Domenica scorsa la liturgia prevedeva questa lettura dal Vangelo di Marco: “Chi crederà e si farà battezzare sarà salvo; chi non crederà sarà condannato. Questi i segni che accompagneranno i credenti: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti, se berranno bevanda mortifera non nuocerà loro, imporranno le mani sui malati e questi avranno del bene” (16, 16-18). Queste sono, secondo Marco, le ultime parole consegnate da Gesù, risorto, prima di ascendere al cielo. Si tratta dell’insegnamento definitivo, dunque, che pone un discrimine tra chi crede e chi dice di credere, ma mente. Il cristiano converte il male nel bene: vince i demoni, fa antidoto di ogni veleno, non teme i serpenti (“Vi ho dato il potere di camminare su serpenti e scorpioni e su ogni potenza del nemico. Nulla vi potrà fare del male… i demoni si sottometteranno a voi”, scrive Luca, 10, 19-20). Le mani che stringono il serpente, se spalancate hanno un potere taumaturgico: curano i malati. Il cristiano parla le lingue “nuove”, è in continuo contatto con lo Spirito, conosce il vocabolario di Dio (“Chi parla in lingue non parla a uomini ma a Dio”, 1 Cor 14, 2). Soprattutto, riconosce i segni celesti, veritieri; l’azione del demonio si esplicita, invece, ribaltando i segni, confondendoli, dando al falso valore di verità. Ed è più facile, sempre, credere al falso, dare credito al mentitore.
Nel suo Commento alla Bibbia, di fronte a questo brano evangelico, Sergio Quinzio non ha che lo sbigottimento: “Chi, allora, ha creduto?”. Chi dei credenti in Cristo scaccia i demoni, parla in lingue, impone le mani, maneggia i serpenti, è alieno al potere del veleno? I cinque carismi di Marco raddoppiano nelle lettere di Paolo: tra “i doni dello Spirito” indicati ai cittadini di Corinto ci sono “il dono delle guarigioni”, “il potere dei prodigi”, “il discernimento degli spiriti”. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica la voce che riguarda “I doni e i frutti dello Spirito Santo” (1830) è piuttosto lieve, balaustrata di buone intenzioni: “La vita morale dei cristiani è sorretta dai doni dello Spirito Santo. Essi sono disposizioni permanenti che rendono l’uomo docile a seguire le mozioni dello Spirito Santo”. Ciò che per Marco è un potere concreto, terreno, evidente – demoni, serpenti, veleni, lingue, taumaturgia – si volta in carisma intimo, astratto, che riguarda un’impalpabile dedizione alla fede, all’obbedire. Il segno patente diventa latente, fino a sconfinare nella scomparsa; il dato primo, che ha odore, si sbriciola nel simbolo, distante, inattivo. Tutto è dominio della metafora, bassa teurgia delle cose interpretabili, dunque fraintese, infine false.
Chi crede, oggi, non crede in chi lotta contro i demoni, in chi stringe i serpenti, parla “lingue nuove”, impone le mani e fa gargarismi con pozioni venefiche. Dall’orizzonte della predica cattolica questi cinque “segni” sono letteralmente svaniti: se ne parla durante la liturgia, nei circoli religiosi, a catechismo? Eppure, per l’evangelista Marco, per Gesù, sono solo e soltanto questi segni a chiarificare la fede di un cristiano. Privi dei segni siamo dissennati, dissacranti. Infedeli. Abbiamo rotto il segno, favorendone l’estinzione; lo abbiamo abilitato a dire il contrario di ciò che afferma, ne abbiamo bonificato le asperità, gli impossibili. Pare che l’orizzonte profondo del cristianesimo, la sua origine e il suo mistero, sia defunto in favore della presa ‘sociale’, del controllo ‘morale’ dei fedeli. È bene che i credenti – depositari dei carismi: lo Spirito non fa favoritismi di classe, di ruolo, di nomina – non si trastullino con il prodigio, l’inspiegabile, il miracolo – dunque, con Dio. Che si limitino a trovare conforto nelle belle parole di Gesù, a mungerne un sunto etico, unti di ignavia, una pia norma di vita. Il cristianesimo, così, annacquato, è la panacea per i buoni di cuore, la manna dei beati sentimenti, una specie di calmante, di dolcificante, di sonnifero. Eppure, il cristianesimo è tutto lì, violento, in quei cinque segni: cacciare i demoni, parlare in lingue, prendere in mano i serpenti, squalificare l’opera del veleno, guarire i malati. Questa è la natura del cristianesimo, l’apice, il resto è il tradimento dei filosofi, la teologia sospetta che rassicura i pavidi, che giustifica la ragione e la sua malia. Allora, stando all’evangelista, nessuno è credente, nessuno è cristiano.
“Le parole di Gesù diventarono metafore sicché il precetto di maneggiare serpenti fu interpretato come traslato del dominio acquisito sulla propria anima peccatrice, il bere veleno senza danno (mitridatizzarsi) fu visto come similitudine di un subire le tentazioni senza cedervi. Soltanto così le parole potevano circolare… La fede di Gesù, l’instaurazione magica del Regno, fu sostituita dalla fede nel Regno per il tempo dopo la morte. Su questa diversa fede, su questo messianismo dell’aldilà girò la macchina sociale cristiana. Fede nel Regno per l’aldilà, speranza in esso, carità per meditarlo”.
Elémire Zolla
Così scrive Elémire Zolla in un saggio, Esoterismo e fede, pubblicato su “Conoscenza religiosa” nel 1982 e raccolto, ora, in Dal tamburo mangiai, dal cembalo bevvi…, volume che raduna i testi di Zolla sullo “stato mistico e altre questioni di antropologia spirituale” (Marsilio, 2021; a cura di Grazia Marchianò). Pare, insomma, che in uno dei suoi sviluppi, quello prevalente, il cristianesimo abbia sacrificato la terra per i cieli, l’aldiquà per il paradiso dei tonti, la lotta contro i demoni per caute formule di esorcismo civico. D’altronde, chi ci crede nei taumaturghi, nei santi esorcisti, nelle lingue enigmatiche, chi crede in chi gioca con le vipere, in chi fa cocktail al veleno? Tutta roba, questa, delegata alla cinematografia, al circo (quando c’era), alla paccottiglia esoterica, ai maghi da cellulare, da celluloide, contro la cellulite. Stigmatizzando i falsi profeti, ci siamo inscritti nella falsità: dicendoci credenti, in cosa crediamo?, quali sono i segni che inequivocabilmente sanciscono il nostro credo?