Nel brano La ninna nanna di Mazzarò, Caparezza – prendendo spunto da un racconto di Giovanni Verga -mette in guardia l’ascoltatore da un’oscura figura che esercita il suo dominio su ogni aspetto della vita quotidiana degli individui. Mazzarò possiede la casa editrice, le comunicazioni, “è proprietario di ogni ente, anche inesistente”; esercita alla perfezione quella che si potrebbe definire una tirannia. Ciò che rende la tirannia di Mazzarò irriconoscibile è la sua apparenza da affabile bon vivant. Per noi, generazione abituata a discutere intorno al potere della comunicazione, il brano di Caparezza – per quanto geniale nella sua costruzione – ha una morale, in fondo, banale. Il potere, in ogni tipo di forma, ha bisogno per forza di cose di grande attenzione nella sua autorappresentazione e l’esercizio di questo stesso potere deve presentare un volto chiaramente legale, benevolo. Nella nostra attuale congiuntura storico-politica, appunto, queste conclusioni sono assodate, accolte come tautologie, la natura stessa del potere – rappresentata dai media – prevede che siamo molto ricettivi alle discrepanze fra esercizio di potere e sua comunicazione, quasi come se ci accomunasse un sentimento del sotterfugio comunicativo che, come un sesto senso, ci permetterebbe di essere protetti dalla maggior parte di queste strategie.
Ciò, d’altra parte, ci porta ad immaginare la dimensione del potere come un elemento a cui solo i più esperti in tale arte possono aspirare, quelli, per intenderci, che stimolano di meno il sesto senso di cui sopra. La convinzione positiva che aleggia attualmente è che le moderne strutture che regolano l’accesso e l’esercizio del potere (seppur perfettibili, assai avanzate) unite con questa sorta di naturale inconscio collettivo, costituiscano una barriera insormontabile per tutti coloro che provassero a riproporre modelli lideristici o anti-democratici. L’avanzamento delle strutture politiche e delle libertà sociali, inoltre, sarebbero il corollario alla convinzione che il sistema democratico sia un passo in avanti, un emblema distintivo di un’epoca di civiltà; e le libertà introdotte da questa epoca democratica sia intorno che dentro gli individui non siano assolutamente negoziabili, in alcun caso.
Generalmente, ciò porta ad un’idea di campo piuttosto generalizzata: il sistema perfetto della democrazia è minacciato dall’arroganza di singoli individui – siano questi fanatici o manipolatori assetati di potere – che vedono il dominio assoluto come inevitabile. Ad una lettura superficiale, il Dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu non fa altro che corroborare questa idea, non apportando nulla di innovativo all’idea che abbiamo di queste dinamiche. Machiavelli, alfiere del male, si fa voce della dittatura, evidenziando passo passo le strategie che un individuo “cosmico” dovrebbe intraprendere per installare una dinastia in un Paese democratico, mentre il filosofo del diritto francese Montesquieu si indigna, si difende, e tiene alta la bandiera della democrazia come sigillo della civiltà, sistema che ha senz’altro le sue disfunzioni, ma che si presta più di ogni altro a garantire la pacifica coesistenza degli individui. Sempre alla lettura superficiale di cui sopra, è facile osservare l’aderenza di Maurice Joly (l’autore) con il punto di vista di Montesquieu: le tentazioni antidemocratiche sono il frutto di ingegni votati al male, di brillanti megalomani. Ad una sola domanda, infatti, Machiavelli non riesce a rispondere in maniera soddisfacente in tutta l’opera: “Come farete a trarre dal male il bene?”.
