Non è Qumran. Ma quasi. La notizia, per lo più ignorata dai giornali italiani impegnati, come sempre, in cose più serie, inargenta i sogni di noi avventurieri di periferia, che hanno colonia in una suburra dell’anima. Quelli del MetService di Wellington, stazione di studio meteorologico, sono in pieno trasloco. I vecchi uffici sono in disastro, bisogna spostarsi in un palazzo di pregio. Kevin Adler, uno dei responsabili, scava tra gli archivi, in soffitta. E fa la clamorosa scoperta. I diari di bordo dell’Aurora, mitico tre alberi scelto per l’Endurance Expedition. Coprono gli anni di grazia 1916-17, quelli dell’arturiana missione di Ernest Shackleton, che andò a recuperare i compagni, imprigionati nella gogna ghiacciata dell’Isola Elefante. “Ma il 30 agosto 1916, il leggendario capitano/ Compariva a salvarli con un’altra nave”, cantano Franco Battiato e Manlio Sgalambro, in Shakleton – scritto così – ultimo brano dell’album Gommalacca.
L’altro ritrovamento riguarda i diari di bordo del Terra Nova, il veliero/baleniera capitanato da Robert Falcon Scott nella spedizione in Antartide del 1910-11. Si tratta della prima perlustrazione antartica, che sfocerà nella folle corsa al Polo Sud, nel gennaio del ’12, la morte dell’esploratore e dei suoi. I dirai di bordo – per lo più asettici, descrittivi, nudo verbo tra oceani e ghiacci – comprendono informazioni dettagliate sulle circostanze meteorologiche dell’Antartide. “Sono reperti storici inestimabili di un’epoca di estremo coraggio e sacrificio”, dicono i neozelandesi, che cominceranno a studiare i quaderni e a trovare per gli australi reperti degno riposo museale.
Nulla di nuovo ai poli bibliografici, si dirà: dei diari – più avvincenti dei crudi quaderni di bordo – di Scott e di Shackleton sappiamo pressoché tutto (leggetevi Diari antartici, un album delle meraviglie glaciali stampato da Nutrimenti per la cura di Filippo Tuena, 2010), che surplus di rivelazione dovremmo attenderci? E cosa c’entra Qumran, la grotta in Cisgiordania dove sono stati scoperti importantissimi manoscritti biblici e versetti apocrifi? Beh, detta come va detta: Antartide pare l’alcova di Dio, incubo bianco, incubatrice di dèi a go-go; è il luogo inaccessibile, finalmente inospitale, della luce indecente, che ferisce (la crudele “cecità delle nevi” a cui Shackleton dedica pagine che paiono teologia). Per questo ogni notizia che viene da lì pare la chiosa a un vangelo gnostico: un angelo si nasconde dietro ogni nevaio, oltre il velo dei diari s’inarca l’enigma e gli esploratori – brutali alla sfida – hanno la fisionomia dei profeti: il deserto pallido, albino, gelido, tuttavia, non sussurra che cupi silenzi, la gnosi del massacro.
Eppure, va fatta l’esperienza di sfogliare i Diaries of Robert Falcon Scott; è facile, basta una gita digitale nel sito della British Library. Potrete valutare fino a che grado la scrittura dell’indomito, ambizioso avventuriero corrisponda alle tracce lasciate sulla neve, al corpo/verbo che marcisce nel tempio dei ghiacci. Quei fogli, ammirati nel 1919, stordirono la fantasia del giovane Vladimir Nabokov, appena atterrato in UK dalla Russia arsa dalla Rivoluzione. Cominciò a lavorare a un testo teatrale, un atto unico, Polyus, che raccontava gli ultimi giorni di vita del temerario Scott: restò un progetto beato e naufrago, pubblicato, in parte, nell’agosto del 1924, sulla rivista russo-berlinese “Rul’”; in Italia è ancora inedito. Ve l’immaginate, Lolita al Polo Sud? Certo è che la gita nell’agone ghiacciato, al punto più estremo, l’ombelico di un dio cannibale, conduce a cupa sapienza. Le ultime lettere di Edward Adrian Wilson, naturalista, medico, compagno di Scott, morto negli ultimi giorni di marzo del ’12 nel delirio antartico, brillano di aurore mistiche.
“La morte non mi spaventa… La nostra storia è limpida: fino alla più amara conclusione abbiamo combattuto contro pesanti avversità… Ho avuto una vita felice e mi aspetto una vita altrettanto felice nell’aldilà quando saremo ancora tutti uniti. Dio sa che non temo di andare davanti a Lui – Egli sarà misericordioso con tutti noi”.
