OGGETTO: Dante & i classici: una sfida
DATA: 23 Aprile 2021
I poeti della Bella scola nella Commedia: tra elogio, emulazione, sfida e superamento
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Nel mezzo del cammin di nostra vita, mentre Dante rovina in basso loco, perso nella selva oscura, con l’ultima speranza di salvezza impedita dalle tre fiere, vede costui nel gran diserto: è l’anima di Virgilio. Ecco che da subito, fin dal primo canto proemiale dell’opera viene svelato il legame e il richiamo al mondo classico, vera e propria costante nell’intera Commedia: l’altissimo poeta latino viene subito eletto come guida nell’incredibile viaggio dantesco, fino al Purgatorio. Ma Virgilio non è che il più importante e costante legame tra Dante e l’antichità. Creature ed eroi del mondo e della mitologia greca e latina popolano l’aldilà dantesco: personaggi antichi riprendono vita e, trasmutati dalle nuove terzine, vanno a collocarsi nella precisa architettura del mondo ultraterreno dipinta dal ghibellin fuggiasco. Nell’orrenda discesa verso Lucifero, Dante ci porta al cospetto di diversi mostri infernali: dal traghettatore Caronte al giudice Minosse, da Cerbero a Pluto, da Flegias a Medusa, dalle Arpie alle Erinni, da Issione a Caco… Tra le anime dannate si scorgono Paride e Achille, Didone e Cleopatra; rapisce la storia dell’indovina Manto ed è un vivissimo ritratto quello della meretrice Taide, seppur tanto diversa dalla raffinata cortigiana dell’Eunuchus di Terenzio – di cui Dante probabilmente non aveva una conoscenza diretta -, contaminata dalla tradizione medievale e resa da Dante come: 

“Quella sozza e scapigliata fante

che là di graffia con l’unghie merdose,

e or s’accoscia e ora è in piedi stante“

Inferno, XVIII

E poi ancor più giù, tra i consiglieri fraudolenti, avvicinati quei due che insieme vanno – Ulisse e Diomede – Dante ci inchioda ad ascoltare affascinati il folle volo di Ulisse, finché il mar fu sovra noi richiuso.

È certamente la prima cantica, l’Inferno, quella più intrisa di legami, richiami e personaggi delmondo classico. Tuttavia non mancano nel Purgatorio – si pensi a Catone l’Uticense, ricalcato sull’integerrimo personaggio della Pharsalia di Lucano – e nel Paradiso, seppur siano in misura via via minore: più si sale verso l’Empireo, più il mondo classico viene lasciato alle spalle, lontano dalla Beatitudine eterna, poiché legato al tempo degli dei falsi e bugiardi

Una tale presenza classica nell’opera dantesca non deve stupire: a quell’altezza cronologica, la letteratura latina rappresentava un vero e proprio modello. Siamo agli inizi del Trecento e nessuna opera in lingua volgare poteva far presagire il capolavoro dantesco: un’opera estesa, variegata, che tocca mille tematiche, la cui esposizione al tempo era riservata alla sola lingua latina. La forma poetica più alta scritta in volgare era stata, fino a quel momento, la canzone: è lo stesso Dante, nel De vulgari eloquentia, a portare come esempi di canzoni in stile tragico – e quindi adatto alla materia sublime – la sua Donne ch’avete intelletto d’amore, insieme a Donna me prega, del primo amico Cavalcanti. È in questo trattato che Dante si mette alla ricerca del volgare illustre: siamo agli albori della questione della lingua italiana. È qui che ripropone la ripartizione degli stili – tragico, comico ed elegiaco – tipica della retorica medievale, applicandolo però alle opere volgari. È qui che indica in Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano i regulati poetae, coloro che avevano poetato delle materie più alte, in stile tragico. Ma neanche qui c’è alcun indizio del poema sacro che inizierà a comporre di lì a poco. I poeti volgari non offrivano né prestigio né modelli per l’opera che Dante aveva in mente: è per questo che adotta come modelli i poeti regolati, prediligendo sempre come fonti i testi classici e non le vulgate medievali, anche se talvolta non aveva la fonte primaria. È il caso ad esempio di Omero, poeta sovrano: Dante non conosceva il greco, non aveva accesso diretto all’Iliade e all’Odissea. Ce ne accorgiamo subito nell’episodio di Ulisse, di cui Dante sembra ignorare il ritorno ad Itaca dopo la guerra di Troia. L’invenzione del suo ultimo viaggio di retro al sol, nel mondo sanza gente poggiava però, come suggerisce Silvia Rizzo nella sua lettura del XXVI canto, sulle innumerevoli informazioni su Ulisse che Dante leggeva nei regulati poetae, in particolare Ovidio, Virgilio e Stazio, ma anche Cicerone e Seneca: la sua invenzione sulla fine di Ulisse era pienamente autorizzata da quanto gli giungeva delle più autorevoli fonti latine. Su di esse si innesta l’epilogo. La figura dell’eroe classico è contaminata, come suggerisce Rajna, da quella degli eroi dell’epica cavalleresca: ciò avviene tramite il termine tecnico perduto, che per il fruitoremedievale rievocava la figura di quei cavalieri erranti che nei romanzi in prosa del ciclo arturiano si temono o si credono morti.

