“Potrà la odierna socialdemocrazia (fenomeno in prevalenza europeo) , scoordinata com’è e frustata , reggere alla presa della vittoria del capitale finanziario?”
Con questa domanda si chiude l’ultimo libro di Luciano Canfora, “libretto” come lo ha definito l’autore, intitolato La Metamorfosi, dal titolo kafkiano, è la storia del Partito Comunista italiano e della sua deriva riformista-liberista nell’attuale Partito Democratico. Canfora, da filologo classico studioso dell’epicureo Lucrezio, parte dal presupposto che i partiti politici sono come gli organismi umani i quali non sono formazioni eterne ma soggetti a costante ed eterna trasformazione.
“I partiti politici non possono né possono essere formazioni eterne: sono organismi viventi , e perciò in costante trasformazione, come del resto le chiese, che però procedono a ritmi di gran lunga più lenti.”
Ma Canfora si pone anche altre domande: quanto a lungo vive un partito politico? Quanto rapidamente si trasforma nel corso della sua esistenza, fino a mutare in altro? La risposta è univoca per tutti e due i quesiti: tanto più un partito si fonda su un concetto filosofico “sistema di pensiero”, per dirla con le parole dell’autore, e più sarà incline, nel corso del tempo, a staccarsi dal suo pensiero originale. Al contrario, i partiti che non hanno una connotazione ideologica non rendono visibile la loro mutazione. Ad oggi, secondo Canfora, l’unica organizzazione che ancora ha un programma che propone di valori etici e sociali è la Chiesa cattolica. Al contrario, i partiti di destra rimangono ancorati ai suoi ideali di stampo populista-nazionalista , come nel caso degli Stati Uniti sotto la passata amministrazione Trump, la Turchia , l’India e il Brasile.
Tornando alla storia del Partito Comunista d’Italia, così era stato denominato cento anni fa, esso nacque perseguendo le prospettive rivoluzionarie che, però, erano già fallite nell’agosto- settembre del 1920, in occasione della debacle delle occupazioni delle fabbriche a Torino. Quello fu il segnale di un’impossibilità di creare le condizioni “materiali” e “spirituali” per una rivoluzione di stampo bolscevica, che segnò , già di fatto, la sconfitta del non ancora nato Partito comunista.
La repressione dei dei partiti d’opposizione nel 1926, fece da apripista per un accordo tra il Partito Comunista e le altre forze antifasciste, ricucendo così una collaborazione con interessò i cattolici. Proprio in quella fase storica nacque il c.d. ” partito nuovo” così battezzato dal “migliore” Palmiro Togliatti, deus ex machina del neonato Partito Comunista Italiano. Quando le sorti della Seconda guerra mondiale erano delineate, Togliatti intuì che il Partito si sarebbe dovuto muovere all’interno di una politica riformista; scelta dovuta ad una serie di contingenze, tra cui quella principale era la presa di coscienza che l’Italia era ormai inserita all’interno del blocco atlantico:
“È chiaro , dunque, che quando parliamo di partito novo intendiamo prima di ogni altra cosa un partito il quale sia capace di tradurre nella sua politica , nella sua organizzazione e nella sua attività di tutti i giorni quel profondo cambiamento che è avvenuto nella posizione della classe operaia rispetto ai problemi della vita nazionale. La classe operaia , abbandona la sua posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne nel passato, intende oggi assieme essa stessa, accanto alle altre forme conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e pone la costituzione di un regime democratico”.
24 settembre 1944. Conferenza federazione romana del Pci
Il linguaggio di Togliatti non era retorico. Egli era ben conscio del fatto che l’attività partigiana contrassegnata dall’attivismo preponderante del Partito comunista stava portando alla sconfitta del fascismo, ed a guerra finita avrebbe dovuto farsi portatore di “una strategia di lungo periodo del tutto nuova”, che di fatto sarebbe stata un’alleanza con le altre forze democratiche antifasciste. I militanti dovevano accettare che il partito si era trasformato, da rivoluzionario ed elitario a partito di massa e di “unità nazionale” che avrebbe partecipato al governo Badoglio insieme altre forze politiche antifasciste:
“…Regna fra gli operai e fra tutti gli elementi d’avanguardia la convinzione profonda che la partecipazione al governo dei proletari era una necessità imperiosa, e questo vuol dire che la massa stessa del popolo intuisce , anche se non sarebbe capace di esprimerla chiaramente, la profonda differenza che passa tra la situazione odierna del nostro paese e quella del prossimo sviluppo e affermazione del movimento socialista, quando la partecipazione al potere fu considerata inammissibile da tutta la parte sana e vitale di questo movimento.”
Palmiro Togliatti “Ercoli”, Cosa deve essere il partito comunista, Rinascita n.1 Anno I, giugno 1944, pp. 3-4
L’inserimento e la partecipazione del Pci all’interno dei primi governi repubblicani, aveva anche un altro obiettivo fondamentale, che era quello di opporsi ad una possibile intrusione di una “dittatura della grande borghesia monopolistica” ovvero il capitale finanziario :
“L’esistenza e il progresso della democrazia sono da più di un secolo legati alla presenza e allo sviluppo di una movimento popolare e di un movimento operaio organizzato , forte, consapevole dei loro obiettivi politici capaci di far il loro volere”.