Così scrive ai genitori. Nelle fotografie di rito, Wilson possiede un’eleganza naturale, scaltra, e lo sguardo profondo, duro. Anche le navi hanno epopea. Il Terra Nova e l’Aurora sono sorte, entrambe, dai cantieri di Dundee. Il veliero di Scott tornò dall’Antartide nel 1913, continuò a operare fino al ’43, quando affonda al largo della Groenlandia; l’Aurora finì dispersa nel 1918: doveva trasportare un carico di carbone dall’Australia al Cile. L’eroico Shackleton morì un secolo fa, il 5 gennaio del 1922: voleva raggiungere ancora una volta il Polo, fu colpito da attacco cardiaco nella Georgia del Sud, a bordo del Quest, per eccesso di nostalgia, forse.
Quell’anno, mentre Shackleton agonizza ammirando Antartide come Mosè la Terra Promessa, Corto Maltese è in Afghanistan, alla ricerca del tesoro di Alessandro Magno (la storia è raccontata in La casa dorata di Samarcanda). Corto, nato a La Valletta il 10 luglio del 1887, figlio di una gitana di Siviglia immortalata da Ingres e da un marinaio inglese originario della Cornovaglia, partorito dalla penna esoterica di Hugo Pratt, non è mai stato al Polo Sud. Nelle sue inestimabili avventure – scandite da incontri pittoreschi: Jack London, Hermann Hesse, il Baron Corvo, James Joyce, Gabriele d’Annunzio, Butch Cassidy… – predilige altre altitudini: l’America Latina, la Via della Seta, Venezia, l’Etiopia, la Mongolia. Una volta si è mosso verso la Siberia (Corte Sconta detta Arcana), una volta è stato in Alaska. Parente stretto di Lord Jim, cugino di Nostromo, erede di una stralunata invenzione di Robert Louis Stevenson, Corto Maltese è arroccato in una esoterica solitudine, è l’ultimo baluardo dell’avventura fine a se stessa, per lo meno immaginata, in contrasto al mondo del lavoro sicuro, del progresso pervasivo, della felicità organizzata, turistica, igienizzata. Corto Maltese insegna a gettarsi nell’insolito, a dare credito alle battaglie perse: che bello investire le proprie energie alla ricerca di un ipotetico tesoro scomparso, che vita quella spesa, a capofitto, feroce, inseguendo l’ombra di un mistero, un’ipotesi strologata leggendo Erodoto e Abulafia, perizia da enigmisti dell’enigma.
L’impero di Corto Maltese, contro la claustrofobia del contemporaneo, anestetizzato all’imprevisto, dilaga, con irriverente spavalderia: Rizzoli Lizard ripubblica le avventure di Hugo Pratt, evviva; in Spagna “El País” celebra La aventura interminable de Corto Maltés (Editorial Confluencias ha appena tradotto come Una cita pendiente l’album di disegni, appunti, acquerelli di Hugo Pratt pubblicato da Solferino un paio di anni fa con il titolo Avevo un appuntamento), d’altronde sono spagnoli – Juan Díaz Canales e Rubèn Pallejero – i nuovi autori che perpetuano le imprese di Corto (l’ultima è prevista per il prossimo anno). In Francia, invece, al Musée d’Aquitaine di Bordeaux, una mostra – “Hugo Pratt. Lignes d’Horizons”, fino al 6 febbraio 2022 – allinea le fonti culturali (manufatti storici, studi antropologici) che stanno all’origine degli albi di Corto. Una volta a “Corto Maltese” era intitolata una rivista; durò dieci anni, dal 1983 al luglio ’93; lungo la gittata di 118 numeri si alternarono grandi disegnatori, da Milo Manara ad Andrea Pazienza, da Sergio Toppi e Guido Crepax a – ovviamente – Hugo Pratt. Si dava spazio a reportage dai luoghi più impensati del mondo; dirigeva Fulvia Serra, che in un editoriale scrive:
“In ognuno di noi si nasconde un Corto Maltese? L’ignoto, ovvero il luogo diverso, ha sempre un fascino tanto sottile?… Perché l’avventura? Perché oggi? Forse per quella sensazione sospesa di rischio che ti fa provare… forse perché siamo spiriti libri… forse perché vogliamo segare le sbarre intorno alla nostra mente… forse perché ci piace e basta?”.
Oggi per queste avventatezze non c’è spazio: siamo troppo seri, serrati in una liturgia statistica; ogni rivolta contro questo mondo è rivoltante; questo mondo va semplicemente saltato a piè pari. In una fotografia alcuni “membri della spedizione guidata da Shackleton giocano a calcio sul ghiaccio, nel 1915”. In primo piano, un torso di neve; sullo sfondo l’Aurora, aggiogata ai ghiacci. Chissà chi ha scattato la foto. Ombre che inseguono la palla: il soccer al Polo Sud, che antartico paradosso. La fotografia è resa azzurra dal tempo, immane bocca di una bestia celeste. Pare un monito.