“Sono trascorsi all’incirca tre settimane dal giorno della nostra rovina…”
Si apre con questo incipit, la seconda parte del diario tenuto dal premio Nobel Ivan Bunin, a pochi giorni dalla salita al potere dei bolscevichi in Russia. Una presa di potere raccontata con crudele lucidità e totale disincanto. Guardando agli eventi tragici e decisivi di quei giorni senza le illusioni degli scrittori impegnati, che come Blok dicevano che la rivoluzione era una tempesta e loro sarebbero stati il vento dell’avvenire, ma nemmeno con le inutili nostalgie degli altri controrivoluzionari, schiacciati nell’idealizzazione della monarchia assoluta e dei Romanov. Con lo sguardo del testimone e del cronista, dell’autore colto e raffinato, ispirato da Leopardi e Cechov, che sa guardare all’uomo senza le illusioni degli utopismi e dei razionalismi, con disincanto e profondità. Tali premesse rendono Giorni Maledetti, proposto per la prima volta al pubblico italiano dall’editore VOLAND, non solo il diario di parte di un nobile controrivoluzionario di fronte all’ascesa del comunismo, ma soprattutto il ritratto assoluto di tutte le rivoluzioni umane, delle stragi delle illusioni e le illusioni che muovono le stragi. Attraverso il ritratto insanguinato e crudele, delirante e fanatico del clima della Russia alle porte della dittatura. Con i suoi giornali censurati e monopolizzati (“i giornali escono con le colonne bianche”), con le opinioni volubili e iperstimolate della folla, con le voci false e le isterie collettive, la ricerca dei capri espiatori e dei mandanti occulti. Tutto ciò che spaventa l’uomo e tutto quello che è disposto a fare o sopportare per scacciare questa paura. A raccontare la cronaca di quei giorni fatali, lui, Ivan Bunin. Il nobile, l’aristocratico, il controrivoluzionario, il testimone. Che sente il peso della paura che accompagna la caduta del suo mondo, il precipitare di ogni ragione di vita, di ogni certezza o forma certa. Nato da una decadente famiglia aristocratica delle campagne nel 1870, è il cantore del declino che segue lo scardinamento di quel mondo arcaico e patriarcale, fatto di nobili annoiati, cacciatori ricoperti di brina, servi della gleba. Trono, altare e toska. Ovvero quella noia, apatia, abulia, che accompagna gli uomini travolti dalla precarietà e dall’instabilità portata dai cambiamenti della vita, dai languori di una vita annoiata e alla deriva, che porta nobili e contadini a rispondere con apatia e durezza all’esistenza. Bunin nei suoi romanzi costruisce l’affresco di questo mondo, messo in crisi dall’abolizione della servitù della gleba, che più che portare liberazione e certezze, ha portato confusione e frammentazione. La toska e il disagio della civiltà entrano nelle opere del premio Nobel russo, che, allievo di Cechov, le fonde con un freddo e duro realismo, che gli permettono di guardare l’animo umano senza falsità o illusioni. Raccontando ne “il villaggio” e “Valsecca” il ritratto spietato dell’uomo e della Russia, di una natura leopardiana ed una società alla deriva, consolata dai culti delle utopie. Con lo stesso sguardo ritrae la rivoluzione russa, quella “catastrofe che segna la fine del regno dell’umano” e l’inizio di un mondo totalitario e folle. Folle del suo culto esatto dell’avvenire del proletariato, della giustizia senza dubbio, che muove azioni e proclami dei nuovi zaristi rossi.
Strutturato come un diario degli anni 1918 e 1919, Giorni Maledetti raccoglie incontri, proclami, atmosfere, voci, deliri, invettive, è come uno stetoscopio sul cuore della rivoluzione russa. Sentendo i palpiti feroci e contraddittori del popolo russo. Un popolo diviso e fratricida, stanco e indemoniato, alla resa dei conti con lo zarismo, mentre fa i conti della resa con gli imperi centrali. In una Mosca deserta e allucinante, in cui vagano dispersi ed erranti, soldati, muziki (contadini russi), commissari del popolo, rivoltosi, nobili pronti all’esilio. Una Mosca alle porte di una primavera crudele, in cui “tutto sembra possibile . in quest’epoca tutto è possibile”. Dal Cremlino in fiamme alla distruzione di tutte le chiese della città, dalle rappresaglie ai nobili e ai borghesi, al ritorno imminente della monarchia. Voci, nevrosi e fandonie, mostrano un clima di sospetto e incertezza, rappresentato da quei controrivoluzionari che aspettano i tedeschi come i greci con i barbari di Kavafis. Con i muziki che sostengono i comunisti, perché segretamente manovrati dallo zar. Aspettando lo zar dietro gli stendardi rossi. Illusioni e complotti che circolano in ambo le parti, con rossi che riportano in voga la vecchia propaganda nazionalista e identitaria, per smuovere la nazione, ai bianchi descritti dalla propaganda come atroci massacratori, e dalla controinformazione come invincibili, sempre a un passo dal prendere Pietroburgo e Mosca. L’autore accompagna il lettore tra le vie di città possedute, indemoniate dallo “spirito del rancore di Caino”, che si faceva avanti col nome e i gonfaloni, di lavoro, uguaglianza, fraternità, libertà. in cui vige il sospetto del vicino. Mostrando le divisioni, la caccia al nemico, al capro sacrificale, alla critica, alle difformità. Con le sue persecuzioni, i suoi isterismi collettivi, la rivoluzione russa diventa nell’opera dello scrittore de Il villaggio, il campione di tutte e rivoluzioni umane, con i rami in paradiso e le radici nell’inferno, con in testa la giustizia, camminando col delitto. La tendenza, che la accomuna alla rivoluzione francese, a creare uomini nuovi, istituzioni rivoluzionarie, con diluvi di decreti e comitati, le spartizioni del potere e la smania di rinominare nomi, città, vie, mesi talvolta.
