Nel 1789, all’alba della rivoluzione francese, Maximilen de Robespierre, detto l’Incorruttibile, scriveva un saggio intitolato Les ennemis de la Patrie démasqués (I nemici della Patria smascherati). Rimuovendo la maschera dell’ipocrisia e della corruzione dal volto della società francese, i giacobini erano convinti di trovarvi sotto un popolo integro e onesto. Questa metafora ha un debito con la filosofia di Rousseau, secondo cui a rendere l’uomo cattivo è il pessimo ordine sociale, che corrompe una natura umana originariamente pura. L’uomo civilizzato è «simile alla statua di Glauco, che il tempo, il mare e le tempeste avevano talmente sfigurato da farlo rassomigliare più ad una bestia feroce che a un dio». Solo raschiando i sedimenti depositati dalla società, quindi le cattive abitudini, le morali passeggere, i costumi dissoluti, l’egoismo scaturito dall’istituzione della proprietà privata, gli individui potranno riscoprirsi autenticamente. Robespierre identificò proprio nell’autenticità rousseauiana un principio rivoluzionario da far valere contro l’ipocrisia dominante, tanto che Hannah Arendt, nel saggio Sulla Rivoluzione, afferma che il giustizialismo dei rivoluzionari, mossi da una passione ossessiva nella caccia agli ipocriti, ai traditori e ai cospiratori (e sfociata appunto nel Terrore), abbia fatto della sincerità una garanzia di uguaglianza e di incolumità politica. Per partecipare alla vita dello Stato, il citoyen doveva dimostrarsi sincero, e quindi dare prova della simmetria tra la sua vita esteriore e la sua fede interiore: doveva dirsi pronto a dichiarare guerra non solo al nemico esterno (i sostenitori dell’Ancien Régime) ma anche a quello interno, tenendo sotto controllo le sue ipocrisie striscianti. Il tentativo – dagli esiti sanguinari – di strappare questa maschera, ha finito per stemperare il confine tra la sfera pubblica e quella privata. La rimozione di questo schermo minaccia, secondo la Arendt, la possibilità di una vita interiore, e quindi di un’autonomia individuale che ci consenta di resistere alle continue intromissioni dello Stato e della sfera pubblica nella nostra intimità, senza cui si creano le condizioni perfette per il Totalitarismo. In assenza di una vita interiore che sia opaca al pubblico o al governo, nessuna libertà di volontà e di indipendenza di opinione è possibile. La maschera, infatti, è il primo attributo della persona. Il termine stesso di persona viene dal verbo latino personare, formato da “per” e “sonare”, quindi “risuonare”, in riferimento agli attori che parlavano attraverso la maschera lignea di scena. L’atto di smascherarsi, e quindi di mettersi a nudo o di parlare sempre sinceramente, ci priva della possibilità di coltivare una personalità, perché una vita interiore esposta ininterrottamente al banco di prova del pubblico, senza schermi, non può essere libera.
Da qualche tempo assistiamo a un revival della sincerità, a un vero e proprio culto di un sostantivo che nel frasario essenziale per non destare scandali né sospetti in qualsiasi discussione ricorre fino alla nausea. Passepartout, credenziale, requisito minimo per avere la fiducia dell’interlocutore, noi dobbiamo sempre dirci sinceri. Le celebrità fanno a gara per dimostrarsi sincere con i propri fan, il che spesso consiste, almeno per le donne, nel pubblicare foto struccate, di prima mattina, sui loro profili social, convinte che questo basti a far trionfare la sostanza sull’apparenza, o che sia sufficiente raccontare un aneddoto quotidiano per mettersi a nudo. Anche in politica la sincerità è divenuta un parametro più importante della verità, un criterio di affidabilità, un attributo che coinvolge e genera consenso. Non conta più quanto sia povero un ragionamento, elementare e carente di idee e di visione un discorso: la verità, o la falsità di un’affermazione sono meno importanti della sincerità con cui vengono espresse.
