Il governo Draghi ha segnato una anomalia nello scenario italiano, perché non ha sancito solamente il massimo compimento di quella “restaurazione liberale”, capace di rovesciare tutte le categorie e le coordinate culturali della stagione populista, ma soprattutto perché ha causato il collasso della politica delle coalizioni, che si sono decomposte e frammentate in scismi, scissioni e fronde. Dalla faida del centrodestra, che ha usato le elezioni amministrative come una resa dei conti, al tramonto sul leader della coalizione, alle diaspore del Movimento cinque stelle, diviso tra palazzo e folla, opposizione e governo, il sogno di un Nupes italiano e l’ambizione di essere un Udeur per neofiti. Tensioni che si sono consumate mentre le forze del parlamento tramavano per riportare in voga il sogno centrista e le opposizioni extraparlamentari si accordano per trovare un punto di incontro per la rivolta alle elite, decostruendo le logiche comuni in bipartizioni sempre più polarizzate, condite da ambiguità sempre più ipocrite. In questo scenario di caos calmo, le minacce della caduta dell’esecutivo sembrano portare un punto di svolta, aprendo prospettive nuove. Elezioni? Nuovi governi? Pentimenti dell’ultimo minuto? Un caos di idee chiarissime in cui si stanno consumando cambiamenti cruciali per lo sviluppo del paese, dalla Metamorfosi kafkiana del centrodestra meloniano allo scillipotismo di Luigi Di Maio, le prove tecniche di resurrezione del terzo polo e il progetto di un nuovo corso nazionale orientato alla tecnocrazia sempre più marcato. Grande la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente per fotografare le scosse di un collasso politico-istituzionale sempre più vicino le cui conseguenze sono tutte da scoprire. Per indagare meglio i moti che stanno investendo il nostro paese, abbiamo intervistato Giuseppe Alberto Falci, giornalista politico del Corriere della sera, tra le penne più affilate del racconto del potere in circolazione. Falci, che ha scritto per il Giornale, La Repubblica, La Stampa, il Corriere e l’Huffpost, ha come numi Montanelli e Buzzati, Brancati e De Roberto. Sicilianissimo, ha iniziato seguendo la politica locale, approdando dopo poco come firma di spicco in numerosi quotidiani nazionali, studiando e scrutando giorno dopo giorno l’eccentrico bestiario della nostra politica nazionale.
-Luigi Di Maio è passato dall’essere, per la stampa, un Andreotti sovranista a diventare poi uno Scillipoti dell’elite. Come valuta la metamorfosi di questo politico che da figura cardine della rivoluzione sovranista oggi viene trattato come un garante dell’establishment?
Io la valuto come una prova di maturità e una manifestazione di un percorso politico che si è scontrato e confrontato con la realtà concreta del paese. Siamo passati in questa ultima legislatura da un Di Maio idealista, che propugnava una serie di prese di posizioni intransigenti, come quella sull’impossibilità di cambiare partito, ad un altro Luigi Di Maio che viene indicato dai suoi detrattori con un forte “scillipotismo” dopo il suo percorso istituzionale, che ne mostra il carattere anomalo rispetto agli altri parlamentari pentastellati. Infatti, già dalla sua entrata in parlamento si poteva capire che era molto diverso dai suoi colleghi di partito, per il suo abbigliamento più formale, per una sua capacità di farsi apprezzare come vicepresidente della Camera, pur mantenendo posizioni ortodosse, che poi sono mutate profondamente, forse in meglio, dopo le sue esperienze ministeriali. Luigi Di Maio ha capito i suoi errori passati, anche se è complicato immaginare un suo risultato significativo dopo le elezioni. Perché, da una parte, l’area centrista è sovraffollata di partiti e coalizioni che auspicano ad occupare questo spazio elettorale. Dall’altra dobbiamo notare che tale area difficilmente è stata capace di emergere in maniera rilevante nello scontro tra coalizioni dal ’94 a oggi, rendendo ancora più complesso un successo elettorale.
-Riguardo l’area moderata, da Mastella a di Maio, passando per Calenda, Renzi, Lupi e Toti, secondo lei “questi centri e centrini” riusciranno ad invalidare il vantaggio dei due principali macropartiti per traghettare il paese verso una soluzione di Grande Centro?
Tutto dipende dalla legge elettorale. In caso essa rimanesse quella attuale questi partiti di centro sono legati al vincolo di coalizione che, soprattutto di fronte alla presenza di collegi uninominali, renderà molto improbabile una loro vittoria contro le principali coalizioni, le quali dovrebbero oscillare tra il 30 e 40%. Bisogna però considerare un tema fondamentale, che è legato al post voto. Ovvero: cosa succederà se nessuna di queste grandi coalizioni riuscirà a ottenere la maggioranza del Parlamento? Probabilmente si ripresenterà uno scenario simile a quello del 2018, dove le forze centriste potranno avere un ruolo nella composizione dei nuovi governi, ma non credo potranno formare una alternativa alle due grandi coalizioni. Dobbiamo considerare che questi partiti poi non sono federati da un disegno comune, ma sono una mera sommatoria di personalità politiche e dei loro comitati. È complicato unire Renzi e Di Maio, o Lupi e Calenda, poiché mancano sia una piattaforma programmatica comune che un federatore unico di tutte queste componenti.
-Conte può essere invece una figura capace di unire gli scontenti della sinistra, come una sorta di Melanchon italiano?
