La premessa. La “didattica a distanza” insegna che gli insegnanti sono tutto, gli insegnamenti sono sempre quelli. È inevitabile, la scuola è un rapporto: di per sé è una scatola vuota. Intendo. Se vado a scuola perché un insegnante – pregiudizialmente bravissimo – mi insegna Manzoni, beh, meglio che resto a casa. In ogni caso, Wikipedia ne sa di più. E poi, la rete brulica di lezioni affascinanti tenute da esperti preparatissimi, da impeccabili retori. La “didattica a distanza” ha fatto esplodere il fenomeno – già presente – dell’educazione spot, come merce. Nelle accademie l’esito è esplosivo: si venderanno fioriere di corsi universitari tenuti “a distanza”; chi può, si comprerà le lezioni del premiatissimo, ambitissimo accademico di Yale. La sapienza non si attua, si acquista.
Il pretesto. Un paio di sere fa ho visto Captain Fantastic in tivù. Il film, girato da Matt Ross nel 2016 come ‘indipendente’, ha avuto un certo successo. Si racconta – in termini superficiali, radicali – la storia di Ben Cash (Viggo Mortensen), specie di filosofo dei boschi, che cresce i sei figli da solo – la moglie, problematica, si è ammazzata –, istruendoli a disprezzare il capitalismo e il conformismo sociale, a sopravvivere tra le spire della natura. Morale della favola: i figli cresciuti dal babbo filosofo nell’utopia selvaggia sono eccezionali, ma infine il patto con il mondo degli uomini va sancito. La loro educazione riguardava un mix tra: scalare rocce, procurarsi cibo a mani nude, ascoltare Bach, leggere George Eliot, imparare a memoria la Costituzione americana.
Citazioni a go-go. Questo è Giorgio Colli, nei “quaderni postumi” posti sotto il titolo La ragione errabonda. “L’educazione deve essere sottratta all’Università. La scuola non può essere riformata, ma solo combattuta… Non si deve permettere di deridere la cultura: condizione per questo è di mettere fuori legge i rappresentanti odierni della cultura”. Il tema è sempre quello, ormai antico, inesauribile: Ivan Illich pubblica Descolarizzare la società nel 1971. “La scolarizzazione obbligatoria non soltanto polarizza una società, ma classifica le nazioni del mondo secondo un sistema internazionale di caste. I singoli paesi vengono cioè valutati come caste, la cui dignità culturale dipende dalla media degli anni di scuola dei loro cittadini, secondo una classificazione strettamente collegata al prodotto nazionale lordo pro capite e molto più dolorosa”. Il libro lo leggete qui.
Educare? Sorvegliare&punire. Chiunque lavori nella scuola pensa che la gabbia scolastica sia inefficace, inefficiente. Possiamo mettere vasi con i fiori intorno alla gabbia: il problema permane. Gli studenti, come piccoli operai, devono ‘dare risultato’: un burocrate valuta competenze, conoscenze, capacità, bla bla. Ogni alternativa alla scuola di Stato – ad esempio, l’istruzione parentale, di cui qui leggete le norme –, allo Stato deve fare capo. La scuola normalizza, non esalta – non può fare altro, ha ‘programmi’ da rispettare, perché anche gli insegnanti sono valutati secondo il sistema dei vassalli/valvassini/valvassori. Il sistema scolastico superiore, ricco di buone intenzioni e di bibliografia celeste, mi pare quello del sorvegliare&punire. Così, chi ha avuto una educazione anomala, indisciplinata, indipendente, di solito, appare più sagace di chi è ingrigito sui banchi. (Naturalmente, indisciplinata non significa vana né futile: diversa, piuttosto). Che sogno una scuola che coltivi le inclinazioni di ciascuno.