“O voi che siete due dentro ad un foco,

s’io meritai di voi mentre c’io vissi

s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,

non vi muovete; ma l’un di voi dica

dove, per lui, perduto a morir gissi”

Alla domanda di Virgilio risponde lo maggior corno de la fiamma antica, Ulisse, iniziando a narrare i suoi viaggi dal momento in cui lasciò la maga Circe, ed è un profluvio di richiami testuali e tematici alle Metamorfosi e alle Eroides di Ovidio. Poi la sete di conoscenza, il desiderio mai sopito di scienza e il folle volo. L’intera vicenda è caratterizzata dallo stile tragico, per la materia alta di cui si tratta. Il viaggio di Ulisse era destinato al fallimento: ha superato i limiti imposti da Dio, in aperta contrapposizione col viaggio dantesco (definito anch’esso folle, da un intimorito Dante personaggio in Inferno II) invece voluto da Dio, su intercessione di Beatrice. Ulisse fa affidamento sulla sola forza della ragione. Ma nella visione dantesca la ragione umana è limitata e l’ansia conoscitiva, benché sia la più nobile delle facoltà umane, non porterà mai alla comprensione dei misteri divini:

“Matto è chi spera che nostra ragione

che tiene una sustanza in tre persone.

possa trascorrer la infinita via

State contenti, umana gente, al quia;

ché se potuto aveste veder tutto,

mestier non era parturir Maria.

E disïar vedeste sanza frutto

tai che sarebbe lor disio quetato,

ch’etternalmente è dato lor per lutto:

io dico d’Aristotile e di Plato

e di molt’altri”.

Purgatorio III, vv. 34-44)

Il rapporto tra Dante e i regulati poetae nella Commedia è complesso e stratificato e passa dall’adorazione all’aperta sfida. Ma è in queste parole sofferte e piene di turbamento che Virgilio pronuncia sulla spiaggia del Purgatorio che si può trovare la chiave di lettura del rapporto tra Dante e i suoi modelli classici. La ragione umana non basta e la mancata conoscenza di Dio è un vero e proprio limite che impedisce la salvezza dell’anima: è questo il destino dei grandi uomini del passato, relegati nel limbo. Nessun peccato fu da loro commesso: sono perduti perché non ricevettero battesimo e così sono condannati a non conoscere mai la beatitudine eterna: sanza speme vivemo in disio. Dante nella sua opera però crea, discostandosi dal modello cristiano, un luogo a loro riservato nel limbo, un luogo privilegiato per i grandi spiriti dl passato: è il castello degli Spiriti Magni, l’unico punto dotato di una luce che vince le tenebre dell’Inferno. È protetto da sette cinte murarie e al suo interno vi è un prato di fresca verdura dove conversano gli spiriti; Ettore, Enea, Lavinia, Cesare; Socrate e Platone, Cicerone e Seneca; Aristotele e Averroè…

“L’onrata nominanza

che di lor suona su ne la tua vita,

grazïa acquista in ciel che sì li avanza”. 