Secondo me, Conte è stata una occasione mancata. Poiché ha guidato due governi diversissimi tra loro, uno populista-sovranista e l’altro di centrosinistra, che gli hanno però permesso di distinguersi positivamente, nonostante l’assenza di un passato politico o di una esperienza sul campo. Due esperienze di governo che hanno aumentato il suo consenso nel paese, ma che sono state travolte dalla condotta successiva di Conte. Infatti ha commesso un grave errore strategico, insistendo con la leadership del Movimento 5 stelle per varie ragioni. In primis poiché su esso grava l’ombra di Beppe Grillo. Poi i pentastellati hanno dei gruppi parlamentari che sono una polveriera, tra i transfughi verso altri partiti e la spaccatura tra anima istituzionale legata a Di Maio e quella movimentista vicina a Di Battista, profondamente ostile al governo. Una situazione spinosa che lo ha portato a stare al governo con una maggioranza di deputati che vogliono andare all’opposizione ed una altra parte ancorata al governo, che in queste settimane ha subito una scissione micidiale dopo la fuoriuscita di Di Maio e ora vive una situazione ingestibile. Nel vedere Conte come un federatore della sinistra sono abbastanza scettico. Il Partito Democratico sin dalla nascita del Conte II ha provato ad istituzionalizzare il Movimento 5 stelle, nonostante siano presenti tante anime e tra loro diverse sia negli elettori pentastellati che nei gruppi parlamentari, senza troppo successo. Ora dobbiamo chiederci oggi dove si è rifugiato l’elettorato dei 5 stelle? Sia nell’astensionismo, sia nella destra di Fratelli d’Italia o nel PD o in altre forze minoritarie e trasversali. Un movimento frantumato che ha indebolito molto Conte, la cui leadership avrà difficoltà a confrontarsi col mondo bersaniano e dalemiano o col PD e i suoi alleati più centristi, quindi sono molto scettico sulle sue possibilità come Melanchon della sinistra italiana.
-Secondo lei l’implosione di Lega e 5 stelle porteranno ad una restaurazione tecnica dopo le elezioni tramite un Draghi bis?
Non è uno scenario che mi sento di escludere, soprattutto perché il governo Draghi ha decomposto le coalizioni e non sappiamo se esse riusciranno a ricomporsi prima delle elezioni. Guardando lo scenario politico troviamo un quadro complesso e precario. A sinistra i 5 stelle vivono una profonda ambiguità e difficoltà che li porta a rimanere ancorati al governo, ma anche allo stesso tempo a voler tornare all’opposizione, con i gruppi parlamentari divisi e frantumati. Il centro destra, ormai decomposto, se fosse unito e compatto riuscirebbe anche a vincere le elezioni, ma ciò è improbabile in quanto la leadership trionfante della Meloni si sta scontrando con quella calante di Salvini e l’anima istituzionalista di Forza Italia, che non vuole morire salviniana o meloniana, portando ad una crisi che ha causato numerose divisioni e conflittualità portate soprattutto dalla mancanza di una visione o di un progetto comune. Tutte queste considerazioni possono portare alla creazione di un Draghi bis o a un futuro governo tecnico-politico post voto come punto di convergenza di fronte alle problematiche emergenziali che vive il paese. Sarebbe però uno scenario molto difficile da spiegare ai rispettivi elettorati, anche se l’attualità ci ha abituato a non considerare tali eventualità come ipotesi fantapolitiche…
-In questo scenario come valuta la metamorfosi della Meloni e di Fratelli d’Italia? Diventerà un grande rassemblement National italiano oppure una opzione tory per riportare il centrodestra alla guida del paese dopo la debacle di Salvini e l’esaurimento delle spinte liberali di FI?
La posizione di Giorgia Meloni è stata intelligente perché ha donato una opposizione dialogante al governo con una leadership chiara e coerente. Dalla vicinanza all’Ucraina alla collocazione atlantista, FDI ha instaurato un rapporto di confronto con il governo e ha iniziato un procedimento di radicamento sui territori, aiutati da una linea coerente e chiara, che hanno portato il partito meloniano a diventare il primo in Italia secondo i sondaggi. Dopodiché costruire i conservatori in Italia è molto complesso. Nel suo elettorato infatti ci sono molti elettori in fuga dai partiti moderati e dalla Lega, che mostrano che Fratelli d’Italia stia cercando di unire moderati e conservatori in un unico blocco. Se ci pensiamo, anche se in maniera molto diversa, FDI trova una forte assonanza con la vecchia DC, che da partito dei moderati cercava il consenso dei conservatori, mentre la Meloni invece da partito conservatore cerca il consenso dei moderati per raggiungere il governo del paese. Anche se secondo me la vera priorità di Fratelli d’Italia dovrebbe essere la costruzione di una classe dirigente, mentre, invece, continua a rispolverare gli stessi nomi, nonostante siano validissimi, come Tremonti, che però sono legati a una vecchia idea del centrodestra relativa all’epoca berlusconiana.
-Quali sono i riferimenti culturali di Giuseppe Alberto Falci?
Sono cresciuto leggendo i classici della letteratura siciliana, da Sciascia a Brancati, da De Roberto a Tomasi Lampedusa, con una formazione tecnica e una forte passione per il racconto della politica, che si è nutrita di una idea di giornalismo che si riassume nelle grandi firme del Corriere come Montanelli, Buzzati, Gervaso soprattutto tramite autori come Giuseppe Prezzolini.
Intervista a cura di Francesco Subiaco e Francesco Latilla