La scolarizzazione obbligatoria non soltanto polarizza una società, ma classifica le nazioni del mondo secondo un sistema internazionale di caste. I singoli paesi vengono cioè valutati come caste, la cui dignità culturale dipende dalla media degli anni di scuola dei loro cittadini
Ivan Illich
Gli studenti “fascistissimi”. Ho fatto il preside – pardon, il “dirigente scolastico” – per due anni, in un liceo linguistico guidato dai frati Servi di Maria (l’ordine cui apparteneva, tra gli altri, David Maria Turoldo). Fu un biennio entusiasmante: costruimmo una casa editrice nella scuola, un settimanale pubblicato da un quotidiano locale; davo la possibilità, tramite un accordo, agli studenti che lo desideravano – non a quelli più “bravi” – di partecipare a lezioni di cinese, giapponese e arabo in una Scuola per interpreti e traduttori che agiva nello stesso stabile. Mi pareva cosa ovvia&giusta: se un ragazzo abile nei linguaggi non impara il cinese a 14/15 anni, quando comincia, a 20? La novità durò poco. La scuola è gestita come un problema più che creata, gestazione dell’insolito, del meraviglioso; si trincera dietro un’armatura di normative che giustificano lo stato di fatto, la palude. Mi accorsi che i prof – non tutti, una bella fetta – desiderano gli alunni in schiera, fascistissimi, dicevo, per sfotterli: attenti, silenti, bravi&buoni, con 8 in pagella. Insomma, gli studenti non dovevano creare problemi (i loro insegnanti ne avevano già troppi): ma se non sono un problema, che senso ha insegnare? Quindi, me ne andai.
Appunti contro il perbenismo paternalista. L’idea di educazione istituita, di Stato, è contraria all’etimologia: non si trae fuori nulla, si reclude la gioventù – e il ‘corpo insegnante’ – nel gorgo di compromessi e di convenzioni. Eppure, la scuola dovrebbe essere l’estremo luogo di libertà – cioè: entro regole stabilite, posso giocare a esporre il mio pensiero, radicalmente, come non potrò mai fare – in un mondo, per natura, coercitivo. Allineo alcune domande, alcuni temi. Sono un dilettante, per cui questi appunti vanno presi per ingenuità:
*la società estorce alla famiglia, che a volte è nido a volte è incubo, i figli; la famiglia vuole liberarsi dei figli gettandoli a scuola: ma che senso ha, oggi, la scuola?
*bisogna educare le masse o raffinare le individualità? Come si concilia l’istruzione per tutti al talento di ciascuno?;
*la scuola educa cittadini non esseri umani, è pensata, cioè, per la dimensione cittadina prima che civica: perché non si insegnano i nomi degli alberi, le proprietà delle piante, le costellazioni? Perché non si insegna, insieme a Platone e alla fisica quantistica, come si sbozza una sedia, come si fa il pane? Perché non si insegna l’arte di comporre versi, non per essere poeti ma per capire sé (il linguaggio a che serve, sennò?), il tempo, il mondo – per sfidarsi, insomma?;
*godere la scuola o subirla?; la scuola, intendo, pare una prassi meccanica, esangue, con un ruolo sociale e non sapienziale;
*che cos’è la ‘maestria’ e cosa significa essere un ‘maestro’? La scuola è l’ambito dell’incontro inatteso, che forma: senza un professore di filosofia che mi ha fatto leggere Giorgio Colli, senza la prof di inglese che mi ha mostrato il genio di William Blake e quella di italiano, dell’altra sezione, che mi ha passato Gadda, cosa sarei? Ciò che mi ha formato è ciò che era ‘fuori programma’, il deforme, al di là del percorso scolastico stabilito;
*perché uniformare e unificare al posto di inventare? La scuola non deve creare operai pronti a occupare un posto di lavoro (l’ideologia trita dell’alternanza scuola/lavoro), ma uomini che eventualmente il lavoro lo creano da sé; che la scuola sia ‘inutile’ – non ha altro fine che convocare il genio – è la propria regale utilità;
*scuola vs. mondo: che rapporto deve avere la scuola, un micromondo, con il mondo; di adesione, di ribellione? Bisogna dare agli studenti capacità intellettuali & fisiche perché bastino a se stessi o renderli dipendenti da tutto il resto, saturi di una presunta inettitudine?;
*la scuola è ancella dello Stato o il bacino degli interrogativi impuri, indicibili?;
*la scuola è surrogato della famiglia oppure cenacolo, comunità, clan? Che tipo di società fonda la scuola?
