Vladimir Surkov, il reprobo ex consigliere di Putin, nel suo manifesto politico sulla concezione del Russkiy Mir, pubblicato sulle pagine della Nezavisimaja Gazeta l’11/2/2019, evocava la presenza «del popolo profondo» come elemento essenziale dello Stato, insieme a quello che lui chiama «la classe dell’elite», ovvero il ceto dirigente. Per Surkov questi due blocchi storici sono legati da un unico filo, ed entrambi servono a garantire l’esistenza della Russia:
«Non c’è Stato profondo in Russia, ma c’è un popolo profondo. Sulla superficie brilla l’elite. Secolo dopo secolo, con dinamico (la sola riconosciuta), impiega il popolo in certe sue attività: riunioni di partito, guerre, elezioni, esperienze economiche».
Lo stato di Putin e il Popolo profondo, di Vladimir Surkov, Traduzione su Limes, n°5, 2022
Lungi dal fare un esercizio di esegesi del testo di Surkov, si può ben evincere come ci sia una continuità tra i valori dell’impero zarista e quelli della Russia attuale. Il «popolo profondo» trova la sua espressione nella Chiesa ortodossa che, tramite il sincretismo di valori popolari e correnti nazionalistiche, ha permesso al potere burocratico di governare sul popolo della Russia profonda. Quest’ultima, storicamente, è stata, insieme all’esercito e all’aristocrazia terriera, il fondamento costitutivo della Russia zarista, tranne una breve parentesi nell’URSS. Con l’avvento al potere di Putin quei vecchi valori, che agli occhi della cultura occidentale sono considerati anacronistici, in Russia sono stati riscoperti come collante per la costruzione del nuovo Mondo Russo. Come scritto sopra, la Chiesa Ortodossa è un’istituzione morale di legittimazione del potere.
Emblematico è che lo stesso Putin solo in tempi sospetti abbia dichiarato di essere stato battezzato in segreto in un piccola chiesa di San Pietroburgo di nascosto dal padre. La stessa legittimazione «dell’operazione speciale in Ucraina» da parte del Patriarca moscovita Kirill, che si è fatto banditore di una vera e propria crociata contro il «malicidio» dei paesi occidentali che sostengono i gay, termine utilizzato da Bernardo di Clairvaux nel Liber Templis de Laudi Nove Militie, per proporre la giustificazione della guerra contro gli infedeli per la liberazione di Gerusalemme e dei luoghi santi per la cristianità, dà una visione plastica di quella che è l’importanza che ha la chiesa per la legittimazione del potere costituito. Anche in Ucraina la Chiesa ortodossa rappresenta un elemento fondante del nuovo Stato. Nel 2014, in occasione della vittoria alle elezioni del neo presidente Petro Poroshenko, egli, nella sua visone di stampo nazionalista, definì lo stato ucraino fondato su tre assi portanti: «esercito, lingua, fede». Ma, senza addentrarsi troppo nella questione dell’autocefalia della chiesa di Kiev, da questa premessa si può congetturare che la religione, nella cultura del mondo russo, «è inquadrata come un mero instrumentum regni».
L’utilizzo della religione come esercizio del potere da parte dello Stato sovrano ha avuto una delle sue prime elaborazioni teoretiche nel Quattrocento, e il genius loci spetta all’Italia, o meglio a quel laboratorio politico che era la Firenze del XV secolo. Cancellieri e profondi intellettuali della Repubblica di Firenze, come Coluccio Salutati e il suo allievo e successore Leonardo Bruni, erano perfettamente consci che lo Stato moderno si andava confermando con una netta separazione giuridica tra Stato e Chiesa di stampo prettamente medievale; ma che tale separazione non poteva espellere la sfera religiosa all’interno della categoria culturale. Ma il massimo interesse per il binomio politica-religione, in cui la semplice espressione del culto può collaborare con l’istituzione civile e militare di una determinata società, ovvero la cosiddetta nation building, fu elaborato da Machiavelli. Prima del suo incarico presso la Seconda cancelleria, il connubio religione-politica come ricerca del consenso appare già evidente nella sua lettera all’ex ambasciatore di Firenze a Roma Ricciardo Becchi del 9 marzo del 1498. In essa Machiavelli analizza le tre prediche di Girolamo Savonarola, a cui lo stesso Niccolò aveva assistito, e critica apertamente la strategia politica del frate, che era costruita su una commistione di argomentazioni religiose apocalittiche, ma con connotazioni di prassi politica abbastanza superficiali.
