermare la de-industrializzazione con imponenti investimenti pubblici, Macron ha potuto offrire agli elettori l’esempio concreto del sostegno dato con il piano “France 2030” a settori strategici come aerospazio, biotecnologie, nucleare, tecnologia cloud e intelligenza artificiale. Ma non basterà a prevenire una possibile nuova stagione di “giletjaunisation” delle piazze.
Secondo Macron, sarà compito dello Stato acquisire quote di capitale in aziende aventi missioni di rilevanza pubblica e si può affermare con ogni probabilità che il suo riferimento è rivolto, anzitutto, alla Electricité de France (EDF), che gli avversari di destra hanno proposto di nazionalizzare. E anche la neutralità climatica viene adattata all’urgenza di rilocalizzare i comparti strategici nel programma del presidente uscente, con la promessa di realizzare con investimenti pubblici filiere interamente francesi di auto elettriche, impianti eolici offshore e pannelli fotovoltaici. Nonostante la congiuntura economica sfavorevole, la “Francia dei patrioti e dei globalisti” si prepara ad affrontare la grande tempesta che seguirà la crisi pandemica e la guerra russo-ucraina. D’altronde, il dirigismo francese è naturalmente portato a esprimersi nella sua forma più compiuta in periodi di emergenza economica. Anzi, con il Washington Consensus al tramonto, dalla Francia potrebbe nascere un paradigma politico ed economico alternativo, con caratteristiche europee (ovvero francesi) e non genericamente occidentali. Quale genere di paradigma, dipenderà dall’esito del secondo turno delle presidenziali, ormai alle porte.