*…d’altronde, a che alfabeto facciamo riferimento, alfabetizzando?;
*abolire il valore legale dei titoli di studio. Non conta il titolo, ma lo studio: la vita è la prediletta rispetto alla teoria. Ha valore ciò che uno sa, non ciò che lo Stato testimonia che sai.
Appunti inerpicati nell’illusione. Mi avevano chiesto, appunto, di scrivere qualche cosa sulla mia esperienza ‘didattica’, diciamo così. Pubblicai un lungo articolo su “Servitium”, i “Quaderni di ricerca spirituale” dei Servi di Maria. Queste sono alcune riflessioni sommarie. “Primo: smascherare la scuola. Gli insegnanti si ostinano a recitare il ruolo degli insegnanti, benché abbiano perso ogni credibilità agli occhi degli alunni – i quali, per convenienza (non si frequenta la scuola tentando il proprio destino, ma per ottenere il fatale diploma), continuano a recitare il ruolo di “studenti”. Rompere il tendone della bugia significa disintegrare il teatro con un colpo di teatro… L’insegnamento è una missione che richiede missionari. Da qui la necessità (per la sopravvivenza di una scuola fiera e clamorosa) di un collegio docenti che sia fraternità (dove, magari, si mette in comune perfino lo stipendio, cumulo di denaro pronto per risolvere i bisogni di ciascuno). A partire da questo azzeramento, l’insegnante (tramutato in maestro) recupera una autorevolezza autentica (se non altro perché all’interno del mondo-classe, insieme, si è d’accordo sul fatto che per il momento è l’uomo che di quella cosa particolare ne sa più di tutti gli altri). Secondo punto: fare delle materie scolastiche materia di vita. Che ciascuna materia divenga la tenaglia in grado di sgarbugliare l’anima degli studenti… Trasgredire da un insegnamento (che è poi ammaestramento) burocratico, incardinando la sapienza nella vita vera dei ragazzi. Perché la scuola italiana è il vero ‘terzo mondo’. La vera missione è lavorare con i ragazzi dell’Occidente ricco e bugiardo, quelli che avendo tutto credono in nulla… La cosa che impari da maestro è che l’unica forma di ringraziamento che puoi avere è l’assenza di ringraziamento. Ma questo è il segno miracoloso, il momento in cui le finzioni sono finite, che è sopraggiunta la grazia e hai liberato, meraviglioso falco di carta, il cuore del tuo studente. Più che lavagne tecnologiche di ultima generazione, siglare le proprie lezioni sulla sabbia, dentro una ciotola d’acqua. Imparo che è troppo facile – nell’assoluta difficoltà – parteggiare per il bene: occorre accettare il male, e amarlo, morendo per il bene di chi ci ha mandato al patibolo”.
Allevare elettori in batteria. Gli insegnanti – non tutti, alcuni – sono maestri: spesso impediti a sperimentare. Alcuni lo fanno. Marco Merlin, ad esempio, che insegna alle scuole medie con una destrezza da poeta. Insegna, in effetti, una ‘poetica’ della scuola. Con visionaria fermezza. Quanto al resto, si parla tanto di scuola senza farla, se ne scrive senza agire, si frena col sorriso ogni cambiamento, si frana nel consueto. I politici ne chiacchierano per fini elettorali: in fondo, a tutti va bene che le scuole siano degli oratori che all’esercizio critico antepongono il compito, il compitino. Allevare elettori in batteria – concimando frustrazioni – per alcuni è un vanto. D’altronde, il sogno è lo stipendio fisso, mica l’avventura, l’avvenire.