Inferno IV

Da qui Virgilio è giunto in aiuto a Dante e qui l’altissimo poeta viene accolto dai suoi compagni della Bella scola: Orazio, Ovidio, Lucano e Omero che vien dinanzi ai tre sì come sire. Dante si trova così a conversare con quelle che secondo il canone medievale erano le massime autorità della letteratura classica – manca solo Stazio, salvato da Dante e posto tra i prodighi del Purgatorio. Abbiamo in questo episodio una vera e propria dichiarazione di poetica dantesca:

“E più d’onore ancora assai mi fenno,

ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.” 

Inferno IV

Dante si include nella Bella Scola, dichiarando così i modelli poetici a cui si ispira per la creazione della sua eccezionale opera. Dante però, ponendosi per ultimo nella schiera, si eleva in realtà a primo: è il migliore perché viene dopo, conosce Dio e può aspirare alla salvezza agli altri preclusa.Dante conferma qui l’assoluta autorità poetica dei poeti classici, ma limita la loro autorità ideologica: il suo poema li completerà e li sorpasserà. Dante infatti deriva la sua autorità ideologica e poetica direttamente da Dio, perché da Dio stesso è voluto il suo viaggio, come fu per Enea e San Paolo. La sua opera supera i suoi stessi modelli, completandone e autenticandone cristianamente ilsignificato. La Commedia vuole essere la nuova epica cristiana, che prende le mosse da quella classica, ma se ne discosta. A livello stilistico si ispira alla Bibbia, prediligendo uno stile comico emisto, che parli a tutti, anche se non mancano momenti di innalzamento stilistico per trattare la materia sublime. Nonostante il debito poetico, la Comedìa di Dante arriva a duellare con l’alta tragedìa di Virgilio e dei regulati poetae: citazioni classiche pervadono l’intera opera e gli autori della Bella Scola sono indispensabili per Dante per dare autorità poetica al suo poema, ma allo stesso tempo Dante non esita a correggere le sue fonti. Come nella narrazione della storia della fondazione di Mantova in Inferno XX, in cui è la stessa Eneide ad essere rettificata, prediligendo la ragione storica alla leggenda. O in Paradiso VIII, con il netto rifiuto dell’antico errore delle genti antiche che credevano che la dea Venere fosse l’irraggiatrice del folle amore, e con lei adoravano anche Dione e Cupido. O ancora, sempre nel canto VIII del Paradiso, smentisce apertamente le credenze classiche tramandate da Ovidio e Virgilio sull’attività vulcanica dell’Etna: nessun gigante Tifeo (o Encelado) che vomita fiamme, le eruzioni sono causate dallo zolfo: Dante qui corregge le sue fonti classiche con testi scientifici medievali.

Ma il momento di più aperta competizione coi predecessori classici è senza dubbio il XXV canto dell’Inferno: siamo nella settima bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i ladri. Il canto si apre con la bestemmia di Vanni Fucci e delle serpi che vanno a zittire e punire il superbo ladro pistoiese, stringendogli il collo e le braccia. E poi l’arrivo di un centauro Caco, dannato e insieme castigatore, alla ricerca di Vanni Fucci: “Ov’è, ov’è l’acerbo?”, tuona. Il mostro infernale viene descritto come un centauro ricoperto di bisce – richiamo alla pena a cui sono sottoposti i dannati dell’ottavo cerchio, che vengono morsi e si tramutano vicendevolmente in serpi – e sulle spalle ha un drago che sputa fuoco. Ecco un primo discostarsi di Dante dai modelli classici: la figura mitica tramandata da Virgilio era figlio di Vulcano e non di Issione, come invece i centauri castigatori nel girone dei violenti. Non era un centauro, ma un uomo gigantesco e mostruoso che sputava fiamme dalla bocca – da qui il drago sulla schiena nella descrizione dantesca. Nonostante l’evidente differenza tra il Caco classico e quello dantesco però non siamo ancora di fronte a una chiara rielaborazione: Virgilio infatti definisce questo mostro come semifer e semihomo, termini usati da Ovidio – fonte da cui Dante trae l’uccisione del mostro –, ma anche da Lucano e Stazio, per indicare i centauri. Dante qui effettuerebbe più una commistione tra le due fonti, Virgilio e Ovidio, e sarebbe tratto in inganno dalla doppia valenza semantica dei termini latini. La vera sfida inizia dopo: con l’avvento in scena dei ladri fiorentini ha inizio un vero e proprio certamen letterario tra Dante e le sue fonti.