Non è una discrepanza da poco: tutto il dialogo si impernia sulla premessa, da parte di Machiavelli, che il male che avrebbe illustrato in maniera netta sarebbe stato funzionale ad ottenere il bene del paese e degli individui. Venendo meno questa prova, tutto il discorso di Machiavelli smette di sembrare un esercizio intellettuale portato allo stremo e comincia ad assomigliare piuttosto ad un monologo infernale, a una vera e propria ricetta per un colpo di Stato. Il malefico Machiavelli è dunque la rappresentazione perfetta dell’ingegno pervertito che mira al dominio, al potere centralizzato, all’invadenza capillare dello Stato. Se volessimo scomodare categorie novecentesche, Machiavelli è il campione del totalitarismo. La conclusione amara del dialogo, con Machiavelli che conclude il suo discorso preconizzando che il tramonto della democrazia è già in atto in Europa, fa risaltare in maniera netta l’eroismo della figura di Montesquieu. Un eroismo tragico, stanco e destinato alla sconfitta. Come il Pompeo della Pharsalia Montesquieu intraprende tutte le azioni necessarie per difendersi da un avversario inarrestabile, ma ha delle lacune imperdonabili per un duello di tale portata. Risalta infatti l’ignoranza assoluta del personaggio di Montesquieu riguardo a ciò che è accaduto, nel mondo politico europeo, dalla sua morte fino a quel momento, mentre Machiavelli proprio da quel periodo trarrà la maggior parte delle sue armi dialettiche. La sua inevitabile sconfitta, salutata dalla cinica osservazione del suo avversario “siete un perdente”, sembra lanciare in ultima istanza un monito all’Europa sui pericoli dell’ambizione sfrenata dei politici.
Tuttavia, leggendo approfonditamente il dialogo, Machiavelli sembra avere vita fin troppo facile fin dall’inizio. È vero che la figura di Montesquieu era, probabilmente, pensata in origine per essere lo sconfitto, ma le sue obiezioni al piano diabolico (e diabolicamente approfondito) di Machiavelli sono viziate spesso da un eccessivo idealismo, da strane forme di voli pindarici, da una morigeratezza discreta che spesso gli fa giudicare come “infernali” i piani di Machiavelli senza provare nemmeno a smontarli con il ragionamento. Spesso, alla lettura, si ha quasi l’impressione di un accordo tacito o, quantomeno, di una silenziosa curiosità da parte di Montesquieu, cosa che rende il Dialogo quasi privo di contraddittorio. E quando il filosofo francese trova argomenti di divergenza nei confronti di Machiavelli, questi sono spesso limitati al sentimento popolare, alla reazione che gli individui potrebbero avere di fronte alle sempre crescenti limitazioni di libertà cui andrebbero incontro, quasi ad imbeccare le risposte di Machiavelli. Certo, può darsi che, nella finzione letteraria, Montesquieu stesse giocando a immaginare credendo lo stesso del suo avversario, e il fatto che entrambi siano morti li mette, in tal senso, a distanza ideale per poter discutere senza eccessive passioni della sorte dei vivi. Eppure, anche analizzato pezzo per pezzo il piano di Machiavelli sembra essere troppo facile e troppo credibile. Non sembra avere alcun intoppo credibile, neanche quando si rapporta a istituzioni democratiche costituite appositamente per evitare l’eccessiva centralizzazione del potere. Se raggiungere il monopolio sulla carta stampata sembra facilissimo, l’infiltrazione di gruppi di pressione all’interno dei diversi partiti è roba da pochissimo. L’opera di corruzione del sistema democratico passa, inevitabilmente, per la conservazione della sua facciata, almeno per i primi tempi, ed in questo Machiavelli sembra non avere difficoltà di alcun tipo.
Ovviamente, si può pensare che un conto è discutere di un piano ed un conto sia attuarlo, ricordiamo che il tutto potrebbe essere letto come un esercizio intellettuale o un vaneggiamento, ma la limpidezza con cui viene raccontato il progressivo dipanarsi della matassa in ogni angolo dello Stato (economia, clero, esercito, giustizia) lascia davvero una sensazione di inquietante credibilità, di assoluta possibilità, sembra quasi di vederlo succedere. Ci si potrebbe cominciare a chiedere se il nostro sesto senso sarebbe in grado di riconoscere un attacco così raffinato, se esistano davvero geni assoluti in grado di architettare piani così perfetti. Ma, in maniera forse più inquietante, ci si potrebbe cominciare a chiedere se davvero il piano di Machiavelli sia male. Il filosofo fiorentino parla a lungo di intercettare il popolo, di concedergli benevolenza, di esercitare la giustizia in maniera equa, di schiacciare i baroni del sistema politico e giudiziario, di svincolarsi dal giogo delle banche, di distruggere le società segrete. Sembra che le disfunzioni del sistema democratico siano terreno fertile per l’assolutismo in maniera quasi naturale, e in questa luce Machiavelli non solo non sta forzando il suo destino, ma incarna un evento inevitabile. E se, nonostante il famoso sesto senso, non ce ne siamo accorti, era destino che accadesse. E questa, al contrario del brano di Caparezza, è una morale decisamente inquietante da mandare giù.