Palmiro Togliatti, Classe operai e partecipazione all’estero, Rinascita , anno XVIII/numero 4, aprile 1961
Togliatti aveva sempre auspicato il coinvolgimento del Pci all’interno di nuove coalizioni governative. Ma il suo progetto fu sempre avversato dalle veline dell’ambasciata Usa.
L’improvvisa morte di Togliatti nel 1964, lasciò il Pci senza un preciso “orizzonte strategico”. Solamente otto anni dopo, con l’ascesa di Berlinguer al ruolo di Segretario Generale, si cercò di riprendere la politica del “migliore” ma con una visione più di corto respiro. Emblematico fu il suo intervento al XXV Congresso del Pcus a Mosca del 27 febbraio 1976 dove rivendicò la piena autonomia del Partito Comunista italiano rispetto all’ingerenza del Partito Comunista Russo.
La scelta di emanciparsi dal partito padrone russo era dipesa dal successo alla vittoria insperata elezioni elezioni amministrative del 1975, che aveva visto le forze di sinistra Pci e Psi unite intorno ad un’unica coalizione. Giocando la carta dell’invettiva contro mamma Urss, Berlinguer sperava di fare sempre più proseliti tra il ceto medio e l’elettorato del Psi. Emblematica è stata l’intervista farsa rilasciata a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera il 15 aprile, una settimana prima delle lezioni, dove Berlinguer affermò che si sentiva più sicuro stando all’interno del Patto Atlantico rispetto a quello di Varsavia: “meglio di qua che di là”. Quell’intervista, come poi rilevò Roberto Gualtieri, quando ancora faceva lo storico di professione, era stata preparata già da diverso tempo con il beneplacito dell’Urss.
Con la strategia di raccattare voti dal Psi il Pci ottenne un risultato strabiliante, del 34% dei voti solamente 4 punti percentuali in meno della Dc. Berlinguer, in modo molto superficiale, pensò che oramai il Pci sarebbe stato l’asse portante di un’alleanza governo con la Dc o con le altre forze di sinistra minoritarie. Quella fase denominata compromesso-storico non aveva fatto lezione di quello che era accaduto dieci anni prima tra Togliatti e gli Usa, contrari ad una coalizione allargata delle forze centriste filo americane e del Pci. Infatti la causa maggiore del fallimento della politica del compromesso fu il veto di Kissinger e il successivo sequestro Moro, che fecero naufragare il progetto berlingueriano.
A detta di Canfora ne Le metamorfosi, la politica del compromesso nasceva sbagliata in partenza, perché Berlinguer si basava su un semplice accordo con i dirigenti della Dc e non con la l’elettorato cattolico, diversamente da ciò che tentò di fare Togliatti nel 1944:
“Berlinguer non ha mutato ( né fatto sorgere del Partito) alcuna imminente e organica visione ( e tanto meno) opzione alternativa. Nel suo universo Mentale si scontrarono e si giustapposto frammenti e stimoli e suggestioni molteplici un’altra idea di rivoluzione , le mai citata terza via un pò di spontaneismo sessantottesco ell’errona convinzione che fosse quello strumento per agganciare le nuove generazioni , apertura all’ambiente..”
Dalla boutade della politico del “compromesso” al “ suicidio” del 1989 della Bolognina, il passo fu breve ed il risultato lampante della continua trasformazione del Partito Democratico che è la somma dei rimasugli della Dc + Pds. Il partito massa si è mutato ulteriormente in un’accozzaglia di militanti, attivisti e dirigenti autoreferenziali. Per dare una definizione di quello che è il Partito Democratico, così denominato da Veltroni in omaggio a Bob Kennedy, bisogna tenere a mente la famosa teoria di Schumpeter del politico-imprenditore in cui i partiti politici non sono altro che delle imprese commerciali, che con i loro programmi-slogan cercano solamente di accaparrarsi più elettori possibili. La prova è il manifesto del neo segretario Letta:
“progressisti nei valori, riformisti nel metodo, radicali nei comportamenti”
come le altre formule passatiste in odore di naftalina, come lo “ ius soli”. Sicuramente nemmeno il neosegretario e sedicente ex accademico francese sa il significato della proposizione. Ma in questo caso quello che conta è proprio lo slogan, poi le politiche di stampo sociale ed egualitarie, questa dovrebbe essere la linea di un partito che si definisce di sinistra, possono aspettare. Per tornare al saggio di Canfora, l’unica ideologia, se così si può chiamare, perseguita ad oggi dal Pd è una una politica iperliberista che fa da pendant all’attuale politica economica europea, incentrata sul divieto degli aiuti alle aziende nazionali a scapito di favorire il “capitale finanziario su quello produttivo”.