“Per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,

mi puosi ’l dito su dal mento al naso.”

Dante personaggio zittisce così Virgilio, con un gesto silenzioso, e introduce le meravigliose trasformazioni dei dannati a cui hanno assistito i due pellegrini. Hanno così inizio terzine meravigliose, in cui la Poesia di Dante raggiunge un picco poetico indescrivibile: le trasmutazioni dei ladri fiorentini in serpi e viceversa sono descritti con una precisione cinematografica, nei minimi particolari. I versi fanno prendere vita alla materia narrata, così nitida e viva e insieme meravigliosa. Abbondano i richiami alle opere di Lucano e Ovidio, i maggiori modelli in tema rispettivamente di serpenti e metamorfosi: tanti tasselli combinati insieme che danno vita all’incredibile mosaico infernale. Dante narratore non ha più nulla da invidiare ai due poeti latini e così li zittisce apertamente:

“Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca

del misero Sabello e di Nasidio,e attenda a udir quel ch’or si scocca.

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,

ché se quello in serpente e quella in fonte

converte poetando, io non lo ’nvidio;

ché due nature mai a fronte a fronte

non trasmutò sì ch’amendue le formea cambiar lor matera fosser pronte.”

Un’apostrofe diretta, di aperta sfida: Dante si mostra così pienamente consapevole della grandezza della sua opera e della sua poesia; sancisce con queste parole il superamento dell’antichità pagana con il suo poema cristiano. Non è un superamento meramente retorico, come nota Paratore: Dante riesce a penetrare i misteri della Provvidenza, cosa preclusa ai classici, che ne avevano parlato nelle loro opere, senza però mai poterne capire il significato, ma illuminando e preparando il cammino per i posteri:

“Come quei che va di notte, 

che porta il lume dietro e sé non giova,

ma dopo sé fa le persone dotte.”

Purgatorio XXII

L’esperienza del viaggio ultraterreno svela a Dante misteri fino ad allora celati, consentendogli di descrivere l’inenarrabile. L’importanza dei modelli latini è enorme, ma le loro opere sono terrene, la materia di Dante è invece divina: i regulati sono condannati nel limbo, mentre a Dante è consentito di arrivare al cospetto di Dio. Ma non si tratta solo di squisitezza stilistica e duello tra paganesimo e cristianesimo: nel certamen letterario la lotta furibonda è tra la prestigiosissima lingua latina e la nascente lingua italiana. Il volgare illustre tanto cercato e mai trovato nel De vulgari eloquentia, nella Commedia è palpabile e vivissimo. Dante con il suo capolavoro dimostra che il volgare ha risorse espressive non inferiori al latino e permette la descrizione di eventi eccezionali, mai narrati prima. La Commedia è quindi la nuova epica, discendente diretta di quella virgiliana, dell’Impero, in latino, a sua volta legata a quella greca di Omero. È il nuovo poema sacro, in italiano: la lingua nuova capace di penetrare nelle viscere della terra, al cospetto di Lucifero, e di librarsi in volo fino all’Empireo; dalla materia più bassa e rozza alla più sublime e sottile.

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