Incapaci di distinguere il vero dal falso in un contesto di sovrapproduzione delle informazioni, e impossibilitati ad afferrare una realtà sempre più mediata dai supporti di cui ci serviamo, siamo costretti a valorizzare la sincerità dei contenuti che ci vengono proposti. Ma questa “cultura industriale della sincerità” (Baudrillard) ha incorporato un bias cognitivo. Associamo per automatismo la sincerità alla verità, nonostante si possa reiterare nell’errore pur essendo sinceri. Ad ogni modo abbiamo fame di sincerità, lo dimostrano l’inflazione dei reality show e delle reality Tv, l’uso dei social network (e la capacità di adattamento che i social hanno dimostrato a questo uso) come confessionali perenni, il bisogno compulsivo di avere i riflettori puntanti nella nostra intimità e di vederli puntati nel cuore del nostro vicino, di cui vogliamo sapere tutto (senza il timore che questi riflettori possano far luce in zone d’ombra inopportune, che ci scoprano meschini, detestabili, ignobili).
Convinti che la sincerità sia un’illusione, e che non esista persona che non indossi una maschera, e che il cuore dell’uomo sia insondabile anche per l’uomo stesso, l’aspirazione alla sincerità ci sembra comunque dannosa, tanto più con i social network, che promuovono un’etica della trasparenza a tutti i costi. A cosa stai pensando? è la domanda di default che ci viene posta non appena entriamo su Facebook. Oltre a ipotizzare che l’utente stia pensando a qualcosa, la piattaforma lo invita e esprimere un pensiero, a condividere un’opinione o il proprio stato d’animo, a essere “sincero” con gli altri utenti. Questa sincerità è il sogno dell’algoritmo. L’algoritmo ha come scopo quello di smascherare l’utente, di leggere i suoi bisogni, vuole perciò utilizzatori che siano il più sinceri possibile, che manifestino sinceramente le loro preferenze, i loro gusti, i loro interessi, utenti che si mettano a nudo, trasparenti, quindi leggibili, decifrabili. La nostra sincerità è la merce più ambita da un capitalismo della sorveglianza che vuole accumulare dati sensibili, informazioni sociodemografiche e inclinazioni personali per elaborare un nostro profilo psicometrico e poter prevedere, e magari orientare, i nostri comportamenti. Mettiamo like, regaliamo click, scriviamo feedback positivi o negativi a prodotti, condividiamo foto, articoli, opinioni, curriculum, di ogni cosa abbiamo fatto un confessionale dove poter attestare pubblicamente l’accordo tra ciò che diciamo e ciò in cui crediamo in quel momento. Tuttavia gli algoritmi tendono a consigliarci contenuti e prodotti customizzati, targetizzati, coerenti con tutte le scelte che abbiamo fatto in passato e con tutti i dati di cui dispongono. La nostra pretesa sincerità diventa così una prigione dove è abolito l’imprevisto e l’inatteso, dove si conferma all’infinito l’idea che noi abbiamo di noi stessi, che però è sempre parziale e limitata. Insomma noi siamo molto più complessi di come ci narriamo, siamo più profondi degli aggettivi che usiamo per descriverci, della nostra foto profilo, delle caselle che spuntiamo in un questionario online, delle ricerche che facciamo su internet, dei like che mettiamo, e ogni volta che pensiamo di tradurre sinceramente il nostro io interiore, nel portarlo in superficie per renderlo visibile a tutti siamo costantemente traditi, perché i mezzi che utilizziamo, che siano le parole o i supporti messi a disposizione dai social, ci ingannano costantemente, semplificano e banalizzano il nostro universo privato nel momento stesso in cui lo esponiamo al pubblico. Una vita passata interamente in pubblico – dice la Arendt –, in presenza altrui, diventa superficiale». L’espressione dell’intimità infatti avviene soprattutto attraverso l’indicibile, prima ancora che per mezzo di una parola costruita, scambiata e dibattuta, come accade nella sfera pubblica. La maschera, allora, che opacizza e non permette di rendere leggibile il nostro universo interiore, è un meccanismo di conservazione della nostra autonomia e segnala una indisponibilità alla mercificazione del “segreto”, un postulato fondamentale di ogni libertà concreta. Lo stesso Nietzsche è convinto che «ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera». Le nostre qualità, le nostre emozioni, i motivi intimi ricamati sul nostro essere interiore, reclamano l’oscurità per poter crescere e prosperare, un’oscurità che li protegga dall’oppressione e dalla tirannia del pubblico. Sembra un paradosso, ma a forza di voler essere sinceri, non potremo più essere noi stessi.