Le restrizioni che hanno caratterizzato la seconda parte della Pandemia, e la conseguente diffusione del vaccino hanno portato al centro del dibattito politico la dimensione fisica dell’individuo in quanto terreno di lotta, quella che MIchel Foucault ha notoriamente battezzato come Biopolitica. Per la verità, è fin dall’alba dei tempi che gli uomini usano decorare ed immaginare il proprio corpo per esprimere idee e posizioni. Senza andare troppo indietro nella storia, nei due secoli prima del nostro con le discussioni intorno all’aborto (sia quelle dei teorici malthusiani dell’eugenetica, che ne facevano un utile strumento di progresso, sia quelle delle femministe del dopoguerra, che invece ne facevano una vera e propria strategia di liberazione) si era arrivati ad un buon grado di consapevolezza intorno all’importanza del corpo non solo in quanto campo di battaglia, ma in quanto luogo in cui si attualizzano importanti negoziazioni di campo. Ma mai come negli ultimi due anni si era arrivati a vedere la profonda interconnessione fra medicina e politica, e quindi mai il corpo (e le operazioni che su di lui vengono fatte) si era rivestito di un’importanza così globalmente diffusa.
La caccia al vaccino è sembrato il primo momento veramente globale della nostra storia, con miliardi di persone, in Paesi lontanissimi, che, in un modo o nell’altro, ne sono entrate in contatto. Questo ha creato una varietà di risposte di incredibile interesse. Una casistica praticamente infinita di idee sul corpo che antropologi, sociologi e medici potrebbero potenzialmente studiare per molti anni a seguire. L’interesse risiede nel fatto che è stata la prima volta in cui la negoziazione individuale tra libertà (agency) e sicurezza (politica, sociale) è dovuta avvenire su una vasta scala ed in un tempo così ristretto.
Di fronte ad una tale irruzione del corpo nell’arena globale, si è configurata una narrazione piuttosto semplicistica che ha diviso il mondo in due gruppi polarizzati: i responsabili (coloro che hanno deciso di assecondare il potere, sospendendo delle libertà personali e cedendo, di fatto, l’esclusività del proprio corpo per ottenere un beneficio sociale diffuso) e gli irresponsabili (che invece, per una serie di fattori politici, economici, religiosi, psicologici hanno rifiutato tale scambio). Si noti che i due termini non sono usati per esprimere un giudizio di valore, ma per evidenziare un tipo di comportamento in risposta ad una pressione imperniata sulla responsabilità sociale, per cui l’individuo sceglie di assecondare o di contrastare una responsabilità attribuitagli dall’esterno.
I due fronti – che sono ovviamente molto meno omogenei di come appaiono in questa semplificazione – si sono entrambi premurati di configurare sistemi di comunicazioni interna e reti di solidarietà esclusive, con un’importante differenza. Dove i primi si sono potuti appoggiare ai canali, per così dire, ufficiali , o meglio, istituzionali; i secondi si sono dovuti, nella maggior parte dei casi, inventare da capo strategie di comunicazione, di diffusione e di resistenza. In questo senso, la parte del leone l’hanno interpretata i media che sono sfuggiti dalla blanda ma pervasiva censura che ha interessato i canali più mainstream. Telegram, ad esempio, ha visto una decisa impennata per quanto riguarda gli iscritti, che l’ha reso, secondo uno studio dell’anno scorso, il tredicesimo social network al mondo per numero di utenti attivi, per un ragguardevole totale di 550 milioni.
Sulla questione della censura – blanda ma pervasiva, appunto – può essere interessante notare come, durante la pandemia, abbiamo assistito alla decisiva ascesa della figura del fact-checker, un professionista la cui missione è quella di determinare la veridicità o meno delle informazioni che popolano l’etere.
Va da sé che il fact-checker sia una figura polarizzante, il cui operato non può fare altro che esacerbare gli animi in campo. Se, da un lato, il contrasto alle notizie infondate è un esercizio assolutamente necessario per mantenere gli utenti al sicuro da falsità e fregature (specialmente quella fascia di popolazione meno adusa ad internet: i cosiddetti non-nativi digitali); d’altro canto ci si potrebbe chiedere se sia davvero necessario creare una figura professionale ad hoc in grado di decidere arbitrariamente se una notizia vada bene oppure no. Non tanto – o meglio non solo – per una sfiducia piuttosto diffusa nei confronti dei giornalisti, ma più che altro perché creerebbe un precedente fastidioso e piuttosto ingombrante: un controllore onnipotente in grado di silenziare ogni tipo di contraddittorio alla meglio, alla peggio un utile ingranaggio che un qualunque potente potrebbe potenzialmente corrompere. Weber infatti asserisce che, nelle società molto burocratizzate, il vero potere si annida negli interstizi (ossia negli spazi intermedi), quindi aggiungere un ulteriore potenziale interstizio può sembrare una mossa piuttosto irresponsabile.
La figura del fact-checker è idealmente il guardiano della verità, della fattualità dai loschi individui (paranoici, superstiziosi, frustrati) che cercano di intorbidirla. Sì perché la lotta fra i due schieramenti si fa anche intorno al concetto stesso di verità. Da una parte abbiamo la verità ufficiale, scientifica, verificata. Dall’altra le informazioni corrono in molte direzioni diverse, creando molteplici forme con l’unica certezza che la verità non è ciò che ci è stato raccontato.
Lungi dal sanarsi, la spaccatura di campo intorno alla pandemia, alla sua natura e alle strategie messe in atto per contenerla, è una vera e propria matrice di una differenza radicale sui modi di vedere e agire il corpo, sull’idea di libertà, sulla verità stessa. Una differenza che rischia di avere il suo peso negli anni a venire, quando, con la relativa sicurezza che ci permetterà la distanza cronologica, potremo avere una visione d’insieme più chiara sui diversi aspetti di un evento così diffuso e complesso.