È il 1947, nasce il transistor, si inizia a parlare di cibernetica. Per molti inizia qui il vagare per il mondo di quel fantasma che è ancora tra noi, immateriale più che mai nei lineamenti e nelle movenze: la digital revolution. Non a caso, non tutti sono d’accordo nemmeno su questo: ecco allora che secondo alcuni per la trasformazione digitale bisogna aspettare i primi grandi mainframe degli anni ‘50, oppure la telefonia mobile e il World Wide Web degli anni ’90, fino a chi sostiene che no, di rivoluzione si parla solo quando tutti la vivono, non prima dei fantastici anni 2000. È un gioco d’ombre fin dal principio, il fenomeno più ambiguo del secolo non può che essere sfuggente e Gabriele Balbi (L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale, Laterza 2022) ha il merito di averlo ricordato con grande chiarezza.
Se con apparente semplicità appare immediato il senso dirompente di quell’aggettivo, digitale, messo lì per rompere con tutto ciò che – analogico – diventa emblema di un passato polveroso da oltrepassare il prima possibile, ecco che in realtà la narrazione futurologica, per mantenere ben pigiato l’acceleratore, deve autoalimentarsi costantemente: si parla di trasformazione, addirittura di rivoluzione. È rivoluzionario tutto ciò che non ha tempo di riformare l’esistente e allora trasforma profondamente, irrimediabilmente: da una rivoluzione non si torna indietro. Spuntano ‘espressioni parallele’ (Koselleck) a gettare fumo negli occhi, la rivoluzione è ora rivoluzione dei materiali, ora dell’industria tutta, ora dei dispositivi, ora moto perpetuo alimentato dalle life enhancing technologies. Chi si ferma è perduto: ma come fa una rivoluzione, oggi come ieri, ad autoalimentare costantemente il proprio rumore?
La risposta è spiazzante nella sua semplicità, inaccettabile (per noi) nelle sue implicazioni: già da sempre al di sotto di ogni moto rivoluzionario agisce un’ideologia fungente, il mondo teoretico immaginato dai visionari di turno che costruiscono una mitopoiesi talmente a misura d’uomo da sfrattare la realtà. Non lo accettiamo, ne restiamo vittime di fatto, perché credevamo di aver preso le distanze da tutto il pensiero ideologico che – etichettato come tale – credevamo di aver lasciato alle spalle con il Novecento: l’uomo del nuovo millennio è il post-tutto, non crede più a nulla, non si lascia ingannare da nulla, è lo scettico lucido, il razionalista adulto. Non è difficile dunque intuire come proprio questo terreno rappresenti l’humus perfetto perché attecchisca una narrativa finora sottovalutata, un’ultima ideologia: ultima perché in qualche modo ne riassume in sé tante sia come causa finale che come causa scatenante, ultima perché tanto penetrante da non lasciare intravedere nessun potenziale competitor culturale all’orizzonte con cui dividersi il monopolio delle teste. Ma ultima, si deve aggiungere, anche perché perfettamente consonante con l’intelligencija del nostro tempo, con il modo d’agire di chi ti frega chiavi in mano, facendoti comprare l’iPhone che ti ha appena convinto essere stato una tua idea. L’ideologia del narcisista, del vanesio ottuso adulato nell’orgoglio.
L’analisi di Balbi è rigorosa, puntuale: quella della digital transformation è una marcia trionfale all’insegna del «sempre nuovo, sempre uguale» che nasconde il ciclico ripetersi dei cliché e delle proposte dietro all’ottimismo aggressivo del progresso inarrestabile che sta per venire, della promessa messianica, ancora un po’ e mi vedrete. La rivoluzione quindi è permanente, è sempre stata nel destino dell’uomo ed è inarrestabile, tutta protesa all’avvenire radioso che schiude, totale e irresistibile; ha i suoi patriarchi, i suoi profeti, i suoi santi; chiede il rispetto dei suoi comandamenti (mai stati così comodi, è il futuro baby). Il costo c’è, scritto in piccolo sul retro: ma cosa saranno mai le tonnellate di denaro o i fiumi di sangue sfruttato quando con un sorriso sornione un santino di Bill Gates può assicurare a te, proprio a te, un posto nell’élite di coloro che vedono il futuro già qui, in questo presente così oscuro per tutti gli altri comuni mortali? Ero cieco, e ora ci vedo.
Non c’è ostacolo che tenga, l’ideologia è autologica e autoreferenziale: Tocqueville (citato nel saggio) ce lo ha insegnato. La retorica rivoluzionaria è una retorica teologica, inevitabilmente religiosa: anche la digital revolution ha i suoi luoghi di culto, i suoi patroni, le sue istituzioni, tutte così inevitabilmente – ironicamente – materiali. A colpi di «join the digital revolution» (slogan usato ininterrottamente dal 1976!) si è affermata nell’immaginario comune una trepidante adorazione per ogni nuovo precipitato tecnologico sullo sfondo di una vera e propria soteriologia del digitale: la convinzione, cioè, che la fede nello sviluppo delle tecnologie computeristiche e della comunicazione, panacea di ogni male, non potrà che creare un mondo migliore.
È chiaro che all’orizzonte si profilano diversi problemi piuttosto inquietanti: dalla 2 orwelliana (leggi caso Snowden) alle proposte del transumanesimo che avanza, l’idea molto spesso ripetuta dai vari guru della rivoluzione è quella di superare in un sol colpo tutti i retaggi dell’uomo vecchio, limitato, a partire dalla democrazia (che a sentire i tecnocrati rende impossibile governare con massima efficacia) fino ad arrivare alla morte, vero sacro graal dell’onnipotenza dell’uomo prometeico. Non a caso si parla di una rivoluzione spesso paragonata nelle sue dimensioni e nel suo peso storico alla cattura del fuoco: uno step ulteriore è stato fatto, una nuova conoscenza è stata rubata agli dèi. C’è spazio solo per chi ne tesse le lodi, l’eretico è tollerato perché in qualche mododice la rivoluzione con altre parole e la narrazione ideologica non può fare a meno della eterodossia, deve combattere qualche cosa per autoaffermarsi: ma guai ad essere autentici controrivoluzionari, appartenere alla schiera degli ‘infedeli’, di coloro che non entrano nella dialettica rivoluzionaria urlando piuttosto che il re è nudo, proprio non si può. Tra Digital litterati e digital evangelist che dettano l’agenda della nuova pastorale digitale, la strada per il superamento transumano di tutto ciò che – al contrario – resta ancora troppo umano, è aperta. Il dogma, oggi come ieri, resta unico, sempre lo stesso: vietato aprire gli occhi.