“Mosca era ormai una città morta, benché i nuovi dominatori inscenassero un’imitazione del tutto folle, per incoerenza e frenesia, di un nuovo ordine, di una nuova gerarchia, quasi uno sfoggio di vita”, dove “adesso il popolo è come un gregge senza pastore, insozzerà tutto questo e si distruggerà da sé”.
Per Bunin il popolo non è né la vittima delle follie di un gruppo di fanatici, né il carnefice maledetto che si rivolta in nome dell’avvenire contro un ordine secolare. Il popolo, al contrario di Tolstoj o Dostoevskij, è un agglomerato stanco e stremato, rancoroso e crudele, ma allo stesso tempo ingannato dai suoi idoli, per cui parteggia per opportunismo, ma anche per stanchezza, per i troppi soprusi e abusi. È vittima delle sue scelte e complice dei misfatti dei suoi governanti. Non è mai innocente o sempre colpevole. È ambiguo, come sono ambigui e volubili tutti gli uomini, è contraddittorio, come tutti gli insiemi umani, aizzati da slanci irrazionali, rancori e bisogni legittimi. Che si dispera perché “hanno liberato i criminali e ora sono loro a governarci”, ma anche, di fronte ai massacri del governo rivoluzionario, che “questo sangue ci vuole, voi ci sguazzate da trecento anni”. assordati dagli slogan “avanti compagni non contate i morti”, mostrando la predisposizione di ogni uomo all’idolatria, di guardare al potere solo come potere assoluto, a Lenin o Trotzky come zar e sovrani assoluti. Non chiudendo gli occhi sugli errori, sui crimini, sulle mancanze dello zarismo, né sull’azione dei bolscevichi. Cantori della libertà applicano la censura, crudeli e cinici si indignano per i crimini di guerra dei controrivoluzionari, che si giustificano che “le rivoluzioni non si fanno con i guanti bianchi, ma si scandalizzano che allora i bianchi li fanno col tirapugni”. Mostrando che la rivoluzione russa è certamente un “fenomeno naturale, ma come la peste o un terremoto”. Anni decisivi che mostrano una Odessa avvolta da un clima di menzogne e distorsioni, calunnie e deliri. In cui nessuno può far a meno di odiare o mentire. Un clima che viene alimentato e fecondato dai tribuni dei giornali, i plutarchi della rivoluzione. Coloro che grazie al proprio arrivismo o alla propria stupidità, salperà sui velieri della rivoluzione, solcando fiumi di sangue. Che non racconterà se non la storia della propria parte, sminuendo, oscurando gli orrori, i delitti.
”E a offrire il suo aiuto sarà la letteratura che distorcerà ogni cosa e dietro un unico santo grazierà diecimila impostori e ciarlatani. Beati quelli che hanno conosciuto questo mondo in quetsi giorni fatali, beati i morti”.
Questi “ciarlatani” che saranno i veri salvatori della rivoluzione e che per essa assolveranno tutte le colpe ed in generale faranno “la cosa più terrificante, la più terribile e vergognosa nemmeno gli orrori e le oscenità, ma il fatto che sia necessario chiarirli, discutere se siano buoni o cattivi, raddrizzarli, considerarli necessari, giusti”. Per Bunin l’esperienza dei Giorni maledetti, non è solo la catastrofe personale e nazionale, il crollo di un mondo e di una società, è la testimonianza, dai toni biblici dell’animo umano e della condizione di tutti gli uomini. “L’uomo che vivrà tra cento anni sarà ancora la medesima carogna, il suo valore lo conosco già”, che scusa le proprie aberrazioni attraverso le utopie e le illusioni, che cerca il nemico, il colpevole, lo trova nel borghese, nel nobile, nell’ebreo, nel traditore, mai in sé, mai nella propria mente. Una brutalità fanatica insita nella rivoluzione russa, nel nazismo, nell’opulenza moderna. Che condannerà, vivisezionerà nei suoi romanzi nei suoi libri. Mostrando in Giorni Maledetti, il giorno in cui tutto crollò, in cui non ci furono più barbari, ma solo selvaggi. Con una visione tra Verga, Leopardi e Cechov, mostrando che “ci si salva solo grazie alla debolezza delle proprie doti, alla debolezza dell’immaginazione, della capacità di prestare attenzione, del pensiero – altrimenti sarebbe impossibile vivere”. Come Geremia controrivoluzionario, Bunin mostra al lettore una Russia fratricida e crudele, fanatica e disperata, dura e affranta, lo fa con il suo stile severo e aristocratico, essenziale e freddo, crudo e duro, che però sa lasciarsi andare alla disperazione all’intimismo, alla sua terra che vede in rovina e che dopo poco dovrà abbandonare in quanto perseguitato politico, mostrando tutte le buone intenzioni che lastricano la strada per l’inferno.