Il Bitcoin, la criptovaluta per antonomasia e la progenitrice del criptoverso, è uno dei più grandi misteri dell’attualità. Inventato dall’inesistente Satoshi Nakamoto, pseudonimo sul quale non è mai stata fatta luce – cela l’identità di una persona, di un gruppo di persone o di uno Stato? –, il Bitcoin è l’oggetto intangibile da cui la saga del criptoverso ha avuto inizio. Il protocollo sviluppato su tecnologia blockchain. La quarta rivoluzione industriale.
Le criptovalute nascono sotto la stella del successo. Alla loro origine, infatti, si trovano il bisogno e la volontà di (tanti) di emanciparsi dal mondo della finanza tradizionale e di sfuggire ai controlli onnipresenti delle banche – il sogno del movimento Cypherpunk. La criptosfera, in quanto fondata su un sistema decentralizzato basato sull’ingegnoso stratagemma POW (proof-of-work), permette infatti a chi vi opera di nascondersi dal “grande occhio” delle banche.
Le potenzialità delle criptovalute e l’anonimato garantito dal criptoverso hanno attirato l’attenzione del crimine organizzato sin dalle fasi embrionali della Rivoluzione blockchain. Perché il criptoverso è stato ed è creduto il luogo in cui occultare, riciclare e investire i proventi di attività illecite. Ragioni che, negli anni recenti, hanno attratto anche le principali organizzazioni terroristiche del pianeta, dal Al-Qāʿida allo Stato Islamico.
Mondo, 2012. Nel deep web compare un documento intitolato Fund the Islamic Struggle without leaving a trace, traducibile come “finanzia la lotta islamica senza lasciare traccia”, contenente istruzioni pratiche e religiose per sostenere la causa dei mujāhidīn via Bitcoin. Il primo di una lunga serie. Di lì a breve, infatti, nelle riviste e nei canali delle organizzazioni terroristiche operanti in Siria, come Al-Qāʿida allo Stato Islamico, sarebbero apparsi altri poster e articoli invitanti i lettori ad usare i Bitcoin come strumenti di finanziamento.
Tutto è iniziato coi Bitcoin, ma gli esperimenti con le criptovalute delle organizzazioni terroristiche sono stati tanti negli anni recenti e sebbene le prime sperimentazioni abbiano prodotto risultati irrisori dal punto di vista economico, è possibile che il loro (vero) fine fosse più di natura propagandistica e ideologica, ovvero il contrasto di quel sistema bancario occidentale accusato di rubare i soldi ai musulmani e di stampare denaro su carta scadente.
Il punto di vista dell’Internazionale jihadista sulle criptovalute è stato espresso in maniera articolata nel manifesto Bitcoin wa Sadaqat al-Jihad (ndr. “il Bitcoin e la carità della jihad”) ed è il seguente: le monete virtuali possono essere un’arma per combattere il sistema bancario occidentale in assoluto anonimato, nonché uno strumento per finanziare i mujāhidīn aggirando l’intermediazione delle banche occidentali. La finanza islamica degenerata e distorta per fini terroristici.
La prima azione di cripto-terrorismo potrebbe essere avvenuta nel 2015. Quell’anno, infatti, sembra che siano iniziate le campagne di donazione in criptovalute di alcune realtà dell’Internazionale jihadista, come Majlis Shura al-Mujahideen fi al-Iraq, che chiedevano agli aspiranti benefattori di effettuare i versamenti, per l’appunto, in criptovalute.
Nel contesto di una delle suddette campagne, denominata Jahezona e datata 2016, i donatori avevano incanalato nelle casse dei mujāhidīn più di trecentomila dollari in criptovalute. E nello stesso anno iniziavano, ad opera della Divisione hackeraggi dello Stato Islamico, i primi cripto-reati a scopo di finanziamento – tra i casi più eclatanti è doveroso ricordare quello di Ardit Ferizi, noto come The Albanian Hacker, che iniettava virus nei sistemi di vari siti web, colpendo persino un ecommerce dell’Illinois, chiedendo due Bitcoin per rimuoverli e approfittando delle “trattative” per rubare i dati dell’utenza, alla ricerca di eventuali nomi da inserire nella kill list dell’organizzazione. 2015, l’anno delle prime donazioni in criptovalute. 2016, l’anno dei primi criptoreati. In concomitanza con le iniezioni di virus dell’Albanian Hacker, Bahrun Naim, il presunto ideatore degli attentati di Jakarta, popolarizzava i Bitcoin tra i jihadisti indonesiani e Zoobia Shahnaz, insospettabile tecnica di laboratorio con base a Long Island, truffava una serie di banche per poi donare 62mila dollari in Bitcoin a delle società fantasma, registrate tra Cina, Pakistan e Turchia, ricollegabili al Daesh.
Era il 2018 quando, nel nome della cripto-Jihad, un soldato del Daesh uccideva due turisti in Sudafrica con l’obiettivo di rubargli la carta di credito, poi utilizzata per acquistare dei Bitcoin, impiegati, a loro volta, per comprare armi e per permettere a dei commilitoni di spostarsi tra Siria e Iraq. Da allora, nonostante l’aumento dei controlli dei servizi segreti nel criptoverso, nulla è cambiato: le criptovalute continuano a essere l’improbabile alleato dei terroristi.
Le criptovalute vivono all’interno di un sistema completamente anonimo e decentralizzato – proprio come le varie sigle dell’Internazionale del terrorismo islamista – e il loro utilizzo per scopi terroristici non mostra segni di rallentamento.
La decentralizzazione del terrorismo islamista internazionale fa sì che tale fenomeno diventi difficile da controllare a causa dell’anonimato su cui si fondano le transazioni in criptovalute, perché se è vero che le operazioni possono essere controllate da chiunque, in quanto di dominio pubblico, lo è altrettanto che chi opera resta anonimo e impossibile da identificare – la protezione degli utenti è il principio fondativo della tecnologia crittografica. Il rischio di un effetto matrioska.