Secondo Machiavelli, le prediche del frate domenicano erano strutturate su ragioni prettamente opportunistiche secondo l’attuale contesto politico; l’argomentazione religiosa serviva solamente a creare un forte consenso tra gli uditori, per la maggior parte ignoranti superstiziosi:
«Quello ne dice che di qualche vi vogliate scelleratissimo huomo dire si puote; e così, secondo il mio giudizio, viene secondando i tempi e le sue bugie colorendo».
Niccolò Machiavelli e Ricciardo Becchi, 9 marzo 1498
La riflessione sul binomio religione e politica sarà un riferimento concettuale per Machiavelli che lo accompagnerà nel corso della sua riflessione politica. Nel 1506, quando era nel pieno della sua carriera di funzionario politico della Signoria, scrisse un piccolo elaborato, intitolato La Cagione dell’ordinanza, nel quale sosteneva la sua tesi per la creazione di un esercito cittadino. Il tema della religione emerse nella sua origine semantica del termine latino rilegare, che indicava come la credenza religiosa servisse proprio a fare da collante tra il comportamento dei cittadini e quei «buoni costumi» interpretati come obbedienza militare e civile nei confronti delle istituzioni:
«Et però bisogna costringerlo ad tenerne armati un numero almeno ad tenere le bandiere, et e considerandoli, ad provvedere all’armi, od a fare loro le mostre et incitarli, ad rivederne ogni anno conto et cancellelre in certi di et in certo tempo et rimetterli, ad mescolarsi qualche cosa di religione per farli più ubbidienti».
La cagione dell’ordinanza dove la ritrovi, et qualche che bisogna fare
La stessa tematica verrà poi sviluppata da Machiavelli a pieno regime nella Prima Decade di Tito Livio, nel libro I nei capitoli XI e XII, I discorsi, considerata da Gennaro Sasso la sua maggiore opera. In questa venivano raccolte tutte le tematiche della sua speculazione inerente la politica e la filosofia della storia, secondo un metodo comparativo tra la Roma antica e la Firenze a lui coeva. Nel I libro, la religione è una condizione fondamentale per sancire e determinare il consenso alla patria tramite l’utilizzo dei «buoni costumi» a discapito degli egoismi individuali. La critica di Machiavelli si concentrò sul suo presente, dove con l’avvento del cristianesimo «i buoni costumi» si erano irrimediabilmente persi. Già nel Proemio venivano messe le cose in chiaro:
«Il credo che nasca non tanto dalla debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo, o da quale male ha fato a molte provincie e città cristiane uno ambiziosissimo ozio, quanto da non avere vera cognizione delle storie, per non trarne , leggendole, quel senno né gustare di loro quel sapere che le hanno in sé».
Discorsi sulla prima decade di Tito Livio, Libro I, Proemio, 8
L’ex segretario, tracciando un quadro sull’origine della società umana, in modo particolare di Roma, commenta la presenza fondamentale della religione come fattore ordinatore determinante di uno Stato. Religione che, per l’appunto, serviva come mera attività di creazione di un pensiero unico rivolto alla massa popolare. Ciò fu possibile grazie all’attività dei suoi «ordinatori»; in primis Romolo e poi Numa Pompilio, che grazie al suo finto dialogo con la Ninfa Egeria aveva sostenuto l’origine divina delle norme. La religione, quindi, per il pensatore e storiografo Machiavelli, serviva esclusivamente per uno scopo puramente politico e istituzionale:
«E veramente ma fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in un popolo che non riconoscesse a Dio, perchè altrimenti non sarebbero accettate; perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente , i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere ad altrui. Però gli uomini sani che vogliono torre questa difficoltà ricorrono a Dio».
Discorsi sulla Prima Decade di Tito Livio, libro I, cap. XI,11-12
Due insigni studiosi di Machiavelli, Emanuele Cutinelli Rendina e Gennaro Sasso, sono concordi nello stabilire che il segretario fiorentino considerava lo strumento religioso come pura finzione ed elemento essenziale per fissare la regola politica per la costruzione della stessa Roma. Un esempio è l’utilizzo degli oracoli e delle cerimonie rituali pagane come collanti tra istituzione politica e sentimento popolare. La religione, quindi, come persuasione del popolino, aveva il fine strategico «della partecipazione morale alla vita associata» (Gennaro Sasso, Ultimi scritti su Machiavelli).
Per Machiavelli la religione cristiana, rispetto a quella pagana che aveva costruito il valore della libertà civile e l’amor di patria, aveva conseguenze distruttive sulla vita civile dello Stato. Analisi teorica, forse, e mossa anche dal suo ateismo, in cui evidenziò che gli «italiani» erano diventati «senza religione e cattivi» (Cap. XII), andando così a rompere quel binomio fondamentale che rendeva uno Stato vitale nelle sue funzioni. Ma bisogna far attenzione a non cadere nell’equivoco che la critica di Machiavelli fosse una polemica di carattere etico nei confronti del malcostume della Chiesa Cattolica di Roma. L’analisi teorica del segretario fiorentino si basava su una valutazione della filosofia della storia comparata alla religione pagana dei romani, ritenuta, come scritto sopra, essenziale per il nation building.
Per Machiavelli le «sette», questo il termine utilizzato in Italia nel primo Cinquecento per definire le religioni, connotavano e determinavano le epoche della storia e il loro mutare del tempo, poiché tutte le religioni sono destinate inevitabilmente a mutare e lasciare il posto ad altre. Lo stesso tema del mutare delle religioni era già discusso nel primo decennio del Cinquecento. Pomponazzi scriveva a Bologna il De Incantationibus, e nel cap. XIII teorizzava che le religioni era soggette ad un continuo avvicendamento. Considerazione sulla religione in un contesto politico che Machiavelli riprese anche nel Principe. Mentre menzionava la figura di Ferdinando il cattolico citava l’epiteto: «primo re de’ cristiani», e raccontava di come questi riuscì a prendere l’enclave di Granada all’ultimo regno musulmano nella penisola iberica nel 1492:
«Oltre a questo, per potere intraprendere maggiore imprese , servendosi sempre della religione , si volse ad una pietosa crudeltà cacciando, e spogliando, dal suo regno , è marrani: nè può essere questo esemplo più miserabile né più raro».
De Principatibus, cap. XII
Anche per Francesco Guicciardini la religione cattolica era responsabile di distogliere l’uomo dall’interesse della realtà sociale, ovvero la politica. Questo lo scrisse nei Ricordi, opera in forma aforistica:
«Fu detto veramente che la troppa religione guasta al mondo, perché effemminato gli animi. Sviluppa gli uomini in mille errori dimenticali da molte imprese generose e visibile».
Ricordo, b32
La stessa religione, quando non rende l’uomo ipocrita, non facilitava il regolare svolgimento delle istituzioni cittadine:
«Non è già troppa a uno cristiano, ma non giova niente al buono essere della città».
Ricordo , B32
Precedendo Hegel di diversi secoli, Guicciardini era perfettamente consapevole che la religione era fondamentale perché aveva «troppa forza nella mente degli sciocchi». Per il fiorentino gli sciocchi erano la massa del popolo e dello Stato della chiesa, che conosceva per le sue attività di funzionario di Firenze prima e dello Stato della Chiesa poi. Era conscio che per uno Stato, qualsiasi forma di governo esso abbia, se Principato o Repubblica, non era saggio entrare in diretto conflitto con il potere ecclesiastico per la sua forza di persuadere intellettualmente la popolazione:
«Non combattere mai con la religione, né con le cose che pare che dipendono da Dio: perchè questo obietto ha troppa forza nella mente degli sciocchi».
Ricordi, B31
La fede aveva, quindi, nel vulgo la stessa valenza semantica della fides romana come apportatrice di norme civili e morali. Questo binomio era fondamentale come portatore di sentimento comune di abnegazione verso gli organi istituzionali che, senza l’appoggio della fides, non avrebbero potuto portare a termine nessun obiettivo strategico, a lungo o a breve termine. Ma rispetto a Machiavelli, Guicciardini era scettico sull’importanza della figura di Numa Pompilio come vero fondatore della comunità di Roma. Nel breve opuscolo Considerazioni sui discorsi di Machiavelli, osservò che anche se: «l’amore e la religione sono fondamenti principali e delle repubbliche», senza l’opera fondativa di Romolo, avvenuta grazie alla sua qualità di uomo bellicoso, che aveva garantito la sicurezza della neonata urbe, la religione non si sarebbe potuta sviluppare.
Più di un secolo più tardi e molto più a nord di Firenze, Thomas Hobbes, il teorico dei tiranni, avido lettore di Machiavelli, legittimò il pensiero del segretario fiorentino nel capitolo II del Leviatano, interrogandosi sulla funzione della religione all’interno dello Stato. Per Hobbes l’origine della religione scaturiva dalla psiche dell’uomo: essa derivava dal desiderio di conoscere le cause delle ansietà dell’uomo rispetto all’ignoranza sul futuro che lo attendeva. Nel desumere l’ansietà dell’uomo rispetto al suo futuro, Hobbes utilizzava la metafora del mito di Prometeo a cui veniva mangiato il fegato di giorno e di notte ricresceva:
«Similmente, colui che guarda troppo lontano preoccupandosi del futuro, ha tutto il giorno il cuore oppresso dal timore della morte, della miseria e di altre disgrazie, e non trova riposo né sosta alla sua ansietà, se non nel sonno».
Leviatano, libro I
I legislatori, consapevoli dello stato di ignoranza in cui versava l’uomo, fondarono lo Stato proprio grazie a questi presupposti, tramite l’utilizzo della religione. Lo Stato si doveva fondare, quindi, su una mera questione antropologica, e proprio in quel dato contesto la religione venne utilizzata come instrumentum per creare ubbidienza incondizionata e rispetto pedissequo delle norme. Hobbes elencava le quattro cause di matrice aristotelica che generarono la religione, «i semi naturali»: credenza degli spiriti, ignoranza antropologica, devozione spassionata nei confronti dell’ignoto e analizzare i fatti naturali come determinati da «un pronostico» di origine divina e non da un fatto causale.
Un altro pensatore politico contemporaneo di Hobbes era Baruch Spinoza, nato ad Amsterdam, figlio di un ricco commerciante portoghese di origini ebraiche. Nel Trattato teologico-politico, iniziato a scrivere nel 1676 e rimasto incompiuto, fece un vero e proprio j’accuse contro il binomio politica-religione. L’intreccio tra questi due poteri concorrevano a creare un fenomeno di tipo repressivo nell’eliminare i nemici politici tramite l’accusa, strumentale, di eresia. La religione era colpevole di essere una forma di coercizione intellettuale nei confronti dei regnicoli e per Spinoza proprio la religione cristiana e coloro che la professavano, in modo particolare contro i cristiani:
«Si vantano di professare la religione cristiana, cioè l’amore, la gioia, la pace, la contentezza e la lealtà con tutti, lottano tra loro con grandissima ostilità e nutrono quotidianamente un odio più che acerbo, tanto che sarebbe più facile riconoscere la fede di ognuno di essi da questa pratica di risolvere che non da quella dottrina».
Trattato teologico politico, cap. 11
La conclusione è quanto mai ovvia, collocandosi dalla parte opposta degli altri pensatori che lo avevano preceduto. Per Spinoza lo stato doveva garantire esclusivamente la libertà dei cittadini, come la libertà d’opinione, e il non imporre per mezzo di norme l’assoggettamento ad un solo credo religioso. Il nesso tra politica e religione era prettamente errato perché questi due fattori non mantenevano l’unità dello Stato e la sicurezza di esso, ma anzi, causavano il risultato opposto. Tale valutazione era completamente diversa rispetto a quella di Machiavelli, Guicciardini e Hobbes, e anticipava con largo anticipo il pensiero di Locke